JEAN TIROLE E ETIENNE WASMER
Ripubblichiamo un intervento apparso su Libération con il titolo “La concurrence peut servir la gauche”. Jean Tirole, premio Nobel per l’economia, è preside dell’École d’économie de Toulouse e Etienne Wasmer è professore a Science-Po, a Parigi.
Dichiararsi progressisti nel XXI secolo significa condividere un insieme di valori e obiettivi che si fondano sulla redistribuzione. Se l’impegno e l’iniziativa personale, che sono i creatori della ricchezza collettiva, dovrebbero essere incoraggiati e premiati, la mancanza di opportunità, la discriminazione e le conseguenze di decisioni economiche e di normative cattive penalizzano spesso i soggetti più vulnerabili e devono essere combattute, mentre la solidarietà deve essere messa nella condizione di essere applicata: le persone colpite dalla sorte avversa devono essere aiutate dalla società.
Purtroppo, per ignoranza o per riflessi incondizionati, i discorsi pubblici a volte sembrano prestare maggiore attenzione alla presenza di “bandierine” con scritto politica progressista, piuttosto che alla sua reale capacità di raggiungere i suoi obiettivi fondamentali.
Oppure, e questo è un punto su cui porre l’attenzione, molte politiche con un intento “redistributivo” producono effetti contrari proprio su quei gruppi per cui erano state pensate. Altre volte, hanno un impatto minimo su questi stessi gruppi ma sono così costose per la società, che prima o poi minacciano il sistema sociale a cui noi siamo abituati. In questo senso l’ideale progressista ci porta continuamente a mettere in discussione molti luoghi comuni, e proprio di questo vorremmo discutere in questo articolo.
Primo luogo comune: la concorrenza non è al servizio dell’ideale progressista. Prendiamo, come esempio, il servizio dei taxi nelle grandi città. I tassisti si sono opposti per decenni a ogni modifica del loro statuto proteggendo in questo modo il valore della loro licenza (acquistata certamente a caro prezzo nel caso fosse di seconda mano) arrivando a bloccare, quando necessario, strade e autostrade per scoraggiare ogni minima riforma. Il monopolio di fatto dell’esercizio della professione ha portato ad un servizio generalmente insoddisfacente, con tariffe molto elevate e pochi taxi nelle ore di punta.
Quando il servizio Uber è arrivato in Francia, il mercato è cambiato radicalmente in pochi mesi: i giovani conducenti, spesso provenienti da famiglie di immigrati di seconda generazione e molto attenti alla qualità del servizio che prevede che il percorso e il prezzo dello stesso siano resi evidenti all’utente e alle autorità, hanno creato una nuova domanda e spinto i taxi tradizionali ad adattarsi. Una migliore qualità del servizio che rende accessibile il servizio alle classi medie, per quanto riguarda la domanda, e nuove possibilità di impiego per giovani immigrati di seconda generazione, per quanto riguarda la creazione di nuovi posti di lavoro, non sono forse l’obiettivo di una politica progressista, che primo paradosso, si attua attraverso un aumento della concorrenza.
Per quanto riguarda la politica abitativa, quella di proteggere gli inquilini in ritardo coi pagamenti dell’affitto è apparentemente una scelta politica generosa. Ma come la mettiamo con i proprietari, che preoccupati di non essere pagati, applicheranno una severa selezione dei loro inquilini e scarteranno persone con contratti a tempo determinato o giovani senza la garanzia di qualcuno. Allo stesso modo, è del tutto legittimo proteggere gli inquilini contro gli aumenti abusivi nel corso della durata del canone di locazione ma questa politica di controllo finisce sempre per diminuire l’offerta e la qualità dell’offerta, che andrà ad impattare negativamente soprattutto i soggetti più vulnerabili economicamente. Politiche abitative apparentemente progressiste possono facilmente rivoltarsi contro le persone socialmente più deboli. Questo è il secondo paradosso.
Per quanto riguarda gli affitti, i sussidi per la casa sono, di fatto, il primo strumento redistributivo in Francia. La spesa nel 2013 è stata di 17 miliardi, molto di più di tutti i soldi spesi per i sussidi di disoccupazione (RSA e PEP). Tuttavia, questi aiuti hanno contribuito all’aumento degli affitti, perché l’offerta di case in affitto non è riuscita a seguire la domanda dal momento che la rendita fondiaria è protetta e si limita l’altezza degli edifici nelle grandi città, dove sarebbe possibile [costruire].
Questa è una buona notizia per i proprietari il cui reddito aumenta grazie ai sussidi, ma questi non erano, ovviamente, il pubblico a cui era destinata questa decisione politica. I sussidi per la casa, considerato uno strumento potente di sinistra, lasciano ben poco per chi erano stati pensati e hanno un grande peso nella spesa pubblica a scapito di altri possibili usi. Ecco il terzo paradosso.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, un aumento del salario minimo garantito ha l’obiettivo lodevole di ridurre le disuguaglianze salariali; ma crea disoccupazione, soprattutto tra i giovani e meno qualificati. Ancora una volta, questa presunta “bandierina” della politica progressista si rivolta contro quei gruppi per cui era stata pensata. Non ci si pone sempre la domanda se non ci sarebbero politiche redistributive alternative che non scoraggino l’occupazione. Osservazioni analoghe valgono per la legge sui licenziamenti che scoraggia la creazione di contratti a tempo determinato e ha l’effetto di escludere le fasce di popolazione più vulnerabili dal lavoro e in particolare da un‘occupazione stabile. Ecco il quarto paradosso.
Il quinto esempio di paradosso viene dal sistema educativo francese che persegue degli obiettivi di uguaglianza (attraverso la standardizzazione dei programmi e la settorizzazione), ma crea delle forti diseguaglianze tutte a favore di quelli meglio informati e i cui genitori possono vivere in quartieri benestanti tutto a scapito dei poveri. Allo stesso modo, l’assenza di tasse universitarie e nella maggior parte delle grandi scuole va prioritariamente a beneficio delle classi ricche. Noi non sosteniamo che la soluzione a questi problemi sia semplice, ma è possibile prendere in considerazione di far pagare l’istruzione superiore ai figli delle famiglie i cui redditi lo consentano e ridistribuire una parte di tali ricavi sotto forma di borse di studio aggiuntive, come ha fatto la facoltà di Scienze Politiche.
La lezione di questi cinque esempi tra tanti altri simili è duplice. In primo luogo, per capire se una politica pubblica sia redistributiva o no, non è sufficiente analizzare la sua storia e neanche conoscere le condizioni socio-economiche del pubblico per cui è pensata. Si deve tenere conto di tutto l’insieme delle sue conseguenze: la possibile dispersione di valore (quelli che beneficiano degli effetti di una politica d’incentivazione, ma avrebbero agito allo stesso modo anche in assenza di questa, come nel caso di una famiglia che avrebbe comprato una casa anche in assenza di un prestito a tasso zero), gli effetti indiretti (una politica di prestiti a tasso zero può modificare l’aumento dei tassi d’interesse concessi dalle banche), gli effetti di spostamento (una politica di prestiti a tasso zero può far aumentare i prezzi degli immobili rendendo l’accesso più difficile per i non beneficiari), effetti fiscali (quelli che hanno ricevuto una sovvenzione possono effettivamente perderla sotto altre forme, ad esempio con un aumento dei prezzi); la comprensione di questi concetti richiede valutazioni indipendenti e professionali delle politiche pubbliche e dovrebbe essere parte del curriculum dei futuri alti funzionari statali e della formazione professionale dei rappresentanti eletti. La seconda lezione è che tutti gli strumenti di intervento devono essere mobilitati.
Non mettere in atto una politica a favore della concorrenza, in quanto “non è di sinistra” conduce di fatto a ridurre il potere d’acquisto e ad allontanare settori di società da certe attività economiche verso cui dovrebbero essere incoraggiate, come mostra l’esempio dei taxi. Infine, a forza di mostrare reticenze sul controllo della spesa pubblica, stiamo minacciando la sostenibilità a lungo termine del nostro sistema sociale: la forte diminuzione delle spese sanitarie e per l’educazione e la diminuzione delle pensioni associata a difficoltà finanziarie, di fatto, rappresentano una rottura del patto repubblicano.
Una politica progressista del XXI secolo deve accettare che l’educazione, l’occupazione e la salute siano il cuore dell’intervento pubblico e che questi tre ambiti non siano compromessi da una scarsa conoscenza dei meccanismi economici.
Questa politica progressista del XXI secolo deve garantire che lo Stato si assuma tutti i suoi compiti in cui i mercati non riescono (e solo lì) e protegga [le persone] colpite da disgrazie. Lo Stato deve stabilire le condizioni per una vera parità di opportunità, per una sana concorrenza, per un sistema finanziario che non si basi sui salvataggi grazie al denaro pubblico, per una chiamata di responsabilità di tutti gli attori economici nei confronti dell’ambiente (tassa carbone), per un servizio sanitario solidale, per la tutela dei lavoratori non informati (sicurezza, diritto ad un’istruzione di qualità), etc. Lo Stato deve accettare le iniziative della New Economy che mirano a trasformare le strutture economiche esistenti creando nuovo potere d’acquisto e posti di lavoro, e deve togliere tutti quelli ostacoli che favoriscono la rendita a scapito dell’innovazione. In questa maniera centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro di qualità potranno emergere, le finanze pubbliche non metteranno in pericolo il nostro sistema sociale e l’indispensabile solidarietà, senza la quale la nostra società perde la sua anima, infine il potere d’acquisto sarà aumentato e le disuguaglianze diminuiranno.
traduzione di Alessandro Pastore

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