ARNALDO TESTI
Nelle sale italiane arriva La strada per la libertà (Selma) diretto da Ava DuVernay. Chi può dovrebbe vederlo in originale inglese.
“You’re an activist, I’m a politician”, dice il presidente Johnson a Martin Luther King. Questo è il cuore politico di Selma, il film. E per una volta, grazie alla regista afro-americana Ava DuVernay, il rapporto fra l’attivista e il politico, fra l’outsider e l’insider, è raccontato dal punto di vista del primo e non del secondo. L’attivista agisce e il politico reagisce, e ciò è fruttuoso quando è fruttuoso. Johnson non è il cattivo della favola, come è sembrato ad alcuni ipersensibili commentatori americani bianchi. Che si sono appigliati, va detto, all’unico vero passo falso della sceneggiatura, cioè all’allusione che sia stato lui a chiedere a Hoover di usare il materiale scandalisco raccolto dall’FBI per rovinare la vita famigliare di King. Non ci sono prove che sia vero, e usare l’allusione, la strizzatina d’occhio allo spettatore, è pratica sleale. Detto questo, molto semplicemente, LBJ non è il centro morale del film. Quel posto è di King e della gente nera (Negroes con la maiuscola, nel linguaggio del tempo) che lo circonda.
Johnson non è il cattivo del film, non è un ostruzionista. È piuttosto tratteggiato come una figura complicata e dinamica, un presidente che è infastidito dal dover trattare con un popolare leader extra-parlamentare (lo era anche Kennedy), un ambizioso manipolatore che vuole imporre la sua agenda e i suoi tempi – ma che alla fine capisce dove va il mondo ed elabora le sue ambizioni nel presente e nel futuro, per il posto che occuperà nella storia, in maniera costruttiva.
Il suo discorso al Congresso, a camere riunite, per appoggiare il Voting Right Acts è un momento emozionale alto del racconto, lusinghiero, quasi adulatorio. Lo sarebbe ancora di più se, in italiano, si capisse che la sua frase di chiusura, nell’originale filmico e storico, è qualcosa di diverso da un banale “ce la faremo, saremo vittoriosi”. È “We shall overcome”, il titolo della canzone di origine sindacale che è diventata l’inno del civil rights movement. Johnson, insomma, con un colpo di genio, fa suo lo slogan della protesta di strada.
Il centro morale del film è di King e dei dirigenti del movimento. E qui Selma è al suo meglio. King non agisce da solo, è un primus inter pares. In pubblico è la presenza carismatica, eloquente e trascinante, e su questo, è inevitabile, il film va visto in versione originale. È perfetto anche per i mass media. Dietro le quinte partecipa alle decisioni collettive su tattiche e strategia in maniera dura e realista. Le dimostrazioni non-violente non sono pranzi di gala, la violenza razzista è ovunque, nella polizia, al bar, dietro l’angolo; si va a farsi arrestare, picchiare e magari ammazzare, si guidano altri al pericolo.
Ci sono punti di vista diversi, tensioni fra compagni di lotta, incertezze, ripensamenti, la paura (la nebbia) della morte – così è la vita. C’è spazio per includere Malcolm X, che dice di essere venuto a dare una mano come spauracchio per i bianchi, l’alternativa violenta se King dovesse fallire. (Malcom andò davvero a Selma in visita privata, e si scusò con Coretta per le espressioni pubbliche di dileggio verso il marito; nulla si sa del resto. Dopo poche settimane fu assassinato.)
Il centro morale è di King e dei dirigenti intorno a lui – anche troppo, per molti versi. Il film non guarda abbastanza from the bottom up, dal basso, alla genesi e alla struttura plurale, diffusa e radicata del movimento. Ciò che succede prima dell’arrivo di King e del suo entourage, al di sotto del radar dell’attenzione, resta ai margini, lo si indovina appena.
C’è l’attivista locale della sua organizzazione, il Southern Christian Leadership Council, che dice “siamo pronti, abbiamo fatto tanto lavoro preparatorio in città”. Ma quel lavoro non si vede. Ci sono i due attivisti studenteschi John Lewis e James Forman, presentati come fratelli minori arrabbiati e un po’ troppo radicali (si sa come sono i giovani). Ma neanche il community organizing di lunga lena del loro Student Nonviolent Coordinating Committee, lo SNCC dentro il quale sta per nascere la nozione di Black Power, si vede e si apprezza. Ci sono le donne. Ma restano figure di contorno rispetto a una dirigenza tutta maschile.
In effetti, anche la figura di Johnson non è sviluppata a dovere. E ciò fa perdere un po’ di pathos al dramma politico. In questo inizio di 1965, LBJ è preso da mille cose. Incontra King mentre è in corso l’escalation di guerra in Vietnam; mentre sta lanciando la Guerra alla povertà che, dice, avrà effetti positivi anche per gli afro-americani. Per fare questo, le riforme e la guerra, il burro e i cannoni, gli è necessario il consenso di tutto il suo partito. Alle elezioni presidenziali del 1964 ha avuto un mandato plebiscitario e i Democratici hanno conquistato maggioranze clamorose in Congresso. Ma ha pur sempre bisogno dei Democratici del Sud. Non so se risulta chiaro dal film, ma quando Johnson maltratta George Wallace, il governatore razzista dell’Alabama, maltratta un compagno di partito. È l’unità storica del partito che è in gioco. LBJ, lui stesso uomo del Sud, texano, sa che sulla faccenda del voto ai neri l’ala meridionale se ne andrà, per sempre. E alla fine accetta il sacrificio.
Ma insomma, ci sarà pure prima o poi uno Spielberg che faccia per LBJ il film gemello di Lincoln. Non si può mica pretendere che ci sia tutta qui la storiografia su King, Johnson, la politica dei movimenti dall’alto e dal basso, la leadership carismatica e il lavoro di comunità, l’intreccio fra movimenti sociali e partiti, gli anni Sessanta nel loro complesso. Ce n’è abbastanza, e di buona, in queste due ore di cinema molto tradizionale, talvolta un po’ lento, ma efficace, intenso e coinvolgente. Non volava una mosca nella sala strapiena in cui l’ho visto.
Darryl Pinckney, sulla New York Review of Books, http://www.nybooks.com/articles/archives/2015/feb/19/some-different-ways-looking-selma/ dice che i film storici, anche quelli fatti bene come questo, ci ricordano che “il libro è tuttora l’unico medium in cui si può sviluppare un ragionamento complicato”. Immagino che sia vero. Certo è confortante per chi si arrabatta a scrivere libri di storia. E tuttavia, anche andare al cinema non è male.
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