Ha soppesato le parole, misurato le pause, sottolineato i principi generali ma è anche sceso nei dettagli: mai forse il presidente americano Barack Obama in una conferenza stampa ha spiegato e articolato meglio una scelta come l’accordo sul nucleare con l’Iran. Lo difenderà con le unghie e con i denti perché è il suo maggiore lascito in politica estera.
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Una strategia di comunicazione attenta. Perché la comunicazione è stata e sarà anche nelle prossime settimane e mesi una delle chiavi più importanti di un’intesa destinata a cambiare, sia pure non da subito, le carte strategiche del Medio Oriente. Tenendo sempre presente che da parte americana c’è una rotta precisa: quella di ridurre l’impegno americano nella regione, nonostante gli Stati Uniti siano al comando della coalizione che conduce i raid aerei contro il Califfato in Iraq e in Siria. Certo non mancheranno le rassicurazioni per gli alleati, anche concrete. Ma israeliani, europei e potenze arabe sanno perfettamente che il Medio Oriente non è più essenziale per i rifornimenti energetici americani e Washington vuole dedicare maggiori risorse al pivot orientale, alla Cina.
Intanto l’accordo è già stato utile alla distensione Est-Ovest con una telefonata tra Obama e Putin. Dopo l’Ucraina, l’obiettivo Usa in Europa è contenere il ritorno di Mosca a Est e nei Balcani. Tenere sotto controllo le manovre militari ed energetiche russe (pipeline del gas con la Turchia) e chiedere agli europei di non creare altri problemi: in primo luogo sistemare la questione del fallimento greco sul fronte orientale. Pechino preoccupa più di Mosca e l’Europa molto meno di qualunque altra cosa, a meno che l’Unione europea non decida di dividersi ovvero di suicidarsi come entità politica. E’ questo il contesto dell’accordo con Teheran.
La comunicazione è stata assai importante anche nel negoziato di Vienna. L’Alto rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini ci ha spiegato che dietro le quinte ha tenuto con Kerry e Zarif diverse riunioni con l’obiettivo di definire la strategia per “vendere” alle rispettive opinioni pubbliche un accordo storico ma controverso, contestato in casa dai falchi dei due schieramenti. Le parti si sono quindi accordate per mettere a punto “narrative” diverse, tenendo conto delle reciproche esigenze interne. Dire frasi un po’ differenti per affermare le medesime cose, senza mettere in pericolo il contenuto dell’intesa politica.
Ha ragione Obama quando afferma che l’accordo non è fondato sulla fiducia ma sulle verifiche internazionali. Ma sa anche di dire una mezza verità. In questi due anni le parti hanno avuto modo di conoscersi, di valutare e soppesare le rispettive posizioni e anche i margini di manovra. Senza un certo rispetto, tra Usa e Iran non si sarebbe mai arrivati a firmare.
La Repubblica Islamica, dove il documento sarà votato dal Majilis, il Parlamento, ed esaminato dal Consiglio nazionale di sicurezza, ha preparato con attenzione un’intesa che di fatto mette sotto tutela per dieci anni il programma nucleare iraniano, riduce di un terzo le centrifughe, consente ispezioni all’Aiea anche nei siti militari e mantiene l’embargo Onu sulle forniture missilistiche.
La Guida Suprema Ali Khamenei non ha rinunciato ad attaccare gli Usa e Israele, cioè ha mantenuto intatto l’apparato ideologico e retorico del regime ma di fatto ha dato carta bianca al negoziatore Javad Zarif, capace di prendere le ultime decisioni in autonomia. Soprattutto Ali Khamenei ha comprato il consenso dell’ala dura e dei Pasdaran facendo concessioni economiche ai Guardiani della Rivoluzione.
Khamenei non è come l’Imam Khomeini il decisore ultimo della repubblica islamica ma il garante di un compromesso tra le diverse fazioni del clero sciita, le Guardie della Rivoluzione e le molteplici lobby civili e militari che si disputano il controllo del Paese. La Guida Suprema avrebbe persuaso i vertici militari ad accettare l’intesa garantendo ai Pasdaran la gestione della rete ferroviaria nazionale e di una parte consistente dell’industria petrolifera.
Il regime ha quindi dimostrato, nonostante la matrice clericale, di preferire il pragmatismo all’ideologia. È chiaro che l’Iran si è seduto al tavolo con un solo obiettivo: farsi togliere le sanzioni. Ma, come ha spiegato bene Obama, non c’erano alternative al negoziato, o per lo meno nessuno agli alleati degli Usa, Israele in primo luogo, ha presentato un via di uscita diversa che non fosse il confronto militare.
Il dubbio che l’intesa di Palais Coburg possa fermare la corsa mediorientale alla proliferazione nucleare e agli armamenti rimane. Un Iran più ricco e libero di manovrare, che vedrà scongelati conti per cento miliardi di dollari, può costituire un incentivo a diffondere ancora di più le spinte al bellicismo. Ma allo stesso tempo l’accordo permette di mantenere sotto controllo internazionale l’Iran e consente il ritorno delle compagnie e degli interessi occidentali in un Paese che stava scivolando in mano a cinesi e russi.
Un Iran più aperto e senza sanzioni è un vantaggio non uno svantaggio per l’Occidente.
L’impatto più rilevante di questo accordo può diventare quello strategico. L’intesa lascia intravedere un possibile miglioramento nei rapporti tra Washington e Teheran dopo oltre tre decenni di glaciazione infuocata, con accuse e recriminazioni reciproche. Pur senza tornare all’antica alleanza dell’epoca dello Shah, questo riavvicinamento potrebbe rimescolare le carte nel gioco mediorientale sul fronte della Siria, dell’Iraq e della lotta comune all’Isis e al jihadismo. Le due nazioni, non diventeranno partner o alleate, a causa del bruciante passato, ma come ha dichiarato di recente il segretario della Consiglio iraniano di Sicurezza, Ali Shamkani, “possono comportarsi in modo tale da non spendere la loro energia l’uno contro l’altro”. E già sarebbe per tutti un grande risultato
*Inviato speciale de Il Sole 24 Ore
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