Uova, zucchero, mascarpone. Caffè quanto basta per la “bagna” dei savoiardi. Un velo di cacao per spolverizzare la superficie. E una precipitazione abbondante di cioccolato in scaglie. Questa la ricetta originale del tiramesù, in seguito e a suggello del suo varcare i confini veneti, rinominato tiramisù. Dolce al cucchiaio tra i più prediletti. Ancorché sconosciuto a Pellegrino Artusi che non ne fa menzione nel suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Che semmai tramanda nel famoso ricettario qualche suo probabile antenato, come la charlotte. La zuppa inglese. O il dolce Torino.
Fu Beppe Maffioli, trevisano d’adozione, cultore della cucina e attore in film “must” come “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, nonché conduttore di rubriche radiofoniche di successo per Rai2, come l’appuntamento quotidiano con “Mangiar bene con poca spesa”, a darci notizia nel 1981 della sua venuta alla luce. Raccontando origini, virtù e imprese del tiramisù dalle pagine di “Vin Veneto: rivista trimestrale di vino, grappa, gastronomia e varia umanità del Veneto”. E collocandone la nascita negli anni ’60 nel ristorante trevigiano “Alle Beccherie” della famiglia Campeol, per opera di un pasticcere che aveva fatto esperienza in Germania. Tale Roberto “Loly” Linguanotto. Che pare si sia ispirato allo “sbatudin”, lo sbattuto di uova e zucchero caro alle campagne venete. Ricostituente un tempo alla moda, per le più svariate fatiche. E aggiungendoci mascarpone, savoiardi, caffè e cacao. Ed era fatta. Questa, stando al Maffioli, la storia vera, e non pare vi sia da dubitarne, anche se in merito esistono altre scuole di pensiero.
Da allora, dalla sua prima comparsa nella Treviso del miracolo economico, di strada ne ha fatta tanta il tiramisù. E come succede in musica, in cui le modifiche possono riguardare qualunque aspetto dell’idea originale, come l’armonia, la melodia, il ritmo e via dicendo, anche il tiramisù ha vissuto le sue variazioni. Le sue riproposizioni in forme differenti. Che in qualche modo rispettano, proprio perché “tradiscono”, l’esempio da cui discendono.
Ed ecco allora il tiramisù ai frutti di bosco, ai frutti tropicali, al frutto della passione, al limoncello, al mango, al melone, al panettone, al pistacchio, al tartufo, al tè verde, alla nutella, alla papaya, all’albicocca e liquirizia, all’amaretto, alle fragole, alle pere e noci, all’arancia rossa e cioccolata, alla banana e caramello, al bellini, al caffè e sambuca, ai lamponi e cioccolato bianco, alla lavanda e gianduia di rosa, alla menta e cioccolato, al rum cocco e cioccolato.
E quello tradizionale, ovviamente. Che sta comunque sempre in bella vista, “Ai Tre Mercanti”, un locale in Calle al Ponte della Guerra, che dà sull’omonimo campo, a due passi da Piazza San Marco. Attraverso le cui ampie vetrine, un flusso umano ininterrotto e accaldato sosta per un momento a guardare incuriosito l’interno di una cucina a vista. Che richiama alla lontana una versione briosa e mediterranea di “Nighthawks”, quadro famoso di Edward Hopper. Decidendo spesso alla fine di entrare, ammaliato da quei bicchieri di plastica ricolmi di cose allettanti e dai vari colori, che gli deve ricordare qualcosa.
Chissà cosa! Per poi entrare e scoprire l’universo del tiramisù. Insieme all’uomo che lo anima sperimentando sempre nuove varianti da sette anni, da quando è tornato da Londra dove ha lasciato un lavoro per Gucci. Lo vedi in guanti di plastica, intento a immergere pazientemente i savoiardi di Verona in una “bagna” che per l’occasione in cui ci siamo stati era di latte, sciroppo e alcool di menta, entrambi di Pancalieri in Piemonte, presidio Slow Food. Quindi sistemare i biscotti inzuppati, a due a due, in capaci bicchieri di plastica trasparente. Per dedicarsi infine a preparare la crema, fatta con mascarpone di Soligo, panna, uovo pastorizzato e scaglie di cioccolato al cento per cento.
Oppure, quando serve, preparare il caffè con due enormi moke Bialetti, quelle dell’omino coi baffi. Dopo aver provato almeno sette otto tipi di polveri differenti, fino a trovare quella giusta, che non ammazzi il sapore degli altri ingredienti con la preponderanza del suo aroma. Quella miscela che, a suo dire e con l’approvazione dei clienti, meglio si presta per il tiramisù tradizionale. Roberto Caruti, mentre esegue attentamente tutte le operazioni che portano alla preparazione dei suoi tiramisù, spesso consultando un tablet per non lasciare nulla alla fallacia della memoria umana, parla volentieri. E spiega che il tutto è nato un po’ per caso, assieme a due amici, con i quali avevano deciso di aprire un posto dove rivendere le cose più buone d’Italia. Ricercate pazientemente per due anni di fiere in giro per lo stivale, e di visite ai luoghi di produzione. Bene per le salse, i vini e le creme, ma i tiramisù come ti sono saltati in testa?
“Non eravamo in possesso della licenza per vendere alimenti cotti. Grazie a una legge regionale che consente di somministrare cibi non cucinati, abbiamo pensato al tiramisù. E così è stato. Partendo da quello tradizionale, ora ne facciamo venticinque differenti”. Per una clientela composta in buona parte di turisti di tutto il mondo, ma soprattutto giapponesi e coreani.
E gli italiani? “In realtà, continua Caruti, tra i nostri clienti sono tanti anche gli italiani e pure i veneziani. Il che un po’ mi ha stupito, dato che quello che facciamo è pur sempre un dolce da preparare in casa. Preferiscono i nostri tiramisù non tradizionali. È tale il successo che comunque abbiamo con i coreani, che a inizio dell’anno prossimo a Seoul apre un negozio in cui saranno venduti tiramisù e altri prodotti col nostro marchio. Il nostro, nonostante le apparenze, è e rimane assolutamente un tiramisù tradizionale. L’unica cosa che cambia è che nella crema non mettiamo alcool. Per consentire a tutti di assaggiarlo. E anziché utilizzare l’albume, facciamo uso della panna fresca rendendo alla fine il tutto molto più leggero. In modo tale che tutti i sapori rimangano distinti. Insomma, per essere più chiaro, in maniera tale che non vi sia la predominanza di un solo ingrediente su un altro. Che tutti i sapori rimangano in equilibrio e distinti tra di loro”.
E posso sapere qual è il tuo preferito? “Quello alla gelatina di menta e alle scaglie di cioccolato”. Che dici, posso…. “Certo. Here you are.”
FOTOGRAFIE DI CLAUDIO MADRICARDO

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1 commento
[…] allora, accostamento dei sapori, essenzialmente l’inserimento del caffé. Per questo, sapere che lo si fa con i più diversi ingredienti non mi interessa, non mi solletica, non mi incuriosisce, anche se si può ammettere che qualche […]