“To forget Venice” per ricordarla con amore. Parla la poetessa Peg Boyers

GUIDO MOLTEDO
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È appena uscito il libro di poesie dedicato alla città dove l’artista statunitense visse da bambina e alla quale è rimasta legata. Un ritratto personalissimo di una città unica, con toni anche amari, non da cartolina. L’abbiamo incontrata a Ann Arbor

astratto
ANN ARBOR. Ascoltare Peg Boyers mentre si muove, con i suoi versi, tra le calli e i campi dei suoi ricordi veneziani, è sentire l’aria della laguna. Eppure Venezia è davvero distante. Siamo in una sobria e luminosa sala dell’università del Michigan, a Ann Arbor. Su invito dell’Institute for the Humanities, la poetessa statunitense presenta la sua recente raccolta di poesie “To Forget Venice” (The University of Chicago Press), e, sollecitata con gentile autorevolezza dal professor Nicholas Delbanco, ne legge alcune a un pubblico attento e coinvolto (video). “Dimenticare Venezia”, dice il titolo, rievocando quello di un film elegante e malinconico che ebbe successo a fine anni Settanta. Ma si direbbe il contrario, parlando con Peg, dopo la presentazione del suo libro: il ricordo di Venezia è, in lei e nei suoi versi, più vivo e vitale che mai. Il suo libro è un un omaggio alla città dove visse per alcuni anni da adolescente, e dove è tornata e torna spesso. Una nipote, sposata con un veneziano, vive a Venezia: è la sua “famiglia veneziana”.

Certo, è una città verso la quale ha sentimenti molto contrastanti, alcuni di sofferenza e insofferenza, gli stessi che provano molti veneziani, addolorati per il suo degrado. In “Rialto” ne descrive la “splendente sporcizia”, “il fetore dell’acqua bassa”, “la puzza del mercato del pesce”, “l’inevitabile topo”. Spiega: “Non volevo rendere nelle mie poesie una città falsa, da cartolina postale, ma una città vera, non idealizzata. Forse ho raggiunto lo scopo un po’ troppo bene nel ritratto che emerge nelle mie poesie. Non ho parlato di tutto ciò che amo profondamente. Non ho voluto parlare, come tutti, della luce risplendente. I riflessi dappertutto, l’acqua, la bellezza di ogni angolo della città (che non ha angoli…). E poi, quel topo, purtroppo l’ho visto una sera tornando da San Stae a casa nostra vicino Santa Maria Formosa, e mi ha spaventato!”

cover to forget venicePeg Boyers, oltre a essere un’apprezzata poetessa e scrittrice, dirige una delle più prestigiose riviste letterarie americane, Salmagundi, e insegna letteratura inglese allo Skidmore College. Ammiratrice e studiosa di Natalia Ginzburg, ha scritto una raccolta di poesie, Hard Bread, “parlate” con la “voce” della scrittrice italiana, di cui rivive i vari momenti biografici. Nata a San Tomé, in Venezuela, Venezuela, ebbe un’adolescenza in giro per il mondo per approdare con la madre, cubana, a dodici anni, a Venezia. In un paio di poesie – Crossing e Arrivata – racconta l’arrivo a Venezia, via nave. “Avevo immaginato, per anni e anni, quell’arrivo romantico a Venezia a bordo di una nave di lusso, entrando in città attraverso la laguna – racconta la poetessa – . ma le cose non andarono proprio così. Il mio primo viaggio a Venezia fu scomodo, un viaggio piuttosto brutto e faticoso, in treno, dopo un mese intero in nave, in una cabina di seconda classe, arrivando a Genova. Non a Venezia. Durante tutta la traversata soffrivo il mal di mare e mi presi pure la bronchite. Avevo dodici anni e non sapevo niente di niente.

L’impatto con Venezia, con quegli edifici che allora mi sembravano cadenti, io così stanca: no, all’inizio non fu un’esperienza positiva. Per la ragazza di allora, una casa buona era una casa nuova, moderna. Ero cresciuta, fino a quel momento, fra americani alquanto primitivi: quelli che lavoravano per le compagnie petrolifere. Di solito erano del Texas o dell’Oklahoma. E nei paesi in cui si estraeva il petrolio – Indonesia, Libia, Nigeria e Venezuela – si poteva avere tanta servitù in casa. All’improvviso mi ritrovavo con mia mamma, senza alcun aiuto. Non parlavo nemmeno la lingua. Il vaporetto era pieno, avevamo bagagli: troppi bagagli. Mia madre non era americana, era cubana: frugale e stoica e sensuale e, purtroppo, non molto attenta ai bisogni di sua figlia. (In quasi due anni a Venezia non mi ha iscritta a scuola, per esempio…). Non vado oltre nel racconto – “too much information”, diremmo qui – l’importante è sapere che la ragazza nella poesia non è assolutamente Peg Boyers. È un’invenzione letteraria. Ho cercato di immaginarla onestamente, quella ragazza americana, ignorante, alla soglia dell’età adulta. Era stanca, e triste di non essere più dove aveva vissuto comodamente, in Indonesia nella sua casa prefabbricata, tipo “ranch”, con il bosco intorno, piante e fiori dappertutto, col babbo e con la servitù. Rassomiglia, quella ragazza nel mio libro, a una certa Peggy O’Higgins, la ragazza che ero io, ma si capisce che nella poesia è consentita un po’ di ‘licensa poetica’. In breve la Peggy ha imparato italiano, e si è innamorata per sempre di Venezia. Ma non era stato così nel principio”.

E oggi, quando vede passare di fronte a San Marco le grandi navi da crociera, cosa prova? Che cosa direbbe a un turista americano, se le chiedesse un parere?
NON PARTICIPATE A QUESTO CRIMINE!

In molte opere letterarie sembra non ci siano spazio e tempo per i veneziani, ma solo per Venezia. È come se fossero solo comparse, i suoi abitanti reali. Non nelle sue poesie…
Naturalmente il mio vissuto è quello di una straniera, ma nel mio libro piccolo e imperfetto vi ho incluso anche esperienze e descrizioni di veneziani veri. Ci sono gli operai in “To Lenin from Venice”. Ci sono gli ebrei in “The Jewish Cemetery, Lido”. Ci sono le vedove, tornando da San Michele. C’è la famiglia italiana poliglotta al Lido (identica alla mia veneziana, dove si parla tedesco, francese, inglese, italiano e veneziano, tutti insieme). C’è il croupier del casinò che abita vicino a Campo Santa Maria Formosa. C’è la signora Casanova. C’è Carlo, l’‘uomo’ dei Ruskin. Ci sono i veneziani che comprano l’anguilla a Rialto per la cena della vigilia. C’è la donna dipinta come la Maddalena di Tiziano, morta di peste lo stesso anno in cui morì l’artista. I preti armeni di San Giorgio Maggiore. I degenti di San Servolo quando era un manicomio. C’è Giorgione, con il suo quadro stupendo. C’è la Biennale e la realtà di una giornata a piedi da Cannaregio ai giardini. Le chiese, le vie, i sottoportici, i palazzi, le rive, le fondamente, anche tutto questo – cose inanimate – sono veneziani veri, secondo me, e ho cercato di evocarli con affetto sincero.

Come era la Venezia della sua infanzia? Che cosa ricorda di allora, della città?
Era bellissima, tanto allora quanto adesso, ma forse con un po’ meno turisti. A Venezia ci sono sempre stati, i turisti; adesso la situazione è peggio che mai, però. Abitavo a Castello, una zona piuttosto popolare, non molto turistica, tranne la riva. La mia esperienza della città era di una ragazza fra adulti dedicati allo studio di Venezia, cosi la mia realtà non era normale. Ho conosciuto qualche “teenager” veneziana ma non andavo a scuola. Le attività dei miei giorni erano in famiglia, star dietro a delle mie nipotine, aiutare a casa, magari leggere dei libri quando non dovevo dare una mano a qualcuno. Ho letto tutti i libri di Agatha Christie, ma niente di storia, matematica o letteratura importante. A un certo punto sono andata a lezione privata da una monaca in francese – chissà perché. Accanto –o vicino—gli archivi di stato dove andava ogni giorno mio cognato c’era un convento delle suore francesi di Nevers. Era facile prendere il vaporetto su e giù con mio cognato quando avevo la lezione di francese. Sicuramente era stata sua, di mio cognato, l’idea che io cercassi d’imparare qualcosa. Ma non sono andata in una scuola normale con i ragazzi della mia età. Non direi che ne soffrivo. Ero felice con la famiglia, con le bimbe, anche con la mamma. E mi sembrava divertente non andare a scuola. Camminavo molto da sola e con le bambine dappertutto nel labirinto delle calli, che oggi sono come allora. Molti giovani veneziani sono dovuti andar via, per trovare lavoro, se vogliono fare un mestiere che non abbia niente a che vedere col turismo. Questo è un grande cambiamento. Nei negozi incontri gente di altre città, non i veneziani. Se ti perdi e chiedi indicazioni, e ti rivolgi a un giovane, quasi sempre non sa aiutarti perché caso mai abita a Mestre o più lontano e non conosce bene le calli di Venezia. Bisogna chiedere a gente anziana come me!

A Venezia è stata come bambina, come madre, come nonna. Se dovesse tornarci a vivere in quale di queste condizioni le piacerebbe essere di nuovo?
Bella domanda: sono superstiziosa, cosi non vorrei tornarci, come bambina. Troppo rischioso! Anche se vecchia, sono sempre più madre che altro, e sono contenta così. Sono stata a Venezia parecchio con nostro figlio ed è stata una grande gioia vedere svilupparsi il suo grande amore per la città che io amo tanto. Adesso anche suo marito viene con noi, a volte, e pure lui è entrato tra gli amanti di Venezia. Mio figlio parla italiano e apprezza tutto ciò che è italiano, come va apprezzato! I figli di mio marito (i quali sono pure ‘miei’ ma maggiori) sono piu americani. Loro e i loro figli conoscono Venezia ma non sono tanto appassionati.

Rio Marin, Zattere, Ponte della Maddalena, Rio San Trovaso, Giudecca, Castello, Fondamente Nove. Sono alcuni dei luoghi veneziani che appaiono nelle sue poesie. Hanno ognuno di loro un significato particolare nella sua memoria?
Sì, come no: agli inizi, appena arrivati, la mamma ed io abbiamo vissuto a Dorsoduro, nell’appartamento di mia sorella e mio cognato a Rio San Trovaso. Ogni giorno si andava alle Zattere con le bambine per fare la passeggiata. Vicino c’era la Locanda Montin dove si mangiava spesso. Rio Marin, Ponte della Maddalena sono nomi di quel periodo che ricordo, ma non come posti “sacri”. La Giudecca, dove abitavano due artisti americani in un palazzo (si chiamava Tre Oci mi pare, perché aveva tre grande finestre alla facciata), un posto favoloso, misterioso, e tale rimane per me. A volte si facevano feste li e io ero sempre inclusa. L’appartamento a San Trovaso era piccolo e, siccome al pian terreno, era molto umido. Ero asmatica allora, e lo sono ancora, e non era l’ideale per me quell’appartamento. A un certo punto abbiamo trovato un appartamento grande e bello, pieno di luce, in calle della Pescheria, a Castello, vicino alla fermata Arsenale. Fondamente Nove appartiene a una epoca più recente: avevamo un appartamento vicino alla chiesa dei Gesuiti. Era un palazzo bellissimo di una vedova tedesca e per due settimane di favola abbiamo avuto due piani per noi e i nostri figli e nipoti. Eravamo in dieci!

Cimitero ebraico è una delle sue poesie più belle. È un luogo poco conosciuto del Lido e di Venezia. Ci è più tornata nelle sue visite a Venezia? E il Lido, è ancora quello della sua infanzia?
Grazie per il complimento riguardo la poesia! Ah, il Lido: forse sono io, dopo tanti anni, quella che cambia, più che altro. Il cimitero è lì, come sempre, a San Nicolò, ma purtroppo è quasi sempre chiuso. Non ci andiamo spesso. Scendendo dal vaporetto andiamo subito in spiaggia, alla capanna della nostra famiglia veneziana. Una delle mie nipoti è nata a Venezia, e insegna storia di Venezia. È sposata con un veneziano e la sua famiglia veneziana è la mia ormai. Hanno casa a San Stae, ma d’estate si va al Lido ogni giorno.

Ogni anno trenta milioni di turisti visitano Venezia. Molti per un giorno solo. Teme che si trasformi in una Disneyland, in un parco tematico? Ha mai pensato a che cosa si può fare per fermare questa marea?
Non saprei come migliorare la situazione. È chiaro che la situazione è gravissima. Il peso di tutti quei corpi— e non parliamo dei rifiuti di tutta questa gente — danneggia le fondamenta stesse. E poi i negozi, vendendo tutta quella roba turistica non sono attraenti Ma ormai la economia ha bisogno dei turisti. Non è possibile fermare la marea dei turisti chiudendo la città con un grande cancello. La marea, quella vera, a fermarla dovrebbe pensarci, si spera, il Mose, ma non sono una scienziata per dirlo.

È ottimista sul futuro di Venezia? Teme per la sua salvaguardia?
Come essere veramente ottimista? Non è possibile. Sono brava con l’immaginazione; ma neanche io riesco a immaginare un futuro facile per Venezia. Non abbiamo custodito il mondo bene, noi esseri umani, e Venezia è fragile. Il riscaldamento globale finirà per distruggerci tutti. Ma i veneziani sono la gente più in gamba del mondo, e forse troveranno modi di sopravvivere anche a questo. Che Venezia, la città di Venezia sia costruita sul acqua, è il fatto più improbabile che ci sia. Spero che l’ingegnosità veneziana troverà una soluzione.

“To forget Venice” per ricordarla con amore. Parla la poetessa Peg Boyers ultima modifica: 2015-01-13T15:27:41+01:00 da GUIDO MOLTEDO
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