La vicenda dei finanziamenti alla Fondazione Clinton si dilata e si complica. Romney arriva a parlare di “tangenti”. Per gli strateghi democratici si apre il peggiore scenario possibile.
DETROIT. Mitt Romney, che di soldi s’intende (è il più ricco uomo politico americano), attacca Hillary Clinton sul terreno dei soldi. L’ex-candidato alle presidenziali 2008, che dice e ripete di non volersi ricandidare, è il più duro nel criticare la candidata democratica alla presidenziali del 2016, arrivando ad accusarla di corruzione.
Secondo Romney, il finanziamento proveniente dalla Russia alla Fondazione Clinton, di cui Hillary è stata vicepresidente fino all’annuncio recente della sua candidatura, si configura come “una tangente”. Il passaggio di soldi lascia pensare – ha spiegato l’esponente repubblicano – che “Hillary Clinton sia stata corrotta per oliare la vendita del venti per cento della produzione dell’uranio alla Russia, e che il fatto sia stato coperto dalla menzogna detta a proposito dell’incontro a casa sua con i dirigenti, a cui poi è seguita la cancellazione delle email”.
Secondo un’inchiesta del New York Times, quando era alla guida del dipartimento di stato, Clinton potrebbe aver favorito l’acquisizione da parte dell’agenzia atomica russa, Rosatom, della canadese Uranium One, la società che controllava – e controlla tutt’oggi – un quinto della produzione statunitense di uranio. Avrebbe dato l’ok del dipartimento di stato in cambio di donazioni alla fondazione di famiglia.
La sortita di Romney, nei termini più duri finora usati da parte di un alto esponente repubblicano, fa ritenere che il tema dei finanziamenti alla Clinton Foundation, molti dei quali a dir poco discutibili per la loro provenienza e per la loro opportunità, sia considerata non una criticità per Hillary, ma una vulnerabilità potenzialmente fatale, anche in tempi rapidi, per la sua candidatura.
Gli strateghi clintoniani avevano messo in conto che, contro Hillary, si sarebbe scatenata una violenta offensiva all’annuncio della sua candidatura, basata prevalentemente sul tentativo di distruggerla sul piano personale. Così è stato. E l’offensiva è stata evidente e forte molto prima dell’annuncio stesso.
Poiché in tutti i sondaggi, compresi i sondaggi basati nel raffronto diretto tra Hillary e ognuno dei suoi numerosi potenziali avversari repubblicani, da Jeb Bush a Rand Paul, è largamente e saldamente in testa, e poiché il fronte repubblicano è frammentato e non presenta nessuna personalità robusta, gli strateghi democratici si aspettavano che il comune denominatore nel fronte conservatore, compresi i media fiancheggiatori, sarebbe stata, appunto, la demolizione del personaggio Clinton, della sua storia, della sua rapporto coniugale. E certo, anche il tema dei soldi e della ricchezza dei Clinton, era stato contemplato come uno dei campi di battaglia sul quale si sarebbero mossi, i suoi avversari, per darle addosso.
Eppure, su questo terreno, avevano anche previsto, gli strateghi democratici, che i repubblicani sarebbero stati più contenuti, per il semplice fatto che, in materia di finanziamenti e di donazioni, tutti i candidati del Grand Old Party sono letteralmente nella mani dei grandi donor della destra conservatrice, che ormai impongono a suon di miliardi di dollari la loro agenda politica al Partito repubblicano, in tutte le elezioni che si tengono in America, locali e nazionali, e anche nei referendum. Sono animati da una vera e propria ossessione, quella di distruggere la politica liberal e i suoi esponenti.
Si è molto parlato di Sheldon Adelson, il re dei casinò e dell’industria alberghiera, dei fratelli Koch, Charles e David, a capo della Koch Industries, la seconda più importante società privata statunitense, con interessi che vanno dal petrolio – raffinerie e distribuzione – alla chimica (fertilizzanti), alle cartiere, all’edilizia, di Rupert Murdoch, il magnate delle tv e dell’editoria.
Jeb Bush ha dovuto chiarire qualche giorno fa che lui non è nel libro paga dei Koch. Certo è che la sua famiglia è così potente, così ben collegata con i poteri finanziari di destra, che lo stesso Mitt Romney, che, come si è detto, è straricco personalmente, ha dovuto rinunciare a candidarsi alle primarie repubblicane, perché i massimi donor e sponsor repubblicani, Rupert Murdoch in testa, gli hanno fatto sapere che questa volta avrebbero finanziato la campagna di Bush.
Insomma, secondo le previsioni dei suoi consiglieri, i soldi non avrebbero dovuto essere un tema elettorale particolarmente preoccupante per Hillary, sul lato repubblicano.
Caso mai, avrebbero potuto esserlo sul versante democratico, dove la sinistra è in grande, dichiarato, disagio, sapendo che la Fondazione Clinton ha preso tanti milioni di dollari da gentiluomini come gli sceicchi del Golfo, un imbarazzo tanto più forte se si considera che, questa volta, Hillary enfatizza la sua candidatura come quella di una donna, e sottolinea l’importanza storica dell’elezione del primo presidente americano donna.
Inoltre, negli Usa, le fondazioni sono davvero tali, nel senso che sono messe su da ricchi filantropi che dedicano una parte del loro patrimonio a cause morali, culturali, assistenziali. Nel caso dei Clinton, i soldi, non ce li mettono loro, arrivano da fuori, in gran parte sono poi impiegati per nobili scopi, in parte finiscono nelle tasche della famiglia Clinton. Bill ha ricevuto almeno 26 milioni di dollari per discorsi e interventi, da società e organizzazioni che figurano anche tra i donatori per la Fondazione di famiglia. E la somma corrisponde a circa un quarto delle entrate complessive di Bill Clinton, come scrive il Washington Post sottolineando come l’attività benefica di quest’ultima sia strettamente collegata ai guadagni dei Clinton. Su Hillary, sulle sue conferenze superpagate, sono fioccate polemiche e contestazioni.
Ecco, tutto questo proprio non va giù ai democratici progressisti, specie in una fase storica nella quale le disparità economiche e sociali e l’accumulo di ricchezza sono stigmatizzate.
L’insieme di questi aspetti del “bagaglio” che si porta con sé Hillary è stato esaminato dettagliatamente per mesi, prima di decidere se fosse talmente ingombrante da ostacolare la corsa presidenziale, e tutti i dati scomodi sono stati studiati anche in rapporto alla passata sconfitta elettorale e in rapporto agli anni trascorsi come segretario di stato.
Alla fine sono stati considerati aspetti “trattabili”, specie se affrontati nella fase preliminare, quella attuale, della lunga corsa elettorale, di qui al novembre del prossimo anno. Si è ritenuto, nella cerchia ristretta clintoniana, che queste spine è bene che emergessero tutte adesso, comprese quelle dell’ormai lontano passato, come il caso Lewinski, adesso, e non nelle fasi più difficili e tumultuose dello scontro. Adesso c’è il modo e c’è il tempo per contrastare gli attacchi sul piano personale, si può discuterne finché si vuole, per poi alla fine archiviarli e poter mettere al centro della “conversation” i temi più politici. L’obiettivo è, dopo questa fase velenosa, di portare il confronto con la destra sul terreno dove è più debole, quella dei contenuti.
Questo scenario, complesso, difficile ma “gestibile”, si è però adesso trasformato in qualcosa di molto più insidioso.
Il tema dei finanziamenti sauditi e russi si sta evidentemente saldando con quello del suo mandato di segretario di stato, mettendo in evidenza sempre più un conflitto d’interessi imbarazzante. A renderlo ancora più evidente è la vicenda dell’account personale di posta elettronica usato da Hillary quando era segretario di stato, e delle email che si sospetta, adesso, siano state distrutte perché appunto riguardanti operazioni improprie con stati e soggetti esteri.
È su queste connessioni che lavora la destra, pensando che, potendo metterle bene in evidenza, si può arrivare a spingere nell’angolo Hillary, altrimenti imbattibile. Mitt Romney ne è talmente convinto da meditare di rientrare in gioco.
Nel frattempo, emerge come fosse stata anche sottovalutata, dai consigliori clintoniani, la portata delle critiche che arrivano a Hillary nel suo stesso campo. A metterla sulla graticola sono soprattutto i media liberal, NYT, Washington Post, e il canale tv MSNBC. Sono proprio questi media, in teoria fiancheggiatori, a dare il massimo risalto, anticipandone brani pesanti nei confronti di Hillary e Bill, al libro, “Clinton Cash”, in uscita il 5 maggio, di Peter Schweizer, un giornalista di simpatie conservatrici. ex consulente di George W. Bush e membro dell’Hoover Institution, un think tank vicino al Partito repubblicano. È il libro all’origine dello scandalo, appunto, dei favori “politici”, quando era segretario di stato, a governi e società d’affari straniere in cambio di donazioni per milioni di dollari la Clinton Foundation.
Prevenendo queste critiche, Hillary Clinton ha immaginato un percorso elettorale, fin dalle prime battute, all’insegna della sobrietà, delle chiavi basse, quasi un bagno di umiltà tra la gente comune, nei fast food, nei centri sociali, nei luoghi della middle class, svolgendo discorsi che potrebbero essere nel repertorio di Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts che oggi incarna lo spirito anti-establishment, anti-Wall Street che piace alla sinistra democratica.
E il nome di Warren riemerge come possibile candidata alle primarie, se la vicenda di Hillary dovesse complicarsi al punto tale da non renderla più la candidata “imbattibile”. Anzi, proprio la prospettiva di una candidatura di Warren elettrizza il campo repubblicano, che vedrebbe nella senatrice del Massachusetts l’avversario ideale in una competizione fortemente polarizzata e ideologizzata.

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