Rotolata nella polvere come il profugo “sgambettato” dalla cronista televisiva, l’immagine internazionale dell’Ungheria stenterà a risalire la china in cui l’hanno trascinata il cinismo del premier Viktor Orbán e la violenza della sua polizia. Ora il capo del governo vuole un altro muro, questa volta ai confini con la Croazia, non rendendosi conto, sembrerebbe, dell’isolamento in cui versa oggi il suo Paese e il suo popolo, sospinti in un angolo dalla riprovazione internazionale e dalla politica della comunità europea.
Eppure non sembra difficile capire come gli ungheresi di oggi stiano in realtà isolando se stessi e non i profughi; come sia possibile che un paese così ricco di storia, di carattere e di cultura stia tentando di trasformare la sua millenaria “singolarità” non in un elemento di attrazione ma, al contrario, in un qualcosa di negativo suscettibile di alienare le pressoché generali simpatie di cui aveva in passato goduto.
L’Ungheria è di per sé un paese isolato, circondato in buona parte da un mondo di paesi slavi storicamente ostili (e dalla ortodossa Romania, se non nemica sicuramente una falsa amica); è una nazione in cui si parla una lingua che nessuno, al di fuori dei suoi confini, comprende. Un idioma appartenente al ceppo ugro-finnico, come ci viene sempre spiegato, e che pochissimi all’estero conoscono. Al punto che, almeno in passato, è sempre stato un problema trovare buoni traduttori per le opere di autori, saggisti o romanzieri, magiari.
Un paese che fu percorso da sotterranei, pericolosi revanscismi dopo il suo smembramento e la mutilazione di grandi territori dopo la catastrofica sconfitta del 1918 e che dovevano portarlo al definitivo disastro del 1939. Col nuovo nome slavo di Vojvodina, alcuni territori passarono alla Serbia che le concesse la stessa autonomia che aveva riconosciuto, alla sua estrema regione meridionale del Kosovo. Chi conosce Novj Sad (capoluogo della Vojvodina) si ricorderà come gran parte dei nomi di quella città siano ungheresi.
Ma i territori più vasti, Budapest (seconda “capitale” dell’ex impero austroungarico) dovette cederli alla Romania alla quale andò gran parte della Transilvania e il Banato. Altre parti dell’Ungheria passarono agli slovacchi.
Ricondotta dai vincitori entro stretti, innaturali confini e sorvegliata dai paesi dell’Intesa, occhiuti garanti delle clausole di Versailles, l’Ungheria scivolò nel caos economico e politico. Fu allora che la “sirena” dei Soviet affascinò alcuni rivoluzionari capeggiati da Béla Kun, già combattente con i bolscevichi durante la guerra civile russa del 1917-18. Impadronitosi con un colpo di mano del potere a Budapest, Kun instaurò la sedicente Repubblica Sovietica d’Ungheria, dopo pochi mesi spazzata via dalle truppe della reazione al comando dell’ammiraglio Miklós Horthy.
Con Horthy ex ammiraglio dell’Imperial marina austroungarica, uomo d’ordine più che dittatore, la sorte sembrò di nuovo sorridere alla martoriata Ungheria. Forte anche dell’amicizia dell’Italia fascista e, in seguito, del Terzo Reich, il paese conobbe un nuovo periodo di benessere che vide un parallelo fiorire delle arti, del cinema e della letteratura. Negli anni ’30 In Italia, ma non solo, i cosiddetti “romanzi ungheresi” (genere letterario di evasione e di grande consumo) spopolavano soprattutto tra le Giovani Italiane inquadrate nelle “falangi” mussoliniane.
Il commercio riprese e l’industria bellica (a dispetto dei trattati) si rimise in moto. Dimenticata l’inimicizia che le aveva viste su fronti opposti nella Grande Guerra, una nuova, inedita amicizia nacque tra Roma e Budapest. Il giovane, brillante e ambizioso capo della diplomazia italiana, Galeazzo Ciano, era di casa in Ungheria, nei castelli degli Estherazy e della nobiltà magiara, quasi sempre per sontuose battute di caccia(nei pochi anni d’oro della sua tragica parabola, Ciano, spesso ingiustamente definito “vanesio e superficiale”, annotava con acume e disincanto, nei suoi Diari, i prodromi dell’imminente conflitto).
“Liberata” dai sovietici, l’Ungheria cadde in una fase di acuta “depressione postbellica”, che fece tra l’altro registrare, per quanto possano valere le statistiche, il più alto tasso di sucidi al mondo.
E poi venne il ’56, con la rivolta di Budapest e l’eroica resistenza ai sovietici. In quelle settimane le radio libere trasmettevano incessantemente musiche di Liszt e di Bartók “eroi” al pari di Sándor Petőfi, le cui poesie venivano lette nelle piazze di Buda e Pest.
Budapest, città magica, dove ancora oggi i turisti vanno come in pellegrinaggio alla ricerca della leggendaria Via Pál, teatro delle avventure di quel pugno di ragazzi dai nomi strani (Nemecsek, Gereb, Boka) che vivono il tramonto della loro prima adolescenza commuovendo i giovani lettori di tutta l’Europa. Cos’è successo all’Ungheria di oggi? Le sue paure non sono forse le paure di sempre, le paure dell’invasione? Non è facile dirlo, ma l’innocenza perduta dei magiari pesa anche sulla coscienza di tutta l’Europa.

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