“Il Balcone” di Manet, quando un solo quadro vale una mostra

MARIO GAZZERI
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C‘è come un’eco di un déjà vu anche per chi lo guarda per la prima volta. “Il Balcone” di Edouard Manet è uno dei “pezzi forti” della mostra in programma al Complesso del Vittoriano a Roma dove, a partire dal 15 ottobre e per quattro mesi, sarà esposta una preziosa selezione della collezione permanente degli Impressionisti del Musée d’Orsay. Ma i tre personaggi del quadro che, persi nei loro pensieri, sembrano astrarsi da tutto ciò che li circonda, furono la pietra di un vero e proprio, oggi incomprensibile, scandalo.

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Feroci furono le critiche. Troppo verismo, colori troppo “chiari”(!) e l’interno della casa, in ombra, che creava un contrasto non gradito ai critici del tempo, tuttora ancorati all’estetica di Poussin e dei quasi contemporanei Corot e Courbet. “Tre pupazzi sul balcone”, suggerì un critico, sarebbe stato il titolo più appropriato per quella tela esposta al Salon di Parigi nel 1869.
In realtà il quadro, uno dei più importanti mai dipinti da Manet nella sua carriera, è un enigma. La fissità dello sguardo dei tre personaggi, la loro palese indifferenza e distanza da ogni contesto di realtà, se visti in filigrana sembrano tradursi sulla tela in una critica della società parigina del Secondo Impero, di una classe opulenta e imborghesita che pure sta per essere spazzata via dall’immane tragedia che solo pochi mesi dopo travolse Parigi e la Francia intera, costretta dopo la disfatta di Sedan a un’umiliante resa firmata nel palazzo di Versailles (colpo finale inflitto da Bismarck a Napoleone III e al suo “imperial clangore”).

La “gestazione” del dipinto fu lunghissima con snervanti sedute per i tre modelli che, come è noto, erano la violinista e amica di famiglia Fanny Claus (sulla destra), il pittore Antoine Guillemet (allievo di Corot e molto apprezzato all’epoca) in piedi con il sigaro nell’atteggiamento tronfio dell’artista di successo e la pittrice Berthe Morisot.

Quest’ultima, cognata di Manet (ne aveva sposato il fratello Eugène), è tuttora considerata la migliore tra le pittrici impressioniste. Non potendosi iscrivere all’Accademia (riservata solo agli uomini), Morisot studiò privatamente ed ebbe tra i suoi primi maestri proprio Edouard Manet, di cui, secondo numerose fonti dell’epoca, “s’innamorò perdutamente” divenendone probabilmente l’amante. Ma su quest’aspetto della vita privata e segreta dei due si è a lungo spesa Brunella Schisa nel suo libro La donna in nero. Questa segreta liaison spiegherebbe lo sguardo malinconico e assente con cui Manet volle ritrarla. Dal suo volto traspare una diafana bellezza interiore che la rendono sicuramente più dolce e attraente di quanto non faccia il ritratto che le fece il grande fotografo Nadar.

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Ma le critiche non amareggiarono più di tanto il pittore, visto che altre sue opere (in particolare Le Déjeuner sur l’herbe e Olympia) ebbero un’accoglienza ancor peggiore. Gli si rimproverò tra l’altro di essersi ispirato a opere di Tiziano e Goya (Olympia dal primo, Il balcone e La fucilazione dell’imperatore Massimiliano dal secondo) banalizzandone lo spirito e volgarizzandone forma e contenuti.

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Manet, che morì di sifilide a soli cinquantun anni, non era peraltro amato anche a motivo delle sue simpatie repubblicane che lo portarono a frequentare ambienti letterari “di sinistra”. Assieme a Théodore Duret, Jules Ferry, Emile Zola e Camille Pelletan fondò un giornale repubblicano d’opposizione La Tribune française. Non sappiamo peraltro se Manet ebbe un qualche ruolo nel breve sogno rivoluzionario della Comune di Parigi o nell’incubo della repressione voluta dal futuro presidente della repubblica Adolphe Thiers che ordinò la fucilazione di trentamila “ribelli” in tutta la Francia.

Gli Impressionisti operarono in un arco di tempo che grosso modo va dal 1860 al 1910, ed è proprio su questo cinquantennio che l’imminente mostra al Complesso del Vittoriano gioca un’altra scommessa, dopo quella dello scorso anno, puntando su nomi come Degas, Renoir, Pissarro, Cézanne. E, ovviamente, Manet e Morisot.

La sensibilità moderna di Manet fa di lui un vero precursore. Emile Zola, uno dei primi grandi “veristi” della letteratura moderna, Baudelaire e Mallarmé ne lodarono “l’autenticità” e Paul Valéry parlò di un suo “istinto strategico della pittura”. Criticato ancora dai suoi detrattori per una sua “natura morta”, il pittore disse: “se devo dipingere un grappolo d’uva, io non conto gli acini ma uso macchie di colore”. Come ricorda lo storico e critico d’arte Dario Gamboni, Marcel Proust nei suoi Ricordi fece dire a Manet, in risposta a una critica mossagli da Thomas Couture: “Io dipingo quello che vedo e non quello che gli altri amano vedere”.

Ma dovevano passare ancora cinquant’anni dagli “scandalosi” dipinti di Manet perché Paul Klee potesse finalmente affermare che “un vero pittore in realtà dipinge solo quello che non si vede”.

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“Il Balcone” di Manet, quando un solo quadro vale una mostra ultima modifica: 2015-10-05T11:30:15+02:00 da MARIO GAZZERI
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