La Cina sta passando attraverso una trasformazione grande, complessa, difficile, una transizione economica di portata storica, che si può definire “la transizione cinese”. L’antefatto è noto: il modello “tradizionale” della crescita cinese, la struttura economica che ha portato una delle più antiche civiltà del mondo a diventare potenza industriale, è ormai cotto e spremuto.
Il “modello economico” export-led, caratterizzato da investimenti “pesanti”, e dal ruolo centrale delle SOE, le aziende di stato, ha dato probabilmente tutto quello che poteva dare, nel bene e nel male; in termini di crescita e di benessere, e anche in termini di inquinamento dell’ambiente e di sfruttamento dei lavoratori, ha dato quello che poteva dare. A questo punto la seconda potenza capitalistica del mondo deve cambiare struttura e modello: deve “ri-bilanciare”, o ri-orientare la propria economia.
“Ri-orientare” un’economia da un modello export-led a uno domestic-led, per così dire, è sempre una faccenda complicata e perigliosa: l’esperienza di un Tigrotto asiatico tuttora impigliato nel tentativo, la Malesia, ne è un esempio concreto e vicino alla Repubblica Popolare.
E la Malesia, o altri paesi, sono nazioni di “media” stazza: la Cina è un continente di un miliardo e trecento milioni di uomini e donne, con vastissime regioni e aree tuttora a forte arretratezza economica e sociale. Insomma quello che è comunque difficile per un paese “normale”, acquisisce un significato molto particolare per un continente della stazza cinese.
Le autorità cinesi hanno iniziato a mettere in campo riforme, provvedimenti, cambiamenti per attuare la transizione da una economia export-led a una più legata al mercato domestico o interno: politica salariale di incrementi per i lavoratori, riforme giudiziarie e giuridiche per dare garanzie ai diritti di proprietà e di impresa, limitazioni al ruolo delle grandi aziende di stato, interventi a favore delle imprese private. Il pacchetto di riforme e provvedimenti va nella “giusta direzione”, ma ovviamente non potevano mancare problemi e contraddizioni ulteriori. E questi problemi si sono presentati.
Una transizione economica di questo genere implica una diminuzione, ovvero il “rallentamento” della crescita del Pil. La Cina ci aveva abituato nel periodo aureo del modello ‘”Shanghai” (possiamo chiamare in questo modo il “modello capitalistico” export-led e a forte presenza di imprese di stato, poiché esso è stato guidata dalla cosiddetta corrente di Shanghai del Partito, che aveva come riferimento Jiang Zemin), a tassi di crescita del Pil a due cifre, superiori al dieci per cento. Ora, con la transizione economica, la Cina cresce di meno, sette o sei per cento. Ovviamente.
Ma questo rallentamento economico, nelle intenzioni delle autorità di Pechino non deve provocare crisi e tensioni nella società cinese, ad esempio sul fronte dell’occupazione. La linea guida è costituita, come sempre, dalla “stabilità sociale”, concetto chiave per il Partito stato cinese, ma anche concetto fondamentale nella cultura politica dell’Impero di mezzo. Dunque, transizione Sì, rallentamento Sì, ma tensioni sull’occupazione e crisi recessiva per le imprese, No. Le esigenze della transizione e della riforme da un alto, le esigenze sociali, dell’occupazione e della stabilità dall’altro: potremo dire che questa costituisce la nuova “contraddizione principale” del capitalismo e della politica economica e sociale di Pechino.
Per evitare situazioni recessive incontrollabili, Pechino ha immesso liquidità monetaria, ha cercato di sostenere le imprese produttive, ha tagliato i tassi di interesse: insomma ha usato ampiamente lo strumentario delle politiche economiche moderne.
Non solo: la transizione economica, è bene ricordare, non è soltanto una transizione da un modello export-led a uno domestic-led, ma specialmente è un cambiamento da una struttura capitalistica con un forte ruolo delle aziende di stato nazionali moderne ad una struttura più equilibrata fra grandi imprese nazionali di stato e grandi, e piccole, imprese nazionali private. Ciò ha significato il lancio in grande stile di nuovi brand del capitale cinese, Huawei, Lenovo e AliBaba tanto per fare “piccoli” esempi; ciò ha significato anche il lancio in grande stile dei mercati azionari, le Borse di Shanghai e Shenzhen in particolare, come nuovi canali di finanziamento e di capitale di rischio per le imprese produttive cinesi.
La combinazione forte liquidità monetaria/apertura e valorizzazione delle Borse/poche e cattive regolazioni dei mercati finanziari a opere di deboli istituzioni di mercato, ha prodotto la bolla di Shanghai. La transizione economica ha comunque prodotto un rallentamento della produzione manifatturiera: l’economista dice che le tensioni finanziarie in realtà sono la spia, o come diciamo noi, la sovrastruttura, delle contraddizioni reali. Come abbiamo visto, infatti, tutto ha origine nella “contraddizione principale”, quella fra transizione e riforme da un alto, stabilità e occupazione dall’altra.
Che fare? Come sempre a questo punto, i governi e le autorità riformatrici hanno, un dilemma: o accelerare il processo riformatore, o frenare il processo riformatore stesso. Che faranno i cinesi? L’incertezza sulle scelte prossime venture è un fattore di rischio per l’economia globale: incertezza non sulle intenzioni d fondo riformatrici di Pechino e della leadership cinese di Xi Jinping (tutti gli osservatori attenti concordano sulle intenzioni di riforma del leader cinese e della sua compagine politica), ma incertezza sulle prossime mosse del governo e del Partito.
A questo punto la questione è politica: “Pechino oltretutto deve tenere conto che le sue scelte hanno effetti quasi immediati nell’arena globale”, dice l’economista. Che faranno dunque i cinesi, velocizzeranno le riforme o freneranno la transizione?
Una risposta possibile è venuta dalla parata militare recentissima di Pechino. Xi Jinping è tuttora fortemente in sella: la sua coalizione è saldamente al potere; il Presidente cinese è piuttosto popolare, ci dice un amico osservatore, anche grazie alla sua campagna anticorruzione. Quindi poteva anche decidere di andare avanti come un panzer, eppure a quella parata, Xi Jinping si è presentato assieme ai due ex presidenti, Jiang Zemin e Hu Jintao. Per mostrare “l’unità della classe dirigente del Partito”. Xi Jinping avrebbe deciso di “tener conto di tutti gli interessi” per poter andare avanti nel processo riformatore.
La cosa d’altronde non è affatto nuova: per progredire davvero nei processi di cambiamento in Cina, dato che bisogna sempre tener conto della stazza cinese e del livello degli squilibri del Continente Cina, i cambiamenti vanno avanti “a salti e strattoni”, non linearmente: si potrebbe parlare, spesso, di “spostamenti laterali per creare le condizioni migliori per andare davvero avanti”, Deng, il ‘Piccolo timoniere’, fece così dopo la tragedia della Tien An Men. Farà così anche Xi Jinping, in modo diversissimo ovviamente?
Le manovre politiche dell’attuale leadership al potere riusciranno a far andare la transizione economica nella seconda potenza capitalistica mondiale? Alla fin fine questa è la domanda chiave.
Come ha detto l’economista, la questione è politica. In questi processi capitalistici, le questioni di fondo sono sempre politiche. Come insegna la storia e la teoria, è la politica a condizionare pesantemente l’economia e il capitalismo, in particolare in certi momenti, fasi, periodi cruciali. Il capitalismo di mercato funziona in questo modo. Verrebbe da dire, It’s capitalism, stupid! Fuori della Cina e ancora di più in Cina.
(ringrazio Francesco Sisci e Paolo Guerrieri)

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