L‘Europa che “punisce” la Grecia non sa neppure da dove derivi il nome EUROPA. Sarà anche per questo che troviamo non solo molto bello ma anche straordinariamente interessante il breve racconto di Ersi Sotiropulu che qui pubblichiamo. In poche pagine ricostruisce la situazione storica della Grecia dei primi anni 60, fra Guerra civile, guerra fredda e rapporti con l’Europa dell’Est. Nella storia c’è anche la tragedia dell’Asia minore del 1922 e la condizione degli esuli e dei profughi greci nella Grecia stessa.
Ersi Sotiropulu (Έρση Σωτηροπούλου), nata a Patrasso, antropologa di formazione, ha studiato e vissuto a lungo in Italia, prima di ristabilirsi in Grecia. Dal suo esordio, nel 1980, ha pubblicato diversi libri, tra cui Tre giorni festivi a Ghiannina (in Nuovi narratori greci), Theoria (1993), Mexico, Donzelli (1994), Il sentiero nascosto delle arance, Newton Compton (2012). Nel 2013, è sta ospite a Incroci di Civiltà, il festival internazionale di letteratura che, dal 2008, si tiene ogni primavera a Venezia, promosso dall’Università Ca’ Foscari e dal Comune di Venezia.
Come introduzione al racconto, pubblichiamo una breve conversazione con l’autrice di Caterina Carpinato.
Signora Sotiropulu, la sua Europa [la protagonista di “Europa a Patrasso”], nei primi anni Sessanta, è ancora una bambina: in quale Europa secondo lei sta vivendo oggi quella bambina?
“Europa a Patrasso” è una storia di confini. La famiglia della piccola Europa del racconto aveva valicato il confine due volte: una volta come profughi in Bulgaria, dopo la guerra civile, e una seconda al ritorno in Grecia, in esilio nel proprio paese. Purtroppo oggi assistiamo alla più grande tragedia umanistica dopo la seconda guerra mondiale. Il Mediterraneo è un teatro di sangue. Una nuova tratta di schiavi con tutte queste barche come delle bare galleggianti piene di disperati che cercano di scappare.
Hanno detto che la “Grecia è Oriente dell’Occidente e Occidente dell’Oriente”. Crede che questo gioco di parole sia ancora valido?
Penso di sì. Questa è la ricchezza ma anche la vulnerabilità della Grecia.
Sa raccontarci in poche parole gli effetti più eclatanti per lei della crisi che sta affrontando la Grecia?
La crisi non colpisce solo l’economia di un paese. All’inizio avevo l’illusione che la recessione avrebbe potuto essere benefica in qualche modo, che poteva forse frenare la corsa a quel consumismo scemo, a quel fascismo del life style… Che si sarebbe potuti ritornare all’essenziale, che avremmo ritrovato il gusto dell’amicizia, delle cose semplici. Ma mi sbagliavo. La crisi è una devastazione su larga scala. Svuota le anime non solo i portafogli. La gente diventa sempre più confusa, aggressiva, si disumanizza.
Cosa suggerirebbe a Ghiannis Varufakis se lui le chiedesse un consiglio?
La situazione non si può ridurre a un consiglio. Tutta l’Europa è colpita dalla crisi. Malgrado le sue debolezze storiche inerenti, la corruzione cronica, il malgoverno etc, la Grecia pare sempre di più come il capro espiatorio. Il capitalismo genera la crisi: è un processo necessario alla sua espansione, ma è quello che provoca l’asfissia delle economie nazionali e nello stesso tempo colpisce la democrazia.
“EUROPA A PATRASSO: UN RICORDO SCOLASTICO”
di ERSI SOTIROPULU
Subito dopo la Guerra Civile, in una Grecia economicamente distrutta e politicamente schiacciata, alcuni genitori hanno dato alle loro figlie nomi in grado di esprimere le loro speranze inappagate o i loro sentimenti feriti. Se avessero potuto cambiare il mondo sia pure con un nome, ecco, erano pronti a farlo. Così tra poche muse Calliopi, Melpomeni, e accanto a molte Sofie, Marie, Ifigenie, Athinès ed Ire, spuntarono anche alcune piccole Laokratìes (Potere Popolare) ed Elefterìe (Libertà).
Ancora negli anni ’60, nella nostra scuola, la decima scuola elementare di Patrasso, avevamo una Laokratìa, una grassottella viziata, figlia del rampollo di una ricca famiglia di proprietari terrieri, che – da pecora nera – era sceso dalla montagna e aveva consegnato le armi. Imprevedibilmente poi, in quinta, a metà anno scolastico, entrò in classe un’Europa con un vecchio cappotto color caffè e le scarpe consunte. Era una ragazzetta secca, con la pelle olivastra, capelli castano chiaro con riccioli ingovernabili raccolti da un nastro bianco. Aveva un viso allungato con un naso grande ma, cosa strana, ben fatto, ciglia riunite e uno sguardo indagatore e intenso che – dopo un rapido giro della classe, si inchiodò al pavimento.
Era abbastanza alta per la sua età e il maestro la fece sedere in uno degli ultimi banchi. Poi tornando accanto alla stufa a petrolio – il suo posto preferito durante i mesi invernali – ci disse che la nuova compagna veniva da una scuola estera.
Supponemmo che fosse francese. Anche se i suoi vestiti erano poveri, da dove altro mai poteva venire un nome del genere (se non dalla Francia)? Nei giorni successivi riuscimmo a sapere solo poche altre cose sul suo conto. Si diceva che il padre fosse esule su un’isola, o in prigione per una questione relativa a debiti inevasi. L’unica cosa sicura era che la madre lavorava in un vecchio hammam turco. Ogni pomeriggio, alla fine delle lezioni, Europa s’incamminava verso la città vecchia tra le torrefazioni di caffè e i negozi di oggetti in pelle, per andare a trovarla.
Una ragazzina di un’altra classe ci disse come segreto assoluto che Europa veniva dalla Bulgaria, per l’esattezza era “evasa” e insieme alla madre aveva vagato per giorni e notti digiuna sulle montagne, poi in una regione piena di paludi e di animali selvatici finché non avevano trovato un sentiero per attraversare il confine. Tale informazione non venne mai verificata, ma parole nuove dall’ambiente militare della guerra fredda entrarono a far parte del nostro lessico – sussurravamo tra di noi durante la ricreazione espressioni come “lotta di resistenza comunista”, “pedomazoma-rapimento di bambini a fini politici” e “cortina di ferro” senza capirci niente, e poi piombava uno strano silenzio. Qualcun altro ci aveva detto che la mamma di Europa veniva da Kalavrita, un grande paese fuori città, dove nel 1943 i tedeschi, per vendicare alcune azioni dei partigiani, avevano sterminato l’intera popolazione di sesso maschile dai dodici anni in su: 1300 persone furono trucidate sul posto.
Sentivamo questa storia tremenda per la prima volta e certo questo non contribuiva a rendere Europa più gradita agli altri ragazzi. Forse la colpa era del fatto che sembrava più indipendente o autonoma rispetto a noi. Nessuno veniva a scuola per chiedere sue notizie, se ne andava via sempre da sola trascinandosi dietro la borsa consunta. Gli scolari erano suddivisi in ragazzi normali e ragazzi poveri, ma se Europa era nella categoria dei poveri non si comportava come questi ultimi. Non faceva favori, non ci portava i cappotti durante le gite, non mostrava disponibilità al servilismo. Il suo aspetto esteriore era insignificante, ma c’era in lei un’indefinibile espressione di inflessibilità, o di irremovibilità, su una grazia misteriosa. In una fotografia scattata in occasione di una festa nazionale, Europa si trova al margine laterale, un po’ distante rispetto agli altri ragazzi, ma guarda diritto dentro l’obiettivo come se volesse catturarlo. In un’altra fotografia di una gita scolastica è nuovamente ai margini, nell’ultima fila, e guarda altrove, ma di nuovo l’obiettivo sembra calamitato sopra i suoi boccoli ribelli, il suo collo lungo e quegli occhi scuri che sembrano quelli di un ritratto del Fayyum.
A causa del suo nome la vita di Europa a scuola era difficile. Laokratìa era nel frattempo diventata Lia e nessuno la prendeva in giro. Europa era il nostro nuovo bersaglio.
“Europa era una ninfa” iniziò un giorno il maestro con quel suo tono assonnato.
Si avvertirono in classe risolini soffocati.
“Era figlia del re Agenore di Sidone. Una notte Europa aveva visto in sogno due continenti che avevano preso forme umane e litigavano per lei. L’Asia sosteneva che l’Europa le apparteneva perché era nata in Asia, e pertanto la tirava con forza dalla sua parte.
“L’Asia se la porta in un hammam” strillò un bambino e tutti scoppiammo a ridere.
Con difficoltà il maestro riuscì a ristabilire la calma sbattendo la bacchetta sulla cattedra e a continuare la lezione. Ma quando giunse al punto in cui Europa lascia le sue amiche per salire sul dorso di un bel toro bianco, che era in realtà Zeus sotto altra forma, in classe si scatenò un putiferio e decine di aeroplanini di carta furono scagliati sul banco di Europa.
Mi voltai a guardare in fondo all’aula. Europa stava seduta a testa alta, quasi insensibile, solo il suo bel naso grande si era fatto rosso.
Avrei voluto avvicinarla, diventare sua amica, invadere quel mondo silenzioso e altero. Ma questo non sarebbe potuto accadere in classe, davanti agli altri bambini. A casa avevamo una donna di servizio, Nerantzula, la cui famiglia proveniva dall’Asia Minore, la quale era solita andare all’hammam. La convinsi a portarmi con lei. Così, un pomeriggio, di nascosto da mia madre, prendemmo la strada in salita verso la vecchia città. Il bagno turco era in un vecchio e malmesso edificio all’angolo fra due strade; un tempo era andato a fuoco ed era stato riparato alla bell’e meglio con certe impalcature di legno celeste sospese lungo i bordi di gesso, e c’era anche una torretta rotonda come un minareto. Si spingeva una vecchia porta di legno e si scendevano alcuni gradini. Entrando si aveva l’impressione di tornare secoli indietro nel tempo. La sala sembrava l’ingresso di una caverna. C’era solo un banco di pietra dietro il quale si trovava la madre di Europa, una donna magra e legnosa. Accanto a lei Europa che non fece cenno di riconoscermi e che con professionalità ci porse asciugamani ed un pezzo di sapone verde. Nerantzula pagò e ci avviammo agli spogliatoi. Rimasi senza parole, non ero preparata a quello che vedevo. Intorno ad una fonte illuminata, donne nude di tutte le età e di tutte le dimensioni, ossute e monumenti di carne bianca, si spalmavano olii e si insaponavano le spalle l’una con l’altra. Alcune sembravano narcotizzate, con gli occhi socchiusi, altre giocherellavano con l’acqua cantando a bassa voce. Poi c’era un corridoio sul cui muro erano scavati dei bacini e delle fontanelle. Ed in fondo un’altra grotta dove tra fitte nuvole di vapore alcune figure isolate si muovevano con lentezza. Corpi invisibili e volti come maschere del teatro antico. Da tutte le parti giungeva un’eco di risate e di richiami risucchiati dai vapori. Di tanto in tanto una parte del corpo si distingueva meglio, un braccio, una schiena nuda che poi si rituffava nell’inesistente per riemergere poco dopo in un altro punto, in una sequenza infinita di segreto e di visibile nella quale sogni e miti con ninfe e metamorfosi di tori avrebbero potuto prender vita in qualsiasi momento.
Eravamo negli spogliatoi ed avevamo iniziato a toglierci i vestiti quando la madre di Europa venne di fretta verso di noi.
“Quanti anni ha la bambina?” chiese.
“Undici”, rispose Nerantzula.
“Bisogna portare il certificato medico”.
Non andammo più all’hammam ed alla fine dell’anno Europa cambiò scuola. Si persero le sue tracce. I maestro ci disse che la sua era una famiglia di profughi, altra parola nuova che sentivamo come segno di riferimento (ferita, cicatrice). Avevano valicato il confine due volte, e in un certo qual modo così la ferita era doppia, una volta come esuli in Bulgaria dopo la Guerra Civile e una seconda volta adesso nella loro patria. L’argomento non ci interessava un granché, la storia era per noi una fantasia in un tempo indefinito.
Alcuni mesi dopo, l’inverno successivo, vidi Europa da lontano in una galleria. Mi avvicinai a lei e mi fermai ad una certa distanza. Aspettava qualcuno fuori da una falegnameria. Un ragazzo uscì dalla bottega, abbassò la saracinesca e chiuse con un lucchetto. Europa gli si avvicinò, lui si ripulì i vestiti con la mano, mi sembrò di vedere dei trucioli che cadevano giù. Poi prese la bicicletta che era appoggiata ad un palo della luce e se ne andarono insieme, l’uno accanto all’altra. I corpi si sfioravano appena, i capelli ricci di lei accarezzavano le spalle di lui.
Sperando di rincontrarla andavo in giro per la città vecchia, in vicoli e quartieri poveri, scoprendo un nuovo mondo sottosopra, mezzo ubriaco, in antitesi con la malinconia squadrata della città che avevo conosciuto fino a quel momento. Era l’anno in cui Seferis aveva pubblicato Le tre poesie segrete, la canzonetta Poupée de cire, poupée de son si sentiva in tutti i juke-box, l’anno in cui iniziammo a crescere in un corpo che non riusciva a contenerci. Un pomeriggio gelido tornai a casa in ritardo. Si era già fatto buio quando entrai nella cucina illuminata: la stanza sembrava un presepe elettrico, i vetri erano opachi per il vapore e lo sguardo perplesso e disorientato dei miei mi inchiodò. Senza che l’avessi preparato prima annunciai loro che mi aveva accompagnato un ragazzo con la bicicletta. “E sei salita sulla bici?” chiese la mamma tentando di mantenere il sangue freddo. “No, siamo andati a piedi insieme”, risposi. Mi chiese alcuni dettagli e le dissi che il ragazzo aveva vent’anni, che lavorava in una falegnameria, e che sarebbe tornato a trovarmi. Il giorno dopo la mamma venne con me a scuola, e per un po’ si fermò a parlare con il maestro nel corridoio prima dello squillo della campanella. Alla fine delle lezioni mi aspettava fuori. Per alcuni giorni facemmo insieme il percorso da casa a scuola, io davanti come un’esca mentre la mamma mi seguiva nascosta alcuni metri dietro. Naturalmente il ragazzo non apparve mai. Alcuni anni dopo, quando questa storia ritornò casualmente a galla, le confessai che il ragazzo con la bicicletta non era mai esistito. Mia madre non sembrò stupirsi, se l’era immaginato. “Hai avuto sempre il microbo che ti fa sfornare storie”, disse. Dentro di me sapevo che questo microbo lo devo anche a Europa.
traduzione di Caterina Carpinato

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