Bibi e Barack, due “americani” in conflitto

GUIDO MOLTEDO
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Non è solo personale il contrasto tra Obama e Netanyahu, non riguarda solo la “chimica” del rapporto tra i due, ma pesa molto. Domani il premier israeliano parla al Congresso di Washington.

BIBI BARACK

Non è solo inconsueto e anomalo che un capo di stato straniero, a Washington, non sia ricevuto alla Casa Bianca ma è “un fatto strano, se non unico” – l’ha definito il segretario di stato John Kerry – che parli dal podio più importante della capitale, in conflitto aperto con la politica presidenziale, su un tema di politica internazionale di portata strategica e che riguarda la stessa sicurezza nazionale americana, in una vera e propria campagna contro la Casa Bianca. Un fatto senza precedenti, quello che accade domani a Capitol Hill con l’intervento di fronte alle due camere riunite in seduta comune del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, su invito dello speaker della camera, il repubblicano John Boehner.

Degli effetti devastanti, già prodotti dall’iniziativa di Bibi, sulle relazioni israelo-americane e, soprattutto, delle lacerazioni nella comunità ebraica statunitense abbiamo già detto.

C’è da aggiungere che nuovi strappi, altre ferite provoca l’iniziativa politica del premier israeliano nel corpo del Partito democratico, in particolare tra le sue componenti storicamente e culturalmente fondative. Basti dire che trenta tra deputati e senatori non assisteranno alla performance di Netanyahu, metà dei quali africano-americani. Che, evidentemente, considerano la “provocazione” di Bibi anche offensiva verso il presidente nero, un’offesa che forse non avrebbe osato neppure immaginare nei confronti di un presidente bianco.

Non c’entra niente, il razzismo, sia pure sotto traccia? Probabile. Sta di fatto che quel che accadrà domani ha fortissime implicazioni emotive, che complicano i tentativi di una fredda “lettura” solo politica.
A partire dal fatto stesso, evidente, che tra i due personaggi c’è una questione personale che pesa tantissimo.
In modo diverso, ma nella stessa fase storica, il capo dell’unica superpotenza globale – economica, politica e militare – e il leader di un piccolo paese, ma enormemente importante, si considerano e sono anche considerate due figure che “fanno la storia”.

Da una parte, il primo presidente africano-americano, il primo presidente, che – già da candidato alla Casa Bianca – considera davvero la guerra come la carta estrema da giocare, quando falliscono la politica e la diplomazia, e che fa suo – più di Kennedy stesso – il principio secondo cui l’America non dovrebbe “mai avere paura di negoziare” con i suoi nemici.
Dall’altra, un primo ministro d’Israele, in cerca del terzo mandato (si vota il 17 marzo) che si considera investito di una missione di portata “esistenziale” per il paese che egli guida, paragonabile a quella che rappresentò il nazismo e che oggi è costituito dalla possibilità che l’Iran, il nemico d’Israele più temibile della regione mediorientale, si doti dell’arma nucleare. “Ho un obbligo morale a parlare ad alta voce di fronte a questi pericoli finché c’è tempo per evitarli” ha detto di fronte ai sedicimila delegati della principale lobby ebraica americana, l’American Israel Public Affairs Committee AIPAC, riunitiasi nel suo congresso annuale, proprio alla vigilia del previsto intervento di Bibi di fronte al Congresso.

Non solo uno scontro di personalità

“Penso davvero che sia importante capire che in ballo tra i due c’è più di un semplice scontro di personalità”, ha detto a Stephen Collinson di CNN Politics Digital Jeremy Ben-Ami, presidente di JStreet, organizzazione progressista pro-Israele nata nel 2008 come contraltare di Aipac e delle altre organizzazioni ebraiche “mainstream”. “Si tratta davvero – dice ancora Ben Ami – di un disaccordo fondamentale e riflette le sottostanti visioni del mondo tenute non solo dai due ma anche da due rispettivi campi”.

BIBI BARACK 2

Ma indubbiamente, il divario temperamentale e psicologico è un fattore di grande rilievo.
I due non sono stati mai né amici né in simpatia, ma anzi hanno apertamente dato a vedere una reciproca diffidenza e negatività.
“Talvolta mi chiedo se non ci troviamo di fronte a una situazione nella quale abbiamo uno che è professore di legge ed è molto cerebrale e ha questo senso universale di come le cose dovrebbero sottostare alla legge internazionale”, dice il mediorientalista David Makovsky a Stephen Collinson a proposito di Obama. Dall’altra parte c’è “uno che è convinto di vivere in una regione che è il Medio Oriente e che crede che un sacco di categorie che insegnano alla facoltà di legge non siano applicabili in questo quartiere”.

Sì, Barry, come è chiamato dagli intimi Barack Obama, e Bibi, come tutti chiamano Benjamin Netanyahu, non si sopportano vicendevolmente, con la differenza che il primo considera Bibi il male minore (guardando all’attuale “geografia” del potere politico israeliano, popolata da personaggi come Avidgor Lieberman), mentre Bibi non ha alcuna considerazione di Obama, nel senso che già si muove nei suoi confronti come con un’anatra zoppa a fine mandato e si rapporta con quella che è già oggi la maggioranza politica in America e potrebbe diventarlo il prossimo anno anche alla Casa bianca. Una maggioranza ultranconservatrice amica.

CONGRESSO

Per paradosso, la frizione tra i due è resa più acuta dal fatto che Bibi è il primo premier israeliano “americano”.
Benjamin Bibi Netanyahu è il primo premier israeliano a essere nato (1949) in Israele dopo la costituzione dello stato ebraico. Ed il più giovane nella storia ad aver assunto la premiership israeliana. Ma è anche il primo premier culturalmente “all American”. Parte rilevante della sua biografia, della sua formazione, dei suoi riferimenti e legami s’intreccia con gli Stati Uniti. Mai un leader israeliano aveva avuto un altrettanto notevole capacità di interagire personalmente con gli ambienti politici, culturali ed economici americani. Fino al punto di essere un protagonista nella dinamica politica statunitense, come ne facesse parte, tanto che, se l’avessero consentito le circostanze, avrebbe potuto fare carriera politica in America.

Il liceo in Pennsylvania, l’accento di Filadelfia

Il rapporto con l’America inizia presto, nella vita del futuro premier. Dopo l’infanzia e la prima giovinezza a Gerusalemme, nel 1963 Netanyahu va oltre oceano. La sua famiglia vive in Pennsylvania, a Cheltenham Township, un sobborgo di Filadelfia, dove Bibi frequenta il liceo locale, prende il diploma ed è attivo nel debate club, una di quelle “palestre” studentesche che organizzano “gare” di dibattito, e molti futuri politici si fanno le ossa per i futuri reali tornei dialettiici. Degli anni di Filadelfia, gli resta lo spiccato accento della città.

Dopo il servizio militare tornerà negli Usa, a Boston, per studiare architettura al Mit, il Massachusetts Institute of Technology. Studia anche a Harvard, scienze politiche, lo stesso ateneo dove Obama dirigerà, agli inizi degli anni Novanta, la prestigiosa Harvard Law Review. In quegli anni Benjamin cambia nome, si fa chiamare Benjiamin Ben Nitai (in riferimento al monte Nitai), una decisione che gli sarà fatta pesare in seguito dagli avversari politici come sintomo di una mancanza di attaccamento e lealtà all’identità israeliana.

In un’intervista chiarirà di averlo fatto perché il suo cognome era di difficile pronuncia per gli americani.
Nel 1976, con due lauree, in architettura e in business management, comincia a lavorare nel settore privato, prima con la Boston Consulting Group (Bcg), una società di consulenza di affari internazionale, e, successivamente, promosso a senior management, presso la Rim Industries Ltd.

L’amicizia di vecchia data con Romney

Alla Bcg, la sua vita s’incrocia con quella di Mitt Romney, e cominceranno un’amicizia e un sodalizio robusto che durano ancora oggi.
Rientrato in Israele, Netanyahu è poi di nuovo negli Usa nel 1982. Ha trentatré anni ed è già un alto dirigente politico. Infatti torna in America, inviato da Moshe Arens come numero due dell’ambasciata israeliana a Washington. Due anni dopo il balzo a New York, dove assume la guida dell’ambasciata alle Nazioni Unite, posto chiave per la diplomazia israeliana. Resta al palazzo di vetro fino al 1988. Poi il ritorno in patria e la carriera politica che lo porta ai vertici del paese.
Ci arriva anche grazie a una campagna elettorale in puro stile americano, quando vince le elezioni, nel 1996, contro Shimon Peres, grazie alla strategia di Arthur Finklestein, un political operative repubblicano che ha avuto tra i suoi “clienti” anche Ronald Reagan.

La campagna elettorale “all’americana” di Netanyahu sarà imitata dal suo rivale, il laburista Ehud Barak, che lo batterà nel 1999. E da allora, nel campo della comunicazione e non solo, il modello americano egemonizzerà la politica israeliana, rimasta al tempo stesso, per altri versi, molto “italiana” nella sua tendenza alla frammentazione, al conflitto e alle manovre machiavelliche.

Anche la vita privata di Netanyahu s’impasta con l’America. La sua terza e attuale moglie, Sara, era una hostess nella linea tra New York e Tel Aviv e fu in uno dei voli transatlantici che la conobbe. E anche una sua relazione extraconiugale, di alcuni anni fa, è con un’italo-americana, Katherine Price-Mondadori.

La relazione speciale tra Usa e Israele

Questa consuetudine con l’America avrebbe dovuto rendere ancora più forte la “special relationship” che unisce storicamente Usa e Israele fin dal 1948. Washington riconobbe il nuovo stato undici minuti dopo la proclamazione della sua indipendenza. E da allora, se si pensa solo all’assistenza economica, l’America ha dato aiuti a Israele per un totale di cento miliardi di dollari, più le forniture e la consulenza militare, senza contare i finanziamenti privati. Senza alcuna opposizione, e in tempi di vacche magre, il Congresso intende stanziare 225 milioni per il sistema di difesa anti-razzi, l’Iron Dome.

Eppure, proprio l’essere un “insider” della politica americana, rende il capo del governo israeliano più una sorta di oppositore interno a Obama che un suo alleato. Questo è apparso particolarmente evidente nelle elezioni presidenziali del 2012, quando l’antica amicizia con Mitt Romney si è trasformata in un plateale asse politico teso a impedire la rielezione di Obama. Mai prima di Romney, un capo di stato estero, sia pure il massimo alleato e amico degli Usa, aveva preso parte attivamente alla campagna presidenziale americana schierandosi con uno dei contendenti.

Romney, da parte sua, giocò con grande spregiudicatezza la carta dell’amicizia con Bibi per conquistare il voto ebraico, tradizionalmente in maggioranza democratico, e per prendere altri consensi nell’elettorato cristiano conservatore, molto filoisraeliano, un elettorato che guardava con sospetto alla sua fede mormone.
Si arrivò al punto, in campagna elettorale, in cui Romney affermò che non avrebbe preso alcuna decisione significativa riguardante Israele e il Medio Oriente – se fosse stato lui il presidente – senza prima consultare Netanyahu. Martin Indik, già ambasciatore di Clinton in Israele e fino a poco tempo fa braccio destro di John Kerry, commentò dicendo che Romney, con le sue parole, «avrebbe appaltato la politica mediorientale a Israele».

Dopo la sconfitta di Romney, Netanyahu non ha smesso di essere una spina nel fianco di Obama. L’attuale ambasciatore di Israele a Washington è Ron Dermer. È nato e cresciuto in America, è stato molto attivo nel Partito repubblicano, molto legato ai Bush. E intimo di Bibi. Nel 2012 organizzò la visita di Romney in Israele. 43 anni, vulcanico e dialettico, è una presenza costante nelle tv americane. Obama non ha gradito la nomina ma non l’ha bloccata. Col consiglio di Kerry l’ha accettata. Secondo il segretario di stato, come ha scritto il New York Times, avere a portata di mano un intimo di Netanyahu avrebbe presentato «l’opportunità d’influenzare il primo ministro». Finora non è stato così. Anzi. Non è proprio lui la mente, il regista di questa incresciosa missione di Bibi in America?

Bibi e Barack, due “americani” in conflitto ultima modifica: 2015-03-02T18:52:54+01:00 da GUIDO MOLTEDO
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1 commento

Israele al voto. Il bivio incerto | ytali 11 Marzo 2015 a 16:33

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