I partiti americani non sono partiti del leader – anzi

ARNALDO TESTI
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La stagione delle primarie presidenziali si sta avvicinando, gli aspiranti alla nomination dei due partiti principali si stanno preparando, i media mettono l’accento sulle loro storie politiche e personali, sui tratti del loro carattere, sulla loro personalità, sulle loro ipotetiche virtù di leadership.

 

E gli aspiranti stanno al gioco, anzi lo stuzzicano, lo provocano, per conquistare o conservare visibilità e pubblica riconoscibilità come figure in qualche modo famigliari.
Si parla molto del presente e passato di Hillary e Jeb (Bush), si scommette sul futuro di Marco (Rubio) o Rand (Paul) o Ted (Cruz) o Scott (Walker).

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Le primarie sembrano fatte apposta per confermare l’avvento (non solo qui, ma anche qui) della personality politics nella sfera pubblica. In questo tipo di competizioni, gli apparati di partito restano sullo sfondo, mentre vengono in primo piano le macchine elettorali dei singoli candidati. Macchine assai complesse e sofisticate, che per definizione sono personali. E che contribuiscono a esaltare il ruolo del leader, un leader che abbia la magica poliedrica capacità di dividere e vincere dentro il partito, e poi di convincere e unire il partito e di allargarne il consenso nella battaglia politica generale.

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Trionfo dei leader, dunque. Democrazia del leader. Partiti del leader. Vista dall’interno degli Stati Uniti, queste definizioni sono meno rilevanti e decisive di quanto sembri dall’esterno. I leader sono importanti e visibili, ma sono prodotti del partito e dal partito, che è necessario alla loro esistenza e, quando vincono, alla loro vittoria. I due grandi partiti non sono “partiti del leader”, tanto meno “partiti personali”. Sono piuttosto partiti che producono leader, che fra l’altro sono sempre e solo detentori temporanei di cariche pubbliche elettive, a scadenza (a livello presidenziale, ormai, per Costituzione, a scadenza massima di due mandati, otto anni.) Non sono mai guide carismatiche di lunga durata del partito-comunità, come spesso accade in Europa.

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I leader americani non hanno nulla dei duraturi leader dei partiti francesi presidenzialisti (de Gaulle, Mitterrand, Chirac, al governo del partito e/o del paese per dieci, venti, trent’anni). Non hanno nulla delle lunghe leadership dei socialisti (Nenni, Brandt, Wilson e Blair, Craxi). Certo non sono come i capi comunisti, perenni finché morte non sopravvenga (Togliatti, Thorez, Berlinguer) o comunque (Dolorès Ibàrruri, Carrillo, Marchais) più che ventennali nella tenure, circondati dal culto della personalità – altro che personality politics. In effetti se c’è un capo-partito americano che assomiglia a questi è Gus Hall, segretario generale del minuscolo Communist Party USA dal 1959 al 2000. Un record di 41 anni ¬ – che neanche Togliatti (37 anni).

E i partiti personali? Negli Stati Uniti ci sono stati, ma sempre piuttosto piccoli. Hanno vissuto lo spazio di un ciclo elettorale e hanno vinto poco o niente. A cominciare dal primo, il Progressive Party del 1912, costruito intorno all’esuberante ex presidente Teddy Roosevelt. I Democratici e i Repubblicani non sono questo, hanno una storia ben più che secolare. E ce l’hanno perché sono e sono sempre stati, allo stesso tempo, sia macchine elettorali che partiti organizzati con una loro identità collettiva e con strutture stabili, con club e militanti e iscritti, in alcuni Stati più che in altri. I Democratici, per dire, si stanno preparando a scegliere il loro prossimo portabandiera nazionale – a babbo (il presidente Obama) ancora vivo.

I partiti americani sono, in fondo, partiti senza leader.

I partiti americani non sono partiti del leader – anzi ultima modifica: 2015-04-20T01:06:22+02:00 da ARNALDO TESTI
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