Tutto come da copione? A distanza di un anno da quello del 4 giugno, un altro tsunami ha colpito domenica e travolto le speranze della sinistra (ma proprio tutta?) e del suo candidato sindaco Felice Casson. Sancendo un risultato che pochi hanno potuto prevedere, anche sulla base dei sondaggi che davano il senatore in testa fino ai giorni precedenti il primo turno. Quando perfino dal cerchio tragico che ha accompagnato il remake di Casson provenivano messaggi rassicuranti. Che si sarebbe vinto al primo turno.
Per quanto tali sondaggi potessero apparire, se solo si fosse messo fuori il naso, in netto contrasto con gli aromi che invece provenivano dalle cucine della città. Intente a cucinare ben altre pietanze, del tutto indigeste ai palati fini di chi questa città ha governato per tanti anni, perdendo alla fine il contatto. Incapace di coglierne, per snobismo e autoreferenzialità, i più segreti fremiti. Non più in grado di misurare la distanza che in questi anni e dopo i fallimenti delle amministrazioni si era prodotta tra governati, per antonomasia progressisti e proni al rito delle urne, e governanti. Di certo per definizione il meglio che si sarebbe potuto trovare sulla piazza. Non percependo, di converso, una città tutt’altro che attenta alla disfida in atto, e comunque poco favorevole al centro sinistra.
Sparito ora dalle scene il condottiero Felice Casson, da molti descritto come seriamente ammaccato e in uno stato che non gli permette nemmeno di rispondere al telefono. E che solo a distanza di molte ore dal risultato, chissà se lui o qualcuno per lui, ha sentito il bisogno di postare un laconico e tristissimo ringraziamento su facebook. E, inusitatamente non rispettoso del galateo che in queste situazioni generalmente s’impone, non ha pensato di convocare una conferenza stampa. In cui ammettere con sincerità la sconfitta, fare gli auguri al vincitore, e promettere, s’intende sempre per il bene della città, la sua più implacabile opposizione, ma nel rispetto (lui che ne ha fatto sempre vanto) delle norme e della buona educazione.
Quindi, in attesa del fiume di analisi e di autocritiche che occuperanno le menti e le coscienze della sinistra nei mesi a venire, azzardiamo noi delle ipotesi cercando di fornire un’analisi partendo, in ordine decrescente, dai maggiori responsabili di quella che a tutti gli effetti passerà per sconfitta epocale della sinistra veneziana.
Partito Democratico: di certo è il maggior responsabile del risultato di questi giorni. Già prima dello scandalo del Mose, il partito si era reso conto della improponibilità di un secondo mandato di Orsoni e aveva messo in atto una strategia, con la segreteria comunale di Emanuele Rosteghin, che avrebbe dovuto dolcemente far transitare la città dal sindaco allora in carica a Pierpaolo Baretta, l’attuale vice ministro all’economia del governo Renzi. Poi la Grande Retata del 4 giugno ha sparigliato le carte e rotto gli equilibri. E messo a nudo la fittizia unità del partito e delle sue anime, scatenando gli appetiti dei vari cacicchi.
L’inizio della fine.
Anziché impegnarsi in una seria riflessione sul fallimento dell’amministrazione Orsoni di cui il Pd era l’asse portante, che procedesse a un superamento della distanza enorme tra città e amministrazione che si era prodotta, il partito ha vissuto una lunga fase di stallo e di mancate scelte, che ha prodotto lo spazio politico per una candidatura di Felice Casson.
E di lì in seguito il Pd ha giocato solo di rimessa, in pratica reagendo e non agendo. Cessando del tutto di dettare l’agenda politica cittadina, se mai l’aveva fatto. Nulla è valso spendere inutili energie in un’attività di “ascolto” della città con l’iniziativa che ha portato alla stesura del programma. L’aria fritta fatta a sistema, la materializzazione dell’anima dorotea profonda del partito. Come se poi fosse necessario che un partito che bene o male governa una città da più di vent’anni avesse bisogno di conoscerla. Mentre al contrario avrebbe dovuto tornare alla e tra la gente. Cosa forse impossibile per la forma partito gassosa di Renzi.
Tutto il resto è noto.
Discesa in campo di Casson a dicembre, accordo in extremis del Pd sul nome di Pellicani, primarie (con terzo incomodo Molina) e un risultato scontato. E passa il candidato considerato dalla maggioranza del partito come quello che mai potrà allargare la base dei voti. Per cadere successivamente in un altro errore, quello di non offrire a Pellicani e a Molina, sconfitti da Casson nelle primarie, di guidare la lista del Pd in appoggio al candidato sindaco. Per far largo agli appetiti di chi, nel partito, cercava un posto al sole. Poi tutta la campagna del candidato sindaco Casson, mal vissuta dal partito, poco convinto dalla scelta, e spesso addirittura sotto attacco e insofferente ai distinguo del candidato. Fino al risultato del primo turno, quando il Pd si scopre terzo partito in città, dopo le due liste civiche di Brugnaro e dello stesso Casson. Uno choc.
Felice Casson: è il secondo responsabile in ordine d’importanza. In primo luogo ha dimostrato di non aver mai compreso i motivi profondi della sua sconfitta nel 2005, commettendo gli stessi errori del passato. Non riuscendo a far giungere il suo messaggio al di là di chi era già convinto. Perché strutturalmente incapace di farlo e di superare i propri limiti. Questa volta ricorrendo all’uso della propria immagine, specchiata e integerrima, e facendo l’occhiolino al giustizialismo. Con un lontano sottofondo di tintinnar di manette, per rassicurare un certo elettorato. Alla cui esasperazione prima la sinistra mai aveva saputo e voluto dare risposta.
Limitandosi a negare semplicemente l’esistenza del problema. Pensando Casson che le ragioni profonde del malessere cittadino fossero gli scandali e non la pessima amministrazione, lo s-governo che ha portato allo sbando un’intera città. E che ha fatto sì che questa città non potesse più credere alle ennesime promesse. Che stavolta chi aveva già governato la città avrebbe fatto meglio. E che ha spinto alla fine, tanta la disperazione e il disincanto, a scegliere, con il voto o l’astensione, l’incertezza dell’alternanza. A scapito di un’improbabile palingenesi, tante volte promessa, e mai mantenuta, col miraggio della discontinuità. Giochino che già tante volte ha funzionato in passato. E infine un rapporto non risolto, tra il candidato sindaco e il partito democratico, che ha portato il primo a ondeggiare tra l’accettare di essere il candidato del secondo, e il negare ogni rapporto con lo stesso. Creando confusione tra la gente, che non ha creduto alle sue assicurazioni d’indipendenza, e non ha recepito il suo messaggio. Fino anche a non capire quale arma di comunicazione stava dando all’avversario, quando Casson si è fatto fotografare col leader dei centri sociali.
Per non parlare di alcuni errori tattici da parte di Casson.
Come nel caso di Marghera, dove alla Municipalità ha promosso Gianfranco Bettin, a scapito dei piddini. Che al ballottaggio conseguentemente non sono andati a votare, consumando l’ennesima faida interna cui il partito sembra dedicarsi come allo sport preferito. Poi la prima fase della campagna, quando vinte le primarie Casson è sembrato adagiarsi sugli allori, sprecando inutilmente alcuni giorni e sparendo dall’orizzonte. Mentre Brugnaro cresceva. E lui forse era già convinto di avere la vittoria in tasca. La sterzata ormai tardiva, passato il primo turno e avviandosi al ballottaggio. Quando ha sfoggiato un’aggressività che non gli si conosceva prima, ma che non molto è durata, annegando nella sequela di confronti col suo avversario. In cui da entrambe le parti correvano le stesse frasi, le stesse parole. Fino a generare un’incontenibile noia. Ma in cui Brugnaro dimostrava di aver più doti di comunicazione.
Quindi l’epilogo di domenica scorsa. Il silenzio che sottende una grande sofferenza personale e una non capacità di controllare lo stress. Le vociferate dimissioni dal consiglio comunale. Il suo ritorno a Roma dove non avrà vita facile, e dove con ogni probabilità si concluderà la sua esperienza politica. Dando per escluso che Renzi lo vorrà candidare al prossimo giro.
Il cerchio tragico: è il gruppetto di persone che Casson si è scelto come più stretti collaboratori. Che l’hanno circondato, accompagnato, filtrato e protetto. Col risultato di isolarlo dal resto del mondo. Riuscendo perfino ad accentuarne il carattere di estraneità e pure di antipatia, un pericolo sempre presente in un uomo timido e introverso come Casson. Quel cerchio tragico, come già fu per il cerchio magico di Bossi ed è per il giglio magico di Renzi, cui ora viene addossata una buona parte di colpe per aver sbagliato tutta la campagna. E che tutto sommato ha dimostrato una massiccia dose di provincialismo, se non addirittura di sudditanza culturale. Per aver privilegiato una strategia di comunicazione che si è basata sull’evento col famoso di turno, proveniente da quel mondo radical chic con cui certa sinistra è accusata di andare a nozze.
Un mondo sostanzialmente autoreferenziale, ai cui eventi accorrevano solo i già convinti, e che nulla forse ha spostato in termini di voti. Quel mondo probabilmente considerato attraente dal cerchio tragico e con cui gli è parso utile far contaminare il candidato, per vederne aumentati il prestigio e lo scarso appeal. Una strategia di comunicazione che è durata per buona parte della campagna, salvo la breve affannosa ultima fase. Quando probabilmente ci si è resi conto che la strada era più in salita di quanto si pensasse, e si è cercato di ovviare portando alle folle il candidato. Lo si è fatto uscire dall’hortus conclusus in cui lo si era confinato e protetto facendolo recitare in improbabili e poco credibili contraddittori. Non rinunciando comunque alla strategia tanto cara alla sinistra di un tempo, dimostrando la sostanziale arcaicità delle scelte di comunicazione adottate. Quella di ricorrere al sostegno degli appelli dei vari Imposimato e company. Con ciò non capendo che si finiva di infastidire l’elettore cui l’appello era diretto. Fosse della sinistra o dei 5 Stelle. O come la tragicomica mossa dei quattro saggi, incredibilmente appartenenti a mondi e sensibilità politiche diametralmente opposte a quelle di Casson. Chiamati in causa e annunciati come suoi collaboratori in caso di vittoria, e il cui effetto mediatico si è sciolto come neve al sole sotto la raffica delle smentite di Renzo Rosso e di Daverio. Insomma, un disastro, solo parzialmente recuperato grazie all’approvazione del decreto governativo che ha mitigato gli effetti negativi dello sforamento del patto di stabilità. Di cui Casson si è subito arrogato il merito, quasi fosse opera sua e a beneficio di Venezia. Smentito in persona dal vice ministro Zanetti, che guarda caso ha sostenuto Brugnaro.
La sinistra estrema: è scomparsa, sepolta sotto una lapide fatta di percentuali da prefisso telefonico. E ci viene addirittura il dubbio che non sia neanche tanto andata a votare al ballottaggio.

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1 commento
l’analisi mi pare corretta, anche se la personalità di Felice Casson merita di comparire negli annali della Repubblica per il suo impegno dettato dal dovere civico, anche verso la sua città;Un caso da ricordare con orgoglio. Quanto all’analisi, aggiungerei in modo più esplicito solo la sua incomprensione dei meccanismi della attuale comunicazione politica, in particolare televisiva.
Quanto a Venezia, toglierei il Se iniziale dal titolo del recente libro di Settis. .