A inventare un cittadino responsabile siamo
stati noi italiani! Accadde molti secoli fa,
tra il Trecento e il Cinquecento, con
l’Umanesimo e il Rinascimento. Fu una
lunga stagione di gloria che durò non meno
di centocinquant’anni; poi, lentamente,
furono spente tutte le luci che erano state
accese e, tra roghi e altre forme di violenta
repressione, la Controriforma espulse
dall’Italia quell’homo novus appena
plasmato sostituendolo con un suddito
deresponsabilizzato,vera e propria
maschera della sottomissione e della
riununcia a ogni forma di autonomia e di
pensiero.Ermanno Rea,
La Fabbrica dell’obbedienza, Feltrinelli
Poche righe, quelle di Ermanno Rea, per dire la storia di un Paese e di un popolo. I nostri. Quella frase compare in una pagina di un altro libro che, programmaticamente, tratta di “Cronache da un’Italia che nessuno racconta”. Un sottotitolo esplicito per un titolo che rinvia a un’Italia che forse non c’è più: “Paracarri”. L’autore è un giornalista e scrittore, Alessandro Calvi: 240 pagine edite da Rubbettino, di un viaggio dal nord al sud della penisola compiuto insieme a guide ideali: dal Paolo Conte di Bartali, a Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini, a Nuto Revelli e Danilo Dolci. Nomi che evocano narrazioni, analisi, interpretazioni, visioni di ciò che c’è ma non si vede, di ciò che non è ancora accaduto ma che accadrà.
Le definisce, Calvi, “cronachette saltuarie”, “storie piccole, sì, e lente, laterali. Ma, tutte insieme, cercano infine di raccontare un Paese relitto il quale, sebbene oramai rimosso dal racconto quotidiano costruito dai grandi giornali e dalla televisione, continua da qualche parte ad esistere, giacchè forse non ovunque il Centro ha omologato la periferia”. E’ proprio così: i reportages che riempiono uno dopo l’altro le pagine di “Paracarri” raccontano un’Italia che non leggiamo più sui giornali, non formano più l’oggetto delle sempre più rare inchieste che dovrebbero scavare nella carne viva di un Paese, un’Italia le cui immagini non vediamo più sulle centinaia di canali televisivi e non ne ascoltiamo più nemmeno le voci nonostante siano centinaia le radio sulle quali sintonizzarsi.
Nostalgie, rimpianti, moralismo per ciò che era e non è più? O non si vede più? Calvi è un giornalista e qui fa il cronista. Viaggia, osserva, racconta, con la consapevolezza che forse un’età dell’oro non è mai esistita davvero, ma anche con la certezza che c’è stato un tempo in cui intellettuali, scrittori, uomini di cultura sapevano indagare, comprendere, narrare il tempo che vivevano, le fasi di passaggio antropologico, le mutazioni genetiche che, invisibili, trasformano uomini e cose. Questo sì è un rimpianto: dov’è oggi un Carlo Levi del Cristo? Il Pasolini degli Scritti Corsari o della Forma della Città?
Il viaggio di Alessandro Calvi inizia da un’illusione, quella di Mussolini per una città che avrebbe dovuto inverare il regime e che non poteva che avere un solo nome, il suo: Mussolinia. La città che non è mai nata se non nella testa del duce e in qualche immagine che i gerarchi gli propinarono per non deludere l’illusione. Ma ci sono grandi tragedie in queste pagine. La più grande e amara: l’amianto di Casale Monferrato, lo scambio vita-lavoro proprio come a Taranto per il siderurgico, le atrocità della legge che non è giustizia mentre la morte ti aspetta, inesorabile.
Il Sud, ovviamente. Messina che dentro di sé ha ancora baracche di lamiera come se fossimo in una favela sudamericana. Matera e i suoi Sassi che rischiano l’assalto degli speculatori. La Valle del Belìce, alla quale hanno cambiato la dizione in Bèlice, del dopo-terremoto del 1968: un deserto di cemento, lo snaturamento di una civiltà.
Il viaggio di Calvi conosce altre tappe, altri luoghi. Roma dove non si vede la Grande Bellezza, Milano con il suo primo semaforo, Venezia livida nella sua incaccelabile bellezza. Le ultime pagine sono dedicate all’ultima grande tragedia nazionale: il terremoto dell’Aquila. A parlare non è un abruzzese ma un rumeno, Octavian. E pure questo ha un senso.

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