Hillary ha vinto una battaglia. La guerra, non ancora

GUIDO MOLTEDO
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La scommessa vinta splendidamente a Las Vegas equivale all’incoronazione definitiva di Hillary Rodham Clinton. È lei la candidata democratica alle presidenziali del 2016. È lei la favorita nella corsa alla poltrona oggi occupata da Barack Obama. Questa è l’opinione generale in America all’indomani del primo dibattito dem, in realtà un duello/duetto Hillary Clinton – Bernie Sanders. Piano, però. Non saltiamo già, adesso, alle conclusioni.

La corsa verso il voto del novembre 2016 è molto lunga, molto aspra e tortuosa. Di dibattiti, come quello di Las Vegas, ne seguiranno diversi altri. Il prossimo sarà a Des Moines, Iowa, il 14 novembre. Poi il 19 dicembre, a Manchester, New Hampshire. Quindi a febbraio, quando le primarie saranno davvero iniziate, con i caucus in Iowa e il voto in New Hampshire, sono previsti dibattiti in Wisconsin e in Florida, quest’ultimo uno stato-chiave nel voto 2016.

Saranno confronti focalizzati in una certa misura sui temi locali, di fronte a elettori dagli stili di vita semplici ma dagli umori spesso indecifrabili per un politico di Washington. In Iowa, stato agricolo, Hillary inciampò clamorosamente nel 2008. Era la candidata “inevitabilmente” destinata a vincere, secondo i guru e i sondaggi, ma proprio in quei due stati – Iowa e New Hampshire – dove iniziano per consuetudine le primarie, considerati ininfluenti per numero di elettori e delegati ma significativi per capire le tendenze prevalenti, la strada verso il successo le fu sbarrata da un giovane semisconosciuto senatore dell’Illinois, Barack Obama. Essì, l’African American Barack Hussein vinse nell’Iowa, lo stato più bianco del latte. Poi arrivò secondo, di poco, nel New Hampshire. E si capì che sarebbe andato lontano.

Non che questa volta debba capitare qualcosa di simile. Non si vede un altro Barack in giro, che possa davvero infastidirla. La sorprendente performance del compagno Bernie Sanders non può essere minimamente paragonata a quella del primo Barack, anche se, politicamente, per i risultati già raggiunti, è assai significativa. Anche la tanto annunciata discesa in campo di Joe Biden non c’è stata e, dopo il successo di Hillary a Las Vegas, è considerata ormai improbabile.

Dunque, la partita è già chiusa. Quel che succederà nei prossimi dibattiti sarà poco interessante. Alcuni dei competitor minori si ritireranno dalla corsa democratica. Nel drappello rimasto, il meglio che potrà capitare, per la gioia dei media, è il proseguimento del duello a sinistra Hillary-Bernie, secondo il copione visto a Las Vegas.

Già, ma proprio questa prospettiva non è necessariamente la prospettiva di una corsa ormai priva d’ostacoli, una specie di marcia trionfale.

Hillary contro tutti, l’Hillary che abbiamo visto nel dibattito moderato da Anderson Cooper martedì sera, diventerà di nuovo l’“inevitable Hillary”, che proprio perché inevitabile, ineludibile, a molti risulta antipatica. Trasmette, infatti, l’idea di una sorta di predestinazione, dinastica, monarchica, non dell’esito di una scelta libera degli elettori. Il che produce disinteresse, oppure irritazione, sentimenti negativi, in un certo elettorato, in aree dell’elettorato progressista. Il risultato di tutto questo potrebbe essere un’elevata astensione nella sfida finale, contro l’avversario repubblicano. Questa è la principale insidia che presenta un successo precoce e indiscusso.

Hillary, come i veri politici di rango, dà il meglio di sé quando è sfidata. E lo si è visto bene martedì sera. Inoltre, siccome l’elettore sceglie anche, soprattutto, per differenza e facendo il confronto: Hillary, in rapporto ai suoi avversari, è decisamente una spanna più su, per padronanza dei temi, per piglio, per esperienza, per quella che comunemente è definita gravitas. Lei è presidential, i suoi competitor no, danno l’impressione di essere in gara per perseguire altri obiettivi più realistici, più contingenti, legati soprattutto all’opportunità di trovarsi sotto i riflettori di dibattiti televisivi che raccolgono – è il caso di quello di Las Vegas – una platea di circa sedici milioni di telespettatori.

Ma proprio questo status di front runner indiscussa la porrà ancor di più sotto lo scrutinio permanente dei media e degli avversari. Inoltre, non avendo avversari davvero temibili né alla sua destra né alla sua sinistra dentro il Partito democratico, sarà costretta a definire la sua linea più strategicamente, non solo tatticamente come ha fatto finora, e soprattutto nel dibattito televisivo a Las Vegas, dove, per esempio, è stata abilissima a spiazzare Bernie, scalcandolo a sinistra, sulla questione del controllo delle armi da fuoco.

Hillary ha già con sé il grosso dei senatori e dei congressmen democratici, ha un cospicuo tesoro a disposizione, ha una rete impareggiabile di sostenitori e ricchi donors. La macchina democratica è con lei. L’establishment democratico è con lei.

Al tempo stesso, e questo non è un dettaglio di poco conto, Bernie Sanders sta dimostrando una straordinaria capacità nel raccogliere fondi, potendo contare su un network diffuso di sostenitori e volontari, a questo punto più rilevante di quello di cui disponeva Barack Obama nel 2008.

Questo significa anche che si potrà anche considerare Sanders giàfuori gioco, ma esserne certi sarebbe un errore. In ogni caso, se Bernie come candidato può essere ritenuto privo di chance reali, non altrettanto si può dire di quello che rappresenta, della vasta eco che suscitano le sue posizioni politiche, il suo continuo e costante impegno nella lotta contro le evidenti, enormi, crescenti diseguaglianze economiche tra il vertice e la base della piramide sociale americana. Sanders esprime bene il diffuso, profondo sentimento anti-establishment che attraversa l’America, e contende questo terreno alla destra del tea party.

Sul New York Times, Thomas Edsall osserva che i democratici sono diventati, se non il partito dei ricchi, il partito più “leale” nei confronti dei ricchi. Sanders ha in qualche modo costretto Hillary a contrastarlo su questo terreno, e l’abbiamo sentita pronunciare, per differenziarsi dal compagno Bernie, parole di sostegno al “capitalismo” e “business”, che non sono parte del vocabolario della tradizione democratica, come osserva Nicolas Lemann sul New Yorker

Hillary dovrà farsene carico, dovrà tener conto del peso crescente della sinistra, se vorrà coinvolgere e far salire sul suo carro almeno una parte dei sostenitori di Bernie, dovesse Sanders fare un passo indietro.

L’altro handicap del trovarsi sola in testa è che paradossalmente questa sua solitudine potrebbe favorire il campo repubblicano nello scegliere il suo candidato. D’ora in poi, e molto più che nei mesi scorsi, il Grand Old Party dovrà concentrarsi su chi ha il profilo e le chance migliore per sfidare Hillary. La Clinton è già un’ossessione per i repubblicani, lo diventerà ancora di più. E sarà una gara a chi tirerà fuori le munizioni più micidiali per frenare Hillary.

Per adesso, il campo repubblicano è diviso, manca del tutto un qualche principio di sintesi e di comando, come dimostrano le vicende senza fine e senza soluzione dell’elezione dello speaker della camera, dopo le dimissioni di John Bohner. I repubblicani hanno la maggioranza al senato e alla camera, la maggioranza dei governatori, controllano la maggioranza dei parlamenti statali.

Sulla carta, dovrebbero vincere, il prossimo novembre. Peccato che non hanno un candidato “reale”. Non ancora, almeno. La forza di Hillary potrebbe aiutarli a trovarne uno. O, al contrario, esalterà divisioni e guerre interne. Ma tutto ruoterà, dentro l’area dem, dentro l’area Gop, intorno a Hillary.

Hillary ha vinto una battaglia. La guerra, non ancora ultima modifica: 2015-10-15T18:57:35+02:00 da GUIDO MOLTEDO
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