Tutti contro Hillary? Meglio per Hillary e per il partito

GUIDO MOLTEDO
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Quella che tutti pensavano sarebbe stata una storia senza storia è già adesso, ancor prima che sia battuto il primo ciak (il prossimo gennaio-febbraio), un film ad alta intensità narrativa ed emotiva, ricco di colpi di scena davvero sorprendenti, e di chissà quanti altri in arrivo.

La storia senza storia era quella di Hillary, solitaria protagonista della corsa per la successione a Barack Obama. Chi c’era, oltre a lei, nel suo campo? Chi avrebbe potuto sbarrarle la strada verso le Casa bianca, questa volta? Un altro Obama, non c’era. E chi nel campo avversario? C’era un affollarsi di personaggi di piccolo calibro, una dozzina di ambiziosi e inadeguati contendenti, in gara tra loro soprattutto nella denigrazione della front runner democratica.

A movimentare un po’ una trama fin troppo prevedibile, solo la presenza nel drappello repubblicano di Jeb Bush. Per il piacere dei media, l’unico filo narrativo a cui aggrapparsi sarebbe stato lo scontro tra due dinastie, un duello tra potenti establishment. Che noia.

Quando lo scorso marzo, venne fuori la faccenda delle email e dell’impiego da parte dell’allora segretario di stato Clinton di un server privato invece che di quello governativo, sembrava che si trattasse di un incidente imbarazzante, ma certo non tale da prefigurare un caso politico destinato a diventare un macigno sul percorso presidenziale di Hillary.

Era talmente forte, qualche mese fa, Hillary, nella sua solitudine di aspirante indiscussa alla Casa Bianca, da poter ragionevolmente considerare l’emailgate una fastidiosa distrazione che avrebbe al massimo solo appannato la sua immagine di ultrafavorita, quasi di predestinata alla Casa Bianca.

A leggere i giornali, prima dell’estate, Hillary sembrava un po’ in affanno, ma saldamente nella posizione di ultrafavorita. L’unica minaccia avrebbe potuto essere la discesa in campo di Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts che ha raccolto l’eredità kennediana, aggiungendovi una buona dose di radicalismo anti-Wall Street. Ma “Liz” non avrebbe avuto il tempo e le risorse per recuperare terreno – con una candidatura troppo tardiva rispetto a quella di Hillary – e per avvicinarsi almeno un po’ alla grandiosità della macchina clintoniana della raccolta fondi, messa in moto con largo anticipo, e alla costruzione di una consistente rete organizzativa nel territorio sia a livello di apparato di partito, egemonizzato dai Clinton, sia di volontariato.

Ad ogni buon conto, sia per prevenire “il rischio Liz” sia soprattutto per cercare consensi nella sinistra democrat, che non l’ama, quando non la detesta, Hillary ha contrastato il suo affievolirsi nei sondaggi, imprimendo una vistosa sterzata a sinistra alla sua linea programmatica. Il suo principale problema serio restava ( e resta) quello di trovare un giusto equilibrio politico tra la costruzione di una sua identità definita e propria e la relazione con i due ultimi presidenti democratici, Bill e Barack Obama, figure importanti e ingombranti. Non essere la moglie di. Non essere la continuatrice di. Senza però rinnegarli. Un esercizio in realtà continuo, specie nei confronti di Obama, che nella fase terminale della sua presidenza fa politica e, facendola, obbliga tutti, Hillary compresa, a posizionarsi in rapporto alle scelte presidenziali. Per esempio sulla questione iraniana.

Ma ecco spuntare e crescere, nell’apparente deserto politico che la circondava, due figure che in breve tempo cambiano radicalmente il set del film. Donald Trump e Bernie Sanders. Due cani sciolti, due buoi senza marchio (maverick). Il primo campione dell’anti-politically correctness ed estraneo totalmente all’apparato repubblicano, il secondo un indipendente di 73 anni che si autodefinisce socialista, un’icona dell’anti-establishment. Il primo straricco, il secondo forte del sostegno generoso dell’elettorato squattrinato.

È la reazione imprevista, ma a ben vedere prevedibile, di militanti, simpatizzanti ed elettori, democratici, repubblicani e in bilico che si ribellano all’idea di essere ridotti a spettatori di fronte a un copione che questa parte prevede per loro, una trama con un the end già scritto.

Chi parla di fine della politica, dovrebbe ricredersi. Sarà forse finita la politica novecentesca, con tutti i suoi riti e percorsi, ma oggi, in America, si assiste a un grande fermento, confuso, disordinato, ma sicuramente un po’ diverso dallo scenario che avrebbero voluto riproporre i vecchi establishment legati alle due grandi dinastie, lo scenario di una corsa presidenziale unicamente legata ai soldi, alle lobby e alla rete delle relazioni importanti. Cioè quel che resta dei vecchi apparati, ridotti a macchine e a comitati elettorali delle grandi famiglie e di lobby.

La popolarità di Sanders, la grande partecipazione ai suoi comizi ed eventi, lo straordinario attivismo di giovani nella sua campagna, sono già, di per sé, un fatto notevole, al di là della reale riuscita del suo tentativo. Non è la banale ripetizione del successo, poi rivelatosi effimero, di Howard Dean, anche se sono evidenti tanti punti in comune tra l’impresa di Sanders e il tentativo presidenziale del suo conterraneo del Vermont nel 2004. Non è neppure il remake della corsa di George McGovern o di Eugene McCarthy: altri tempi.

Il contesto di oggi rende più plausibile la possibilità di affermazione di un candidato radical rispetto a dieci anni fa e anche rispetto ad alcuni decenni fa.
Il cambiamento di contesto è altrettanto visibile nel campo conservatore, dove l’avvento di un Berlusconi moltiplicato al quadrato in quanto a disponibilità di quattrini e di faccia tosta manda in frantumi il paradigma a cui tutti si erano affezionati, dentro e fuori il perimetro del Partito repubblicano: lo schema che prevedeva un conflitto interno al Grand Old Party essenzialmente tra l’anima moderata, ormai minoritaria, e quella estremistica dei tea party.

Trump eccita i peggiori istinti della destra bianca, usando non il linguaggio più conformista della conservazione bigotta ma la lingua “sporca” del peccatore fiero di esserlo. Ed è una lingua che fa breccia nella classe operaia, perfino nell’elettorato femminile. Perché suona autentica, così come sembra autentica la sua indipendenza dalle lobby e dai poteri forti perché non deve chiedere soldi a nessuno.

I sondaggi sono molto generosi con i due strani personaggi. Si votasse oggi, Sanders avrebbe la meglio su Hillary nei due stati dove si svolgeranno le prime elezioni primarie il prossimo anno, l’Iowa e il New Hampshire. Nel frattempo il distacco di Trump rispetto al folto gruppo d’inseguitori non fa che crescere, il che non fa che incoraggiarne la strafottenza e la boria.

Sia i media sia i dirigenti politici sia gli analisti e gli strateghi, insomma tutto il mondo della politica, cominciano a prendere molto sul serio Sanders e Trump. Tanto che in campo democratico, da settimane ormai, non si fa che parlare di una prossima candidatura di Joe Biden.

La teoria vuole che il vicepresidente avrebbe più carte per neutralizzare Sanders, più carte di Hillary, specie se l’emailgate dovesse ulteriormente metterla in difficoltà.
Ma per paradossale che possa sembrare, proprio un paesaggio democratico più articolato, con figure diverse, con storie diverse, compreso Biden, è quello più auspicabile per la stessa Hillary e per le possibilità che una candidatura come quella di Trump possa essere contrastata efficacemente da chi sarà il candidato ufficiale del dem.

Hillary è una “fighter”, una combattente, dà il meglio di sé quando è nel conflitto. Inoltre, se le primarie democratiche diventassero davvero tali – non la passeggiata solitaria di Hillary che si prefigurava all’inizio dell’anno – aumenterebbe consistentemente la mobilitazione democratica, con grande beneficio successivamente per la partecipazione alle urne: l’astensione resta naturalmente il problema più rilevante nelle elezioni, e nelle presidenziali soprattutto, per il Partito democratico.

Dunque, la politica è di nuovo in grande movimento, a dispetto di tutte le profezie che la davano ormai per finita, specie in America. E a movimentarla sono personaggi di una certa età ed esperienza. Non è il ritorno all’antico, ma la conferma che nessun assunto, nessun assioma (neppure la rottamazione generazionale come chiave del rinnovamento) è la chiave unica per coinvolgere e mobilitare vecchi e nuovi elettori<a nel nuovo millennio.

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Tutti contro Hillary? Meglio per Hillary e per il partito ultima modifica: 2015-09-10T19:56:37+02:00 da GUIDO MOLTEDO
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