Venezia, parrà strano, è uno dei più grandi comuni agricoli esistenti nel nostro paese. Il che probabilmente potrà perfino stridere con l’immagine ricorrente che a lungo andare si è imposta. E che per lo più ce la consegna come città di arditi e instabili giochi di pietra che si riflettono nell’acqua dei canali, con all’orizzonte, nella sua immediata terraferma, un moloch un tempo minaccioso e ora in buona parte sonnolento, fatto di ciminiere e fabbriche.
Di terre messe a coltura e di orti, pullulano l’entroterra e le isole. Come quelle più famose di Sant’Erasmo e le Vignole. Da cui quotidianamente gli ortolani un tempo si sfidavano al remo e con la vela per giungere primi a Rialto a bordo di battelle, topi e caorline carichi di verdure, per poter fare il prezzo. Ma anche il centro storico non è privo di realtà dedite alla coltivazione, e ancora al giorno d’oggi.
Ne abbiamo visitata una in un torrido pomeriggio di luglio, nell’isola della Giudecca alle Zitelle, a pochi minuti di vaporetto da San Marco. Il suo animatore risponde al nome di Michele Savorgnano. Un veneziano di quarantasette anni, una sorta di Robert Louis Stevenson barbuto, con studi di ebraico e di arabo alle spalle, due figli e una moglie insegnante e attrice.
“Vuoi un bicchiere d’acqua?” Così mi accoglie Michele facendomi sedere a un lungo tavolo di legno all’ombra e nella quiete del suo orto mettendomi davanti una caraffa in cui fluttuano delle foglie di erba Luigia. Nel mentre mi disseto con il liquido dal gradevole sapore, poco distante un ragazzo e una ragazza sono intenti a scegliere varietà di fiori e a riporli con cura in vaschette di plastica. Ancora non capisco, forse anche perché sono tuttora intento a studiare l’uomo che poco fa mi ha sorpreso accogliendomi a piedi nudi tra filari di viti, fiori e piante, cappello di paglia in testa, una canotta color verde oliva che ben si armonizza con l’ambra della sua abbronzatura, e una barba folta e a punta, che incornicia il suo scarno volto da monaco orientale. E inizia a parlare, solo lui, e intanto mi riprendo più dalla sorpresa del luogo dove sono capitato che dalla calura.
“Abbiamo cominciato sei anni fa con due associazioni, Spiazzi Verdi e Laguna nel bicchiere, le vigne ritrovate, su un terreno di proprietà dell’IRE (Istituto di Ricovero e Educazione) che misura in tutto mezzo ettaro e che prima era abbandonato. Negli stabili che vedi in fondo un tempo c’era un orfanotrofio. Ora, dopo i restauri, l’hanno trasformata in una casa di riposo per anziani e in un centro diurno per l’alzheimer. A spingermi a mollare quello che facevo prima e a scegliere questa nuova vita è stato un percorso di permacultura e un corso percorso di scuola esperienziale di agricoltura biologica, dove i contadini insegnano a lavorare la terra.”
Permacultura?
È un metodo per progettare e gestire paesaggi antropizzati in modo che siano in grado di soddisfare bisogni della popolazione quali cibo, fibre ed energia e al contempo presentino la resilienza, ricchezza e stabilità di ecosistemi naturali. È un sistema di progettazione che si basa sui modelli naturali. Che poggia su tre pilastri: la cura della terra, la cura della persona, e sul lavorare sul concetto di limite, che non vuol dire limitarsi.
Progettare la natura è un eufemismo ma progettare con la natura è fondamentale! La cura quotidiana e la sintonia con la natura circostante sono pratiche che si associano a una progettazione che si ispira a quella messa a punto da Bill Mollison e David Holmgren, che si basa soprattutto su due fondamentali principi etici, cura della terra e cura della persona. Progettare con la natura insegna soprattutto a stare in ascolto, osservare i segnali che l’ambiente circostante ci lancia, ponderare le nostre azioni in modo da non doverne subire le conseguenze. Un errore, in alcuni casi, può pregiudicare un raccolto ma soprattutto la rottura di un fragile equilibrio. Da quando ho cominciato ora ho una decina di volontari che mi aiutano, qui il lavoro e’ tantissimo. Non conto le ore che passo durante la giornata. Poi d’inverno i ritmi cambiano, e me ne sto molto a casa a godermi i miei due figli e lascio che sia mia moglie a lavorare.
Spiegami questo luogo.
Questo luogo che vedi è probabilmente il sito dove c’è più biodiversità in laguna. Abbiamo più di trecento varietà di piante, quindici specie di pomodori, dodici di basilico, alberi da frutto di varietà antica, prugne, susine, albicocche. Non compriamo nulla in vivaio e selezioniamo le nostre sementi. Siamo resilienti. Ora, per esempio, stiamo selezionando varietà locali, piante che sono adatte alle condizioni e al tipo di terreno. E quindi otteniamo piante più forti. A questo luogo si sono ispirate altre esperienze in città, come l’orto di Campo San Giacomo dell’Orio, quello di Santa Marta, e quello dell’Ospedale al Mare al Lido. E di qui sono passate centinaia di persone, in occasione degli incontri che organizziamo, di carattere pratico e teorico.”
Ma che tipo di agricoltura praticate?
Le posso definire coltivazioni sinergiche. L’agricoltura naturale nasce con Masamobu Fukuoka che grazie all’osservazione della natura aveva capito che l’agricoltura aveva stravolto il concetto di coltivazione della terra. Fukuoka ha osservato a lungo le foreste e ha potuto capire che gli alberi crescevano senza il bisogno di arare e concimare le terre. In agricoltura è giunto al concetto del “non fare”. Ma per arrivare al non fare in agricoltura, bisogna fare e molto. Fukuoka si ispira al concetto del Mu, approssimativamente tradotto con “senza” o anche “nessuno”, il quale è il nucleo dell’insegnamento del Buddhismo Zen. Qui per esempio abbiamo fatto un sacco di lavoro, prima c’era solo erba. Ora vedi vigne e piante. Il concetto che ci ispira è quello di perseguire una continua e totale copertura del terreno. Non arando, non lasciando la terra nuda, non usando sostanze chimiche e non concimando.”
Ma come è possibile tutto ciò?
È la stessa copertura del suolo che provvede al suo nutrimento. In pratica qui coltiviamo più il suolo che le piante. Che sono degli esseri aerei che hanno radici solo per non prendere il volo. Tutti gli scarti dei giardini vicini della Giudecca sono per noi una grande risorsa. Ne facciamo una pacciamatura, che in pratica è una concimazione naturale, protegge il terreno dai raggi solari, ospita una ricca vita animale che vive sotto allo strato, e che alla fine trasforma la sostanza organica in sostanza inorganica. Quindi assimilabile dalle piante.
Qui c’erano viti vecchie che ora stiamo sostituendo con la Dorona e la Turchetta, che è un vino rosso del Polesine che ben si ambienta in questo clima. Ma non mi occupo solo di questo orto. Ho anche quattro ettari a Sant’Erasmo solo per la raccolta di erbe spontanee, come porri selvatici e piante officinali. Anche a Venezia i giovani, non molti in verità, stanno tornando alla terra e nella nostra laguna ci sarebbe un grande bisogno di persone che si dedicano alla cura del paesaggio. Abbiamo un così vasto panorama di luoghi differenti. Dal piccolo appezzamento di terra, al convento abbandonato. E mi piacerebbe insegnare ai giovani a curare un luogo in relazione con gli altri luoghi.”
Stai pensando a una sorta di scuola?
Sì, ma la scuola che m’immagino è una scuola dove io imparo e aiuto gli studenti ad avvicinarsi a questa forma di attività e di economia. Venezia è un sistema che si basa su una monocoltura turistica. Guardando a sistemi resilienti, quello di Venezia è quindi un modello troppo sbilanciato verso un solo input, e perciò instabile. Alla fine pericolosissimo.
Bisogna introdurre vari tipi di economie che si basano sulla cura del territorio. Anche la Serenissima, persa la supremazia nei traffici marittimi, si è rivolta alla terraferma, alla campagna. Ma per cura dell’ambiente non intendo solo lavoro della terra, ma anche altre attività di grande cultura materiale come l’artigianato. Questa che stai visitando è una vigna murata, quindi chiusa, ma in relazione con l’esterno. Qui, come ti dicevo, vengono tante persone. Qualche mese fa abbiamo ospitato un incontro con i tre chef del Caffè Quadri, del CoVino e dell’Estro che hanno cucinato per cinquanta persone. Utilizzando i nostri prodotti e favorendo un momento di grande scambio.
Michele, prima i due ragazzi raccoglievano fiori e li sistemavano con cura in vaschette di plastica. Che uso ne fate?
Coltivo fiori che rivendo ai tanti ristoranti in città, che li usano in cucina. Non guadagno moltissimo ma mi basta per vivere, e non rinuncerei alla vita che faccio. Hai mai mangiato nasturzi? Sono buonissimi, vieni che te li faccio assaggiare e ti faccio vedere le altre piante e come è ricco il nostro terreno.”
E nel mentre lo accompagno nella visita tra i filari di viti e le innumerevoli piante, non smetto di infilarmi in bocca i deliziosi nasturzi dai vivaci colori. Nel frattempo Michele mi parla di una infinità di fiori, odori, foglie. E scorrono alla mia vista amaranti, achillee, calendule, fiordalisi, garofani, ibischi, malve, papaveri, salvie, trifogli bianchi, cardi, carciofi, finocchi, sedani, biete, acetose, misticanze, artemisie, assenzi, dragoncelli, elicrisi, santoline, basilico greco e nero, agli, e cipolle rosse. In una sequela che non sembra aver proprio fine.
(servizio fotografico di Claudio Madricardo)

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Grazie!
5 commenti
L’ha ribloggato su .
IT’s a great place! But you must be willing to work. The earth rewards you
[…] L’orto più bello del mondo? È alla Giudecca. […]
[…] CLAUDIO MADRICARDO* Venice, as strange as it may seem, is one of the largest agricultural municipalities in Italy. Which certainly clashes with the city’s recurring image that has been created over the years. Mostly as the city that enchants with visual games of daring and unstable ancient stone reflected in its canals, and overlooking on the horizon, its immediate mainland: a once threatening juggernaut, now a mostly sleepy agglomerate of smokestacks and factories. (VERSIONE ITALIANA) […]
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