Con Pietro Ingrao scompare un militante che ha segnato con il pensiero e l’azione la storia della sinistra della seconda metà del Novecento, travalicando con la sua testimonianza il 2000.
Un uomo che con le sue idee e le sue battaglie ha formato tanti di noi. Anche me. Come tanti, come tutti ero costantemente colpito dal pathos che metteva nei suoi discorsi. Una passione non fine a se stessa ma utile a far vedere anche ai più distratti, un approccio non conformista e non consueto ai problemi della società italiana, delle classi sociali e degli individui. La sua chiave di lettura profondamente umana, quasi poetica, era una formidabile calamita intellettuale.
Ma non c’era ovviamente solo la forza dialettica, il fascino delle parole. C’erano anche i contenuti a farci definire, noi giovani comunisti, ingraiani. Per primo la rivalutazione di tutti gli elementi di democrazia diretta e quindi della necessità di riformare le nostre istituzioni. Tema di fondamentale importanza perché collegava la giusta interpretazione liberale della Costituzione – una democrazia rappresentativa – agli elementi fortemente democratici della partecipazione. E poi la grande intuizione (che gli costò la sconfitta all’XI Congresso del Pci) di quale dovesse essere il modello di sviluppo. Fu il primo a porre la questione qualitativa dello sviluppo che non poteva essere più visto solo come una crescita quantitativa, fosse anche traducibile in un miglioramento salariale delle classi lavoratrici. Un tema che sarà ripreso dopo anni da Berlinguer ponendo la questione di come governare assieme crescita e ambiente, economia e qualità della vita. Una visione che obbligava anche la sinistra a guardare a un nuovo modello di produrre e consumare. E qui Ingrao aveva, in maniera lungimirante, inserito il tema dell’alienazione.
Ingrao sottolineava gli elementi alienanti di questo tipo di sviluppo: l’isolamento dell’individuo e quindi il cambiamento in senso negativo dei rapporti umani. È qui che emerge l’Ingrao del “non mi sento persuaso”, che straccia il velo, anche ipocrita, sull’unanimismo del Pci, che interrompe la liturgia, che mostra l’inadeguatezza della rigida regola del centralismo democratico che differenziava, da Lenin in poi, i partiti comunisti da quelli socialdemocratici. Ma il Pci non era pronto a capire Ingrao. Non a caso poi ci sarà la vicenda del Manifesto che chiuderà di nuovo la porta di fronte a questo strappo di Ingrao. E non a caso bisognerà aspettare la Svolta dell’89 per vedere quel principio messo in atto. Era troppo forte il timore che il Partito potesse dividersi in correnti e frazioni. L’unità del partito era anche per Ingrao un bene superiore da difendere e tutelare, sempre. Anche di fronte a compagni amati e stimati come Pintor, Rossanda e gli altri del Manifesto. La paura del frazionismo prevalse, anche con la loro radiazione dal Pci, sulla necessità, assai sentita da Ingrao, di aprire completamente la discussione interna al Partito. Prevalse il richiamo della foresta perché non si può dimenticare che quel gruppo dirigente era nato e s’era formato nella lotta antifascista e nella Resistenza. Erano diversi, avevano idee differenti, ma un legame fortissimo e un obiettivo comune che non poteva essere messo a rischio indebolendo quello che era il cardine, teorico e pratico, del Pci: il centralismo democratico e il rifiuto di qualsiasi dialettica basata sulle correnti organizzate.
Anche così mi spiego il suo no alla Svolta. Pietro Ingrao era in Spagna quando la annunciai alla Bolognina. Al suo rientro in Italia gli mandai Antonio Bassolino a spiegargli il senso della decisione che avevamo preso in segreteria. Sbagliai. Dovevo andarci io di persona. Così Ingrao si schierò contro la Svolta e fu un peccato perché con le sue idee e suoi consigli ci avrebbe sicuramente aiutato a farla meglio. Perché Ingrao coltivava le nostre stesse idee sulla necessità di spezzare definitivamente ogni legame col comunismo realizzato e sulle spinte per la liberazione della società. Uno dei momenti più drammatici della mia vita è quello che viene ricordato da tutti come il “pianto di Occhetto” e che è stato interpretato come il pianto per lo scioglimento del PCI. Invece non fu per quello.
Ci fu uno scontro molto bello al Congresso. Il giorno prima Ingrao aveva fatto un discorso molto bello, alto, poetico, ponendo problemi che andavano al di là delle motivazioni della Svolta e, alla fine, fu accolto da un’ovazione. Io mi preparai delle conclusioni, dovevo parlare dopo Ingrao che si era opposto, lui era un mago della parola. Credo che mi sia venuta una delle cose migliori, come sempre quando c’è l’adrenalina. Le mie conclusioni vennero accolte da un’ovazione interminabile. Nel corso di questa ovazione Ingrao si alzò dal suo posto, venne e mi strinse la mano: io mi commossi perché noi che eravamo stati formati al centralismo democratico avevamo tutti vissuto questa divisione con una sofferenza enorme.
Del resto una parte del pensiero di Ingrao noi l’abbiamo recuperata nella Svolta, in quello che volevamo fare con il PDS. Il comunismo di Ingrao era tenere fermo un punto critico contro l’omologazione e la moderna mutilazione degli esseri umani. Una resistenza alla pretesa unidimensionale del capitalismo. Oggi tutte le esperienze di sinistra mondiale dimostrano che può esistere una sinistra a volte molto più radicale di quello che erano i partiti comunisti su temi anche sostanzialmente anticapitalistici come la fuoriuscita dal mercato dei beni comuni, i temi dell’ecologia che portano un mutamento della logica del profitto. Quando l’insieme della sinistra capirà che è questo l’obiettivo che si deve ancora raggiungere, avremo messo insieme le aspirazioni – che erano anche le aspirazioni di Pietro Ingrao – con l’esigenza di mettere insieme partiti che siano di lotta e di governo.

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