ISIS e ‘ndrangheta, a prima vista, sembrano due fenomeni molto distanti, invece hanno molto in comune. Ciò che li accomuna non è certo lo status di associazione a delinquere. Piuttosto entrambe hanno un retroterra economico e culturale molto simile. Ci sono anche presunti legami diretti, come ha denunciato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho.
«La ‘ndrangheta – ha detto il magistrato – ha bisogno di armi e droga e i terroristi, per operare sul territorio, hanno bisogno di basi logistiche sicure e segrete, quindi necessitano di persone e luoghi in grado di fornire coperture e ospitalità. E questa caratteristica – ha aggiunto il procuratore di Reggio Calabria – di certo non fa difetto alla `ndrangheta, che ha un controllo capillare del territorio ed è una organizzazione che travalica i confini nazionali, ha rapporti con soggetti in Estremo e Medio Oriente, come dimostra la sua leadership nel mercato dell’eroina, tanto da diventare fornitrice di Cosa Nostra a New York. Tutti questi elementi inducono a pensare che se l’Isis cercasse punti di appoggio solidi in Italia potrebbe trovarli qui, in Calabria. Non dobbiamo farci trovare impreparati». È possibile che la ‘ndrangheta si “bruci” (puntando su di sé i riflettori della cronaca) offrendo basi logistiche in Italia ai terroristi? Più probabilmente il terrore calabrese proviene dagli stessi calabresi.
Nel 1991 a Taurianova gli ‘ndranghetisti decapitarono un commerciante, lanciandone in aria la testa ed esibendosi in una gara di tiro al volo, sotto lo sguardo impietrito della vicina piazza gremita. Oggi in Iraq, Siria e Libia continuano a volare teste. A causa dell’inefficienza e della faziosità del sistema occidentale dei mass media, non conosciamo con esattezza quanto accade nelle mafie o nell’ISIS. Per ragioni di Stato o per evidente affezione al proprio capo non sappiamo neanche se esistano legami reali tra ISIS e ‘ndrangheta. Ciò che possiamo notare sono invece le profonde affinità culturali, politiche, economiche e sociali fra i due importanti fenomeni.
Nel dopoguerra la Calabria era una terra molto povera, eppure di una bellezza selvaggia, arcaica, semplice e austera. I centri storici non erano intonacati e cementificati, molte aree archeologiche ancora intonse, il mare limpidissimo. Mentre il Paese prosperava i calabresi emigravano per fornire mano/mente d’opera al capitalismo straccione italiano, che si nutre di investimenti di capitali pubblici e privatizza i guadagni. Per dare poi la colpa del mostruoso debito pubblico, tramite la cura Ludovico dei mass media, ai sottopagati dipendenti statali. Col denaro delle rimesse i calabresi hanno iniziato a devastare, con ruspe, palazzine libanesi e ville neonarcos, il loro territorio.
Negli anni novanta i capitalisti italici iniziano a delocalizzare gli impianti di produzione in luoghi dove poter meglio sfruttare fino all’osso i dipendenti e dove poter inquinare liberamente, grazie a governi compiacenti e con legislazioni antidiluviane.
La povertà, il degrado, la deregulation, la libertà dei proprietari d’azienda (o di pozzi petroliferi) contrapposta allo schiavismo salariale ha trasformato la Calabria e il Medio Oriente in luoghi orribili, regno dell’anarchia camuffata da organizzazioni criminal-statali, regno di ideologie fondate sulla riscoperta (reinvenzione) delle radici etniche, religiose e tribali.
Nascono nuove ideologie fascistoidi, nuove re(li)gioni, come quella neoborbonica calabrese, che vede in Primo d’Aprile il suo più acclamato sostenitore, poiché rilegge la storia senza spirito critico, senza ricerche d’archivio ma anzi prendendo per buona la propaganda politica borbonica d’antan. Come quella neosalafita, che vede nell’impero ottomano una degenerazione dell’islam originario. Qualcosa di simile al nuovo fervore religioso calabrese, che si materializza nell’alleanza di ‘ndrangheta e chiese locali, la diffusione di nuovi sciamani e sciamane (come fratel Cosimo, fratello Diego, Natuzza), culti pentecostali, catacumenali ecc., che spostano sempre più il centro del mondo nella propria famiglia e nella propria tribù fondamentalista, escludendo i diversi, il volontariato e la filantropia.
Entrambe le culture popolari hanno già dei tratti in comune, sebbene con rilevanti differenze. Il profondo maschilismo, per cui le donne devono essere mascherate, da cioccolatino incartato tra gli islamici e da cioccolatino scartato tra i calabresi (le donne che fanno attività pubbliche in Calabria sono travestite spesso da oggetti di pulsione della libido maschile, con seno, gambe e tacchi alti in mostra). L’odio per l’omosessualità, vista come devianza, malattia, male sociale da deridere ed estirpare. L’odio per la natura, vista come matrigna, sorgente infinita di beni materiali, donata da dio agli uomini, da sfruttare, devastare a piacimento. Tanto ce ne sarà una migliore in paradiso, tanto la Terra prima o poi si schianterà sul Sole.
La recente devastazione del sito archeologico di Palmira, e di tutto ciò che l’ISIS ha distrutto lungo la sua avanzata, mostra quanto la propaganda islamista radicale abbia invertito gli animi di alcuni (non di tutti, qui sta l’equivoco) abitanti di quei luoghi, convincendoli a distruggere i loro stessi tesori, la loro stessa storia in nome di un reset culturale e antropologico.
Similmente i calabresi (non tutti) distruggono quotidianamente la loro storia quando, costruendo la loro palazzina oppure realizzando opere pubbliche, nascondo i siti archeologici alle autorità e li spalmano di calcestruzzo. Devastano la loro flora mediterranea sostituendola con flora desertica. Hanno fatto anche di più, la Regione ha finanziato cementificazioni di fiumare, barriere marine sommerse frangiflutti per proteggere palazzine/palafitta abusive e condonate costruite sul demanio. Mentre l’immenso sito archeologico di Sibari/Turi/Copia era devastato dalla piena del fiume, mentre lo stupendo sito di Kaulon era rosicchiato dai marosi.
La ‘ndrangheta si occupa anche di scavi illegali nei siti archeologici, facendo ciò che le università italiane e calabresi non fanno (perché cercano il “monumento” nietzschiano e non credono nelle analisi scientifiche), portare alla luce i tesori sepolti calabri. Una recente inchiesta ha sventato un traffico internazionale di stupendi reperti magnogreci sottratti dalla polis di Hipponion, A Vibo Valentia, tramite un tunnel sotterraneo lungo decine di metri. La distruzione della natura è un atto terroristico, le vittime sono le antiche e le nuove generazioni. In Calabria assume toni parossistici: pur di non ammettere che il mare è una latrina a cielo aperto si dice che ciò che galleggia non sono feci: è mucillaggine!
La reinvenzione salafita della propria storia, l’esaltazione di idee tribali DOCG, DOC, DOP, IGT, IGP è una sapiente manovra politica consumer oriented. Perché esalta la tautologia: dallo stesso allo stesso (l’autoconcetto gentiliano). Non impone l’imperativo, comune a tutte le sapienze antiche del «conosci te stesso», del «migliorare te stesso». Attraverso la dialettica con l’altro da sé. Non c’è nessun miglioramento, nessuna spinta all’evoluzione, solo una narcisistica conferma di se stessi e della propria ideologia tribale.
In Calabria esiste un vero e proprio partito delle belle bandiere, trasversale e multietnico, della «Calabria si ama e non si discute». Simile al tifo calcistico, è composto da una miriade di fedayn, calabresi forever, che stuprano quotidianamente la terra che dicono di amare, così come sputano addosso e percuotono la loro madre, che dicono di amare oltremisura: guai a toccargliela! Quando il sud pensa il sud, secondo la vulgata del Pensiero Meridiano, è come se si guardasse allo specchio: il tamarro si vede bello, buono, intelligente, irresistibile (cocco di mamma sua), invece è un mostro di perfidia.
L’ISIS ha mostrato un sapiente uso dei media, con cui ha diffuso la propria ideologia in tutto il mondo. Similmente la ‘ndrangheta può contare sull’appoggio, connivente o meno, dei mezzi di informazione calabresi. Il Movimento 5 Stelle calabro, per esempio, non ha mosso un dito durante le vertenze sindacali delle migliaia di operai licenziati negli ultimi anni in Calabria, mentre nel caso della chiusura di Calabria Ora ha smosso mari e monti. Ma quel giornale era posseduto da un condannato per usura cui sono stati sequestrati 100 milioni di euro. Mentre era proprio “un’eccellenza di Calabria” che “perorava” l’editore al telefono.
Com’è possibile che in una regione così povera esistano ricchissimi proprietari di giornali, di case editrici e di televisioni locali? Da cui pontificano discorsi anti’ndrangheta giornalisti, studiosi e scrittori che sfruttano le notti insonni, il coraggio e l’altissimo senso dello Stato del personale dei ROS, della Polizia e della Guardia di Finanza, le inchieste di veri eroi nazionali, sconosciuti e sottopagati? È semplice divulgazione di teorie, lavoro, sudore e analisi altrui.
L’idea di sconfiggere l’ISIS tramite bombardamenti e guerre, cara ormai alla maggioranza degli occidentali è simile a quella di sconfiggere la ‘ndrangheta tramite posti di blocco con cani antidroga e con la persecuzione mediatica dello spaccio di stupefacenti. Anche Svezia e Norvegia hanno problemi di spaccio, ma non per questo sono così povere, degradate e mafiose quanto la Calabria. Così il nemico diventa il “norcino” Jihadi John, oppure lo spacciatore calabrese. Eppure il nocciolo duro della ‘ndrangheta è costituito dall’oligarchia calabra di ricchi imprenditori, apparati dello Stato e delle istituzioni deviati, che organizzano serate di gala (dove tutti premiano tutti, sport colto calabrese preferito), di beneficenza e di dibattiti anti’ndrangheta.
Il giornalismo investigativo è un fatto raro quanto inusuale, sia in USA, sia in Calabria, sia in Siria. Copiare non è solo copia/incolla, è anche fare parafrasi e riassunti di agenzie di stampa, comunicati ufficiali, in modo da diffondere, a macchia d’olio e in modo acritico, l’ideologia dominante. Il quarto potere non si contrappone e non bilancia gli altri tre, è simile piuttosto al quarto dito di una stessa mano, e non è quello opponibile.
C’è qualcuno che si sta arricchendo oltremodo nello Stato Islamico, così come qualcuno si sta arricchendo in Calabria. Nonostante le loro propagande, questi sistemi sociali non portano alcun benessere alle popolazioni autoctone, anzi ne peggiorano le condizioni di vita.
I mafiosi già arricchiti prosperano nelle economie legali (grazie a leggi compiacenti, professionisti, e prescrizioni di reati), sono noti imprenditori con forti legami nello Stato, hanno politici nel libro paga, così come lanciano qualche briciola all’intellighenzia locale. I reporter calabresi non indicano mai il nome (neanche puntato) di imprenditori dalle truffe milionarie mentre la foto dello spacciatore al dettaglio è esposta in prima pagina. È molto più facile stressare cittadini e turisti con centinaia di posti di blocco, dandogli un’illusione di sicurezza pubblica, piuttosto che indagare sull’imprenditore, sul politico, sull’uomo dei servizi segreti, che ha organizzato una serata a base di crespelle e retorica anti ‘ndrangheta nella pubblica piazza.
È scandalosa la quantità di uomini e mezzi usati per fascistizzare il territorio cercando nella auto tracce di ‘ndrangheta, con le pesche alla cieca dei posti di blocco. Nel mercato illegale le ‘ndrine più potenti sanno come evitare i controlli di posti di blocco e di dogane, perciò questa politica dello Stato finisce per favorire le cosche più potenti (stressando gli agenti), stroncando chi, dal basso, cerca di fare concorrenza, minacciando il giro d’affari esistente. È più facile stroncare un traffico internazionale di cocaina piuttosto che stanare le mele marce nello Stato e arrestare imprenditori noti e riveriti.
Quando una nave ha due falle, una di un centimetro, l’altra di dieci metri, è meglio occuparsi subito della seconda. Urge un immediato controllo degli appalti e delle erogazioni di fondi nei 409 comuni calabresi, nelle provincie, nella Regione. Bisognerebbe controllare ogni euro finanziato dall’Europa. È necessario controllare le banche (segui i soldi!), la massoneria, i Lions e il Rotary, i commercialisti, le imprese, l’ispettorato del lavoro. Ma chi controlla i controllori? Se l’Italia fosse una democrazia allora potrebbero controllare gli stessi cittadini. C’è tanta gente che non ha molto da fare ma ha tanta voglia di dire la sua. Solo in Italia l’idea di estirpare le mele marce da un gruppo, statale o privato, è interpretato come una minaccia per tutto il gruppo. Nessuno comprende che eliminare, denunciandola pubblicamente, qualche mela marcia ogni tanto non può che rafforzare, in chi osserva, la fiducia per l’integrità di quello stesso gruppo!
Allo stesso modo, l’idea di sconfiggere l’ISIS bombardando “chirurgicamente”, oppure con un’invasione armata di terra non può che rafforzare lo Stato islamico, compreso il consenso popolare. Non può che rimpinguare le aziende occidentali che producono armi, quelle stesse che vendono ordigni, missili e specialisti.
*Alessandro Tarsia, antropologo, è autore di “Perché la ‘ndrangheta? Antropologia dei calabresi”, Pungitopo, recensito da ytali.
Il servizio fotografico con immagini di degrado in Calabria, che qui pubblichiamo, sono dell’autore.
Di Alessandro Tarsia abbia recentemente pubblicato Antropologia dell’anti’ndragnheta

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