La vicinanza, un tempo, era per lo più una schiavitù, impossibilità da parte della maggior parte degli esseri umani di scegliersi il contesto ritenuto più appropriato per condure la propria vita. Per quanto abbia sempre stentato a crederci, ricordo che mia nonna mi raccontava che, quando lei era giovane, aveva avuto notizia di persone residenti nella parte più interna del sestiere di Castello, a Venezia, che avevano trascorso la loro vita senza mai aver messo piede in piazza San Marco.
Oggi, in seguito alla rivoluzione spaziale indotta dalla globalizzazione, almeno per una parte dell’umanità, la vicinanza non è più subita. È, in certa misura, libera, nel senso che più che in passato si può decidere se vivere in uno spazio o in un altro. Addirittura se dare rilievo allo spazio fisico in cui si vive oppure vivere principalmente in quello virtuale della rete.
Proprio questa libertà ha stimolato la “riscoperta” della vicinanza fisica. In una cornice temporale che è profondamente cambiata insieme alla comune percezione dello spazio: non più – come è stata nell’epoca delle grandi ideologie e dell’enfasi della Storia, proiettata sul futuro, ma orbitante intorno ad un’idea di presente onnicomprensivo.
È cambiato anche lo schema essenziale del conflitto sociale. Sono cambiati i suoi soggetti e le modalità della sua esplicazione: alle organizzazioni di categoria che gestivano il conflitto in una situazione semplificata di polarizzazione (soprattutto tra capitale e lavoro) nel territorio, con finalità rivendicative, tende ora a sostituirsi il contrasto tra interessi e strategie globali, che operano “dall’esterno”, e comunità che si sentono “all’interno” e responsabili dei loro territori. Queste divengono oggi, sempre più, i principali soggetti del conflitto.
La funzione oppositiva che esse svolgono per essere efficace oggi deve inglobare in sé elementi di complessità, partire da posizioni che presuppongono visione d’insieme dei problemi e di capacità di governo locale.
Inversamente, i “grandi interessi” che governano il mondo con strategie di sfruttamento delle risorse locali giocano su molti tavoli contemporaneamente, si sentono sempre più deresponsabilizzati verso i luoghi in cui operano, negoziando, ove è necessario, con essi.
Dove le comunità non sono forti e coese, vengono marginalizzate e deprivate delle risorse dei loro territori.
A Venezia la risorsa è quella della bellezza. L’incertezza ormai più che secolare sul destino da assegnare a una città così paradossale (creata in uno spazio in cui “una città non avrebbe potuto sorgere”), così “egocentrica” da avere addirittura creato intorno a sé uno stato (un mondo) in funzione di se stessa, la vanità dei tentativi di “modernizzarla” iniziati nell’Ottocento e continuati fino a oltre la metà del Novecento, hanno contribuito a rafforzare l’idea che si dovesse ineluttabilmente “vendere” la sua unicità fisica. Ma ciò a scapito di quella sua unicità civile che la aveva fatta sorgere e mantenuta nel tempo, ispirata da una tensione “volontaristica” e da uno spirito “acrobatico” (per esempio, Venezia un tempo era la città in cui, nei periodi di piogge scarse quando i pozzi insulari rimanevano a secco, si usava portare in città l’acqua dolce con le barche dalla terraferma) grazie ai quali in ambiente “impossibile” come quello lagunare si realizzavano tutte le condizioni di una vita non solo normale, ma anche ricca e fastosa.
È stata questa paradossale capacità dei suoi cittadini di creare e mantenere una “normalità” di vita in ambiente di per sé niente affatto normale – che ricorda quella dell’acrobata che stando sul filo compie operazioni normali, come sedersi, accendersi una sigaretta, ecc. – la ragione vera del fascino irresistibile di Venezia nel mondo.
La vendita di Venezia, la sua riduzione a “parco tematico”, è il compimento della sua omologazione alla Modernità: poiché non si è potuta modernizzare, la si vende come “fenomeno da baraccone”. Ma questo sancisce la provincializzazione di tutto il sistema territoriale a essa connesso, la perdita da parte di esso di un’occasione storica di assumere una centralità globale.
Perché è una scelta semplicistica e soprattutto “vecchia”: avviene quando la Modernità è al tramonto, in un tempo ormai postmoderno che consente una libertà inedita di azione e di sperimentazione, specie in luoghi “unici” e ad alta densità suggestiva.
Nel tempo della Postmodernità si è centrali non tanto se si “producono cose” (le attività produttive vere e proprie vengono facilmente delocalizzate in zone periferiche, specie se non ad alto contenuto tecnologico) ma se si dispone di immagine, se si è capaci di interessare e ed attrarre soggettività anche economiche sempre più sofisticate e condizionate da pensieri, sentimenti ed umori. Se si è in grado di creare intorno alle immagini gangli di relazioni, aree di fluidità sociale ed economica in cui diventano possibili sinergie innovative per lo più dirette ed “orizzontali” tra soggetti, con una relativa perdita d’importanza della tradizionale mediazione “verticale” della politica.
Questo vuol dire che l’orizzonte in cui è stata pensata la vendita di Venezia, all’inizio degli anni Settanta, è in larga parte obsoleto.
Perché la città possa mettere in campo tutte le sue potenzialità, in un tempo a essa non più così ostile come era quello della Modernità, bisogna creare un “progetto città” che sappia realizzare un livello inedito di governo della complessità. Che sappia unire il massimo della spontaneità sociale con il massimo di chiarezza teorica e di capacità di progettazione e di consapevolezza civile. Un progetto che nasca dalle esperienze reali di interazione sul territorio mirante alla rivitalizzazione del tessuto cittadino (dire che “è troppo tardi” significa ragionare ancora secondo le categorie temporali processuali della Modernità: trascurare la “libertà a tutto campo” offerta da un presente postmoderno non più in soggezione nei confronti del passato, né più disposto ad attendere pazientemente il futuro).
Un progetto “Venezia postmoderna” può nascere da un rivoluzione culturale – cioè concretamente un modo diverso di intendere lo spazio e il tempo – che ci liberi dai tenaci e soffocanti cliché del Moderno. Può iniziare a crescere a partire dalla riscoperta dello spazio del quartiere – tradizionalmente percepito come spazio marginale, assegnato ad una quotidianità abitudinaria e “banale” e quindi più difficile da “vedere” – come spazio di “vicinanza totale”, da cui possono essere esplicitate le potenzialità relazionali innovative “totali”.
Da questi presupposti nasce la parola d’ordine del “IV Festival di Venezia città viva” : “tradurre la vicinanza in risorsa”.
*Sintesi dell’intervento di Alberto Madricardo a nome del “Patto per la città consapevole” nella tavola rotonda che si tiene il 1° ottobre, ore 18 2015, sala S. Leonardo, Cannaregio, Venezia, nell’ambito del “IV Festival di Venezia città viva”.
Il “Patto per la città consapevole” è una rete di associazioni veneziane che da alcuni anni è impegnata nell’organizzazione annuale del “Festival di Venezia città viva” e, mensilmente, delle iniziative del “Laboratorio della città”, in cui vengono confrontate le esperienze di soggetti e gruppi associativi operanti in diversi ambiti e settori sul nostro territorio, al fine di elaborare comuni strategie culturali e sociali per la città.
Il Patto vuole contribuire a creare le condizioni per una migliore coesione sociale ed una cittadinanza consapevole, in grado di far prevalere sugli interessi particolari – sia locali sia esterni – quello generale della città.
IV FESTIVAL VENEZIA CITTA’ VIVA
La quarta edizione del Festival di Venezia città viva, incentrata sul tema della vicinanza e dello spazio del quartiere, vuole contribuire alla creazione, a partire dai quartieri, di un “sistema città” che abbia come suo scopo la rivitalizzazione di Venezia, città negli ultimi decenni espropriata da se stessa a causa del turismo selvaggio e della speculazione.

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