Ieri l’Istat ha certificato che a marzo la disoccupazione è salita ancora (tredici per cento) e soprattutto è aumentata la disoccupazione giovanile, arrivata a quota 43,1%. Un ragazzo su due.
In Emilia-Romagna i dati ottobre-dicembre 2014 segnalavano una piccola inversione di tendenza e qualcuno si era spinto a pronosticare (il Centro Studi Unioncamere di Bologna, ad esempio) che nel 2015 le cose sarebbero andate ancora meglio.
In realtà si trattava sempre di cifre drammatiche per una regione come la nostra, si ballava fra un 9,2 per cento e un 8,8 per cento, quale allegria, perfino senza la doccia fredda di ieri. Ma oggi è la festa dei lavoratori. Non voglio arrivare a dire che suoni come beffa, o che sia meglio restare a casa a piangere invece che andare ai cortei e ai concerti.
Suggerirei però di dedicare questo primo maggio a una categoria molto particolare di lavoratori. A coloro che fanno il lavoro più diffuso (tre milioni e mezzo di persone, in Italia), quello più faticoso, più dimenticato, il peggio pagato, il lavoro che non ammette soste né chiusure festive – laiche o religiose che siano – né ferie né tutele, crescenti o decrescenti fate voi, il lavoro più incerto, precario, frustrante del mondo: il lavoro di cercare lavoro. Perché – guardiamo in faccia la realtà, con Bologna che non fa eccezione nemmeno in questo, anzi – la nostra non è più una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Allora, in tempi di fregola sulle riforme costituzionali, bisognerebbe anche riscrivere l’articolo uno della nostra Carta: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro di cercare lavoro”.
la Repubblica/Bologna, 1 maggio 2015

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