Stanley Greenberg riflette sulle sconfitte dei laburisti britannici e di quelli israeliani. La carta nazionalista può fare la differenza in un finale serrato. Con quali conseguenze?
Stan Greenberg, l’uomo-chiave della war room di Bill Clinton, è tuttora un rispettato signore dei numeri, perché è un sondaggista che sa cercare i dati davvero utili ad affinare una strategia elettorale e a mirarla ai settori elettorali cruciali, è un sondaggista che sa mettere in connessione le cifre nude e aride delle sue indagini dentro una cornice politica. Greenberg è anche uno dei pochi “guru” che sa giocare fuori casa, in agoni elettorali molto diversi da quello americano. Anche se i successi “domestici” non si sono tradotti in altrettanti successi all’estero. Ma, come si addice appunto a un vero guru, serve meditare sulle sconfitte, e il suo punto di vista su come è andata in Israele e nel Regno Unito è interessante.
Nel 2001 fu consulente anche in Italia, per il centrosinistra guidato da Francesco Rutelli nella sfida, persa di poco, contro Berlusconi. Poi ha lavorato come consulente per il Partito laburista israeliano, anche nelle recenti elezioni, vinte da Bibi Netanyahu, e per il Partito laburista britannico di Ed Miliband, sconfitto da David Cameron. Due sconfitte particolarmente brucianti, perché a infliggerle sono stati due leader che un senso comune diffuso dava per definitivamente tramontati.
Ad associare le due disfatte, ci sono diversi elementi, pur nell’estrema diversità delle due situazioni. Ma il punto più evidente che le accomuna è in quel che è accaduto nella fase finale della campagna elettorale. Prima della fase finale, sia in Israele sia nel Regno Unito tutti i sondaggi erano favorevoli al centrosinistra.
“Quello che, proprio alla fine, ha cambiato queste elezioni – imbarazzando i sondaggisti –è stata la volontà di giocare la carta nazionalistica, con tutti i rischi connessi”, scrive Greenberg sul Politico.
All’inizio i tory avevano impostato la loro campagna sulla base della convinzione che Ed Miliband “sembrava improbabile come primo ministro” e che gli elettori non avrebbero affidato il governo a lui e a un partito che avrebbero messo a rischio “la grande ripresa economica”. Di qui un’offensiva tesa a mettere il Labour sulla difensiva e a costringerlo a chiedere scusa al paese per la situazione disastrosa nella quale avevano lasciato il paese. Ma la strategia non funzionava, “Miliband era sempre più il favorito nei sondaggi e nei focus group gli elettori rizzavano il pelo quando sentivano Cameron strombazzare che quella britannica era l’economia più ammirata al mondo”.
I sondaggi erano in stallo, finché, con le elezioni a rischio, i conservatori “decidono per qualcosa di più potente che possa scuotere la competizione”. E agitano lo spauracchio di un governo laburista sostenuto dal Partito nazionalista scozzese (SNP). Cameron arriva a mettere in discussione la “legittimità” di un governo Labour con il sostegno dei voti dell’SNP a Westminster. La stampa fiancheggiatrice fa la sua parte con titoloni allarmistici su un eventuale patto Labour-SNP, in appoggio a un governo guidato da un leader debole come Miliband. Un grande manifesto tory ritrae un importante esponente nazionalista scozzese che allunga la mano per agguantare soldi inglesi.
Il risultato è stata “una forte e intensa reazione in Scozia”, il conseguente collasso dei liberaldemocratici e il ritorno di molti voti della destra estrema dell’UKIP nel Partito conservatore. E il disastro laburista.
Copione simile in Israele, dove Bibi, non riuscendo a far risalire i sondaggi con il suo provocatorio discorso di fronte al Congresso americano, ricorre alla vecchia tattica della paura, prima affermando che non avrebbe mai sostenuto una soluzione dei due stati e poi lanciando l’allarme, il giorno del voto, sugli elettori arabi che “in branchi” si recavano ai seggi.
Il resto è storia.
In entrambi i paesi i partiti conservatori hanno vinto, ma a un prezzo. I tory hanno una maggioranza di appena sei seggi ai Comuni, mentre in Israele Netanyhau è riuscito a mettere insieme una striminzita coalizione di 61 voti (su 120 seggi).
Morale? Giocare la carta del nazionalismo “funziona elettoralmente ma non funziona altrettanto bene per la nazione”.
Sul voto inglese riflette un altro stratega americano, Jim Messina, stratega della campagna di Obama, che però ha lavorato al fianco di David Cameron, trovandosi di fronte, tra i consiglieri di Miliband, David Axelrod, l’artefice della prima vittoria di Obama e poi suo braccio destro alla Casa Bianca nel primo mandato.
Seppure dal lato opposto, Messina fa un’analisi del voto britannico identica a quella che fa Greenberg, mettendo però più in evidenza l’intenzionalità di produrre nel campo scozzese la reazione, che poi c’è stata, e che ha causato, come controreazione, la forte affluenza alle urne degli elettori conservatori e di destra. Una polarizzazione che ha provocato contemporaneamente l’eliminazione del partito liberaldemocratico. Un po’ diversa, invece, la valutazione del voto dato all’UKIP, che, secondo Messina, ha conseguito comunque un buon risultato, anche se molto penalizzato dal sistema elettorale britannico. La “carta scozzese” ha tolto all’UKIP un po’ dei suoi elettori, passati ai tory, ma molti sono rimasti fedeli all’UKIP perché convinti che il trionfalismo di Cameron sui risultati nell’economia erano “non sense”.
Ed è proprio su questo terreno che, a parere di Messina, è mancato il Partito laburista. Secondo Messina, “se il Labour Party avesse affrontato adeguatamente i dubbi degli elettori sullo stato delle finanze e sull’immigrazione, sarebbe stato meno vulnerabile rispetto alla tattica [nazionalistica] dei conservatori, ma se ne sono resi conto tardi”.
Riportando la lezione inglese e quella israeliana nel campo americano, Greenberg osserva che la carta del nazionalismo, come quella della xenofobia, lì non può funzionare, perché “l’America è un paese con una crescente varietà razziale, paese dell’immigrazione e del multiculturalismo”, dove “la carta del nazionalismo non funzionerà elettoralmente nel 2016 e dopo e, fatto ancora più importante, non funzionerà per la nazione”.
In Europa? Il fenomeno relativamente nuovo è che i grandi partiti conservatori fanno strategicamente propri i temi dell’estrema destra, cannibalizzandone l’elettorato. È successo anche in Francia, con il successo di Sarkozy ai danni del Front National di Marine Le Pen nelle recenti amministrative. Non in Germania, però, dove i cristiano-democratici non cavalcano i temi e non rubano le parole d’ordine alla destra xenofoba di Pegida, ma, anzi, vi si oppongono con forza. In Italia? Non c’è più – e anzi non c’è mai stata – una destra “per bene” in grado di incorporare oggi una parte dell’elettorato della destra estrema, come fece Berlusconi legittimando e ingaggiando Fini. In Italia non c’è neppure il rischio di una torsione che provochi una vera e propria mutazione come avviene nella destra britannica (e in quella israeliana) per il semplice fatto che non c’è da noi un equivalente dei tory e del Likud.
La situazione italiana è ancora troppo mobile, in presenza di una perdurante crisi di quel che resta del centrodestra berlusconiano. Ma i temi che hanno agitato tutte le più importanti elezioni, non solo quelle di cui si è detto, sono però presenti e rilevanti anche in Italia. Come si tradurranno in voti? Chi li raccoglierà?

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