Il percorso è sempre più accidentato e a rischio per “il maratoneta” Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd qualche mese fa ha lasciato i panni dello “sprinter” ed ha indossato quelli del “maratoneta”, ma forse non si aspettava di dover passare su un tracciato così scivoloso e pericoloso.
I problemi si sommano: la turbolenze provocate dalla possibile uscita della Grecia dall’euro, gli sbarchi in Italia dei migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente in fiamme, le minacce del terrorismo islamico, la debole ripresa economica, le deludenti elezioni amministrative di un mese fa, la contestazione sempre più dura delle minoranze del Pd alle sue scelte.
Ogni votazione alla Camera e al Senato sulle “riforme strutturali” è una scommessa. La minoranza del Pd ha alzato il tiro. Renzi alla fine ha portato a casa “la Buona scuola” dopo l’Italicum (la nuova legge elettorale) e il Jobs act, ma il Pd si è pericolosamente spaccato. La riforma della scuola, obiettivo centrale del “rottamatore” di Firenze, ieri non è stata votata da gran parte della sinistra interna: 5 deputati hanno schiacciato il pulsante del “no” e 24 non hanno partecipato al voto (tra questi big come Bersani, Cuperlo, Speranza).
La “Buona scuola”, contestata dai sindacati a suon di scioperi e di manifestazioni di protesta, è passata alla Camera con appena 277 voti a favore, 173 contrari e quattro astenuti. In teoria la maggioranza poteva contare su ben 395 “sì”, così all’appello sono mancati circa 120 voti tra assenze, critici e “mal di pancia” anche di diversi deputati centristi. Quattro deputati di Forza Italia, “verdiniani” di stretta osservanza (l’ala dialogante con Renzi del partito di Berlusconi), hanno invece lasciato l’opposizione e hanno votato “sì”, ma l’apporto provvisorio non fa bene all’immagine dell’esecutivo.
Le prossime sfide saranno al cardiopalma. Sarà dura quando il presidente del Consiglio la prossima settimana dovrà affrontare la prova del Senato sulla riforma della Rai (il governo qui poggia su una maggioranza risicata) e alla Camera sarà da votare il riassetto della pubblica amministrazione. La tensione è così alta che ha consigliato di rinviare a settembre l’esame al Senato della riforma costituzionale (inizialmente la discussione era prevista a luglio). Alcuni giorni fa 25 senatori della sinistra del Pd hanno puntato i piedi: in un documento hanno chiesto al presidente del Consiglio di cambiare la riforma costituzionale, inserendo l’elezione diretta dei senatori, il cavallo di battaglia di Vannino Chiti (come mediazione si parla di un listino apposito da votare assieme a quello dei consiglieri nelle elezioni regionali).
Gli ultimi mesi sono stati pesanti per l’emorragia a sinistra. Prima hanno detto addio a Renzi Pippo Civati, Sergio Cofferati e Luca Pastorino. Poi a giugno, proprio contestando la riforma della scuola, hanno lasciato il Pd Stefano Fassina e Monica Gregori, attaccando “le scelte plebiscitarie” sulle riforme istituzionali e quelle “liberiste, subalterne alla destra” in economia. Fassina, Civati e Cofferati, dopo la scissione, puntano a creare “un nuovo partito unitario della sinistra di governo alternativa”.
Dialogano con Sel di Nichi Vendola e nelle elezioni del 2016 vorrebbero presentare delle liste per il sindaco nelle grandi città. Proprio domani l’assemblea nazionale di Sel a Roma manderà dei “segnali” a Fassina e a chi ha lasciato il Pd sulla «necessità di aprire una nuova stagione a sinistra in Italia».
Bersani, Cuperlo, Speranza per ora tacciono, ma Davide Zoggia, tra i deputati della sinistra Pd che non hanno votato a Montecitorio la “Buona scuola” ha detto oggi a la Repubblica: la riforma «ci farà perdere un sacco di simpatie. E quindi, e di voti». Il “colonnello” della minoranza democratica è allarmato: quando alla Camera è stata votata la legge «sono anche scoppiati gli applausi della destra…Ci perdiamo la sinistra ma il nostro futuro non può essere l’Ncd».
Pier Luigi Bersani, leader della sinistra del partito, è corteggiato dagli scissionisti, tuttavia è molto difficile che lasci il Pd, “la ditta”, come lo chiama lui: «La parola scissione non fa parte del mio vocabolario». L’ex segretario democratico da tempo critica il presidente del Consiglio. Ha sparato pesanti bordate: «L’Italicum apre un’autostrada per le pulsioni plebiscitarie e populiste», si rischia «un presidenzialismo senza contrappesi, una sorta di democrazia d’investitura». La presa di distanze è stata netta: questa «non è più la ditta che ho costruito io. Questa è un’altra cosa, un altro partito».
Il presidente del Consiglio e segretario del Pd valuta le contromosse. Ieri ha ringraziato «la straordinaria maggioranza» che ha permesso il varo della “Buona scuola”, l’assunzione di centomila docenti precari e la valorizzazione del merito degli insegnanti. Oggi, incontrando a Palazzo Chigi il premier irlandese Enda Kerry, ha commentato con soddisfazione i positivi dati sulla ripresa dell’occupazione e della produzione industriale in Italia: «E’ l’ulteriore dimostrazione che facendo le riforme le cose cambiano».
Subito dopo il deludente risultato delle amministrative ha annunciato: «Il Pd dovrà riflettere perché i cittadini non sbagliano mai». Ma ha bocciato le critiche di essere subalterno alla destra e ha confermato la volontà di andare avanti sulla sua linea di riforme strutturali e di modernizzazione dell’Italia: «L’unica sinistra che in Europa ha ancora un risultato è la nostra». Ha respinto gli inviti a cambiare rotta: «La sinistra che si ritiene più a sinistra fa vincere la destra». Ha attaccato “i gufi” e ha avvertito: «Se poi deputati e senatori si sono stancati di noi, basta togliere la fiducia delle Camere e vediamo chi prenderà quella dei cittadini». Nel libro Una donna senza importanza Oscar Wilde scrive: «Il grande vantaggio di giocare col fuoco è che non ci si scotta mai. Sono solo coloro che non sanno giocarci che si bruciano del tutto».
LA NOTA POLITICA di Rodolfo Ruocco

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