Lo scatto lento di Nascimben. Una bella mostra a Treviso

LUCIO CHIN
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Le opere fotografiche di Alberto Nascimben che sono state esposte a Treviso in questi giorni a Casa dei Carraresi, consentono un’ampia riflessione sull’esercizio della fotografia quale esperienza estetica ed etica al tempo stesso. La serie di lavori esposti, occupanti un arco temporale di più di dieci anni, svelano una pratica capace di esprimersi con omogeneità e coerenza formale.

È significativa una delle prime fotografie esposte, un particolare del Palazzo di Giustizia di Bruxelles, con la sua architettura ridondante di elementi decorativi. L’architettura di Joseph Poelaert, sorta su quello che una volta era il Colle della Forca di Bruxelles, si mostra con una magnificenza simbolo della potenza della giustizia. Vengono alla mente i percorsi narrativi del protagonista dell’ultimo romanzo di Winfried Georg Sebald nelle città e luoghi d’Europa. Quel Palazzo è associato agli enormi edifici sovradimensionati i quali “gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine”.

Al cospetto di tale architettura, lo sguardo meravigliato, quasi terrifico, che è proprio di Jacques Austerlitz, il protagonista del romanzo, studioso e appassionato tra l’altro di architettura e fotografia, sembra identificarsi con le pratiche e le riflessioni che hanno accompagnato il lavoro sulla fotografia di Alberto Nascimben. Una sorta di equivalenza tra la narrazione letteraria e quella fotografica, comuni nell’indagare e nel raccontare le categorie della memoria, del tempo e dello spazio. Dove il narrare letterario è un flusso di condizioni mutevoli e variabili, mentre il narrare fotografico ha l’esigenza di fissare l’immagine, una condizione statica, unica, opposta a quella letteraria.

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Architettura e rovine nel paesaggio narrativo di Sebald si ritrovano, guarda caso, nell’allestimento fotografico di Alberto Nascimben dove l’architettura di Joseph Poelaert si accompagna al tema della rovina, nello specifico, quelle di Palmira, rivelando relazioni e sguardi capaci di restituire atteggiamenti simili, vicini, un comune sentire di fronte a sorprendenti icone la cui forza d’attrazione stimola il confronto e l’interpretazione.

Un livello concettuale inusuale, che Alberto Nascimben esprime a partire dall’attenzione misurata rivolta all’oggetto della sua ricerca. Lo sguardo del fotografo è la lentezza necessaria, quella del Flâneur, come lo intese Walter Benjamin. L’immersione nello spazio è la condizione sulla quale fondare l’esperienza dello sguardo: un processo indagatore, progettuale, razionale nel costruire e fondare l’attimo dell’inquadratura, ma anche emotivo, empatico dentro al “luogo” con il quale nasce una condivisione, una geografia sentimentale. In queste operazioni, fondanti l’atto estetico, si va precisando la componente lirica e poetica dell’attimo, dell’immagine.

È la categoria dell’itineranza (Paul Ricoeur, 1996), metafora della ricerca del vero, rappresentazione di un doppio movimento, evocazione dello “stare” e dello “andare”, dove sono consequenziali i valori propri del visitare (andare a vedere) e del narrare (far conoscere raccontando), della mobilità e dell’erranza. Nello spirito, nomade e domestico allo stesso tempo, la narrazione iconica traduce proprio la categoria dello spazio quale metafora del tempo, valore riconducibile alla storia, alla memoria. Allo stesso modo il tempo si fa spazio, condizione urbana, e poi condizione umana che quei luoghi percorre (ha percorso), abita (ha abitato) e li vive (ha vissuto). La dialettica spazio-tempo in grado di stimolare e favorire l’esercizio della riflessione, obiettivo a cui tende proprio la fotografia di Alberto Nascimben.

Nei temi di architettura è riconoscibile una sapienza visiva costruita a partire da una strutturata capacità culturale. Il percorrere la città con una mutevole concentrazione porta a sostare, a puntare su accadimenti magari nascosti, imprevisti, a volte anche non spettacolari ma ricchi di un contenuto che Alberto Nascimben riesce a cogliere, mostrare, suggerire. È un modo pacato, paziente di guardare la realtà, silente; un silenzio che si ritrova in tutto il suo lavoro, espressione di un sentimento nascosto, riservato, umile, non gridato, che solo l’arte riesce a manifestare. È un elogio alla lentezza, specificità propedeutica al ponderare, pensare, scegliere e riflettere.

Nascimben�_Calmaggiore

Punto d’arrivo è l’essenziale, non il magniloquente. Si attribuisce alla fotografia un ruolo forse inedito, quello del “pensare”. La lentezza è funzionale alla pratica dell’osservare (serbare, salvare, custodire) non solo con gli occhi fisici ma, soprattutto, con quelli della mente. Isolare e rendere riconoscibili i luoghi, fare in modo che questi si rivelino (togliere il velo) ai nostri occhi. Cosa sono questi luoghi se non il deposito di una memoria, di fatiche umane, valori e permanenze. Nella sintesi fra questi due aspetti l’immagine che ne deriva è volta a costruire nuove possibilità percettive che restituiscono proprio alle cose più consuete, quotidiane, una nuova aura, un’inaspettata novità, nuove rivelazioni.

Si spiega anche la singolarità delle fotografie di Alberto Nascimben, prive della presenza umana. È la forza ambivalente dello sguardo che conferisce e insieme sottrae, considera il vedere inseparabile dal non vedere, insieme svela e nasconde. Così possiamo leggere quella “sottrazione”: l’assenza che esalta e amplifica il luogo nella sua fisicità e spazialità; l’assenza che, paradossalmente, rinvia alla presenza attraverso l’atto partecipe dell’osservatore che si esercita subito a rievocarla, pur all’interno di una condizione che può apparire straniante.

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La ricerca formale si esprime nei temi sia paesaggistici sia urbani. È uno sguardo acuto e tagliente, descrizione precisa e nitida di dettagli e di forme. Paesaggi a volte domestici (campagne trevigiane), altri monumentali (dolomiti, rovine antiche, città), resi con una sensibilità altissima al bianco e nero, grazie alla pratica analogica e al personale lavoro di stampa. Nella camera oscura la ricerca del giusto equilibrio della luce delle immagini determina e porta a compimento l’atto fotografico ed estetico. L’uso del bianco e nero è una costruzione dell’essenziale, mediazione nella scala dei grigi intermedi volta all’equilibrio tra la ricerca della luce e la tensione con la luce stessa. La conclusione a cui si giunge restituisce l’atto della meraviglia al momento della formalizzazione dell’immagine, favorisce quel processo di continuo arricchimento che consente di continuare ad imparare sulle possibilità della fotografia.

Si attribuiscono così contenuti valoriali allo sguardo che, in modo intelligente, cancella e dimentica ogni abitudine. Uno dei tratti persistenti della cultura occidentale è proprio la superiorità della vista rispetto agli altri sensi (il conoscere dipende dall’aver visto, Umberto Curi, 2004). L’atto del vedere si esplicita in una pienezza in cui sono compartecipi la volontà di conoscenza e il desiderio di appropriazione. Non è esente il sentimento di appartenenza, “occhio” interiore del fotografo, il quale riesce ad esprimere la propria poetica. Una maniera di cogliere la realtà indagata attraverso un pensiero che si fa azione o, all’opposto, mediante un’azione che si materializza in un pensiero.
*Architetto

Le foto di Alberto Nascimben si possono vedere sul suo sito www.albertonascimben.com

Lo scatto lento di Nascimben. Una bella mostra a Treviso ultima modifica: 2015-07-15T11:01:02+02:00 da LUCIO CHIN
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