La “Big Night” di Marco. Sarà lui lo sfidante di Hillary

GUIDO MOLTEDO
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Adesso ha un nome lo sfidante repubblicano di Hillary Clinton. Marco. Presto per dirlo? Forse, ma la “big night” di Rubio – il dibattito presidenziale di mercoledì sera – e, soprattutto, la logica della politica unita alla forza delle cose orientano la bussola repubblicana decisamente in quella direzione.

Verso la direzione della candidatura del quarantaquattrenne senatore della Florida Marco Rubio. Hillary, che ha seguito il dibattito tra i dieci aspiranti repubblicani alla nomination, commentandolo con numerosi tweet ovviamente critici, deve aver notato che nel gruppo spiccava decisamente il figlio di immigrati cubani che rappresenta la Florida, come junior senator, al senato di Washington.

Sì, deve averlo notato, e con un po’ di preoccupazione, perché la sua squadra s’è già messa al lavoro per preparare il terreno alla sfida più difficile tra quelle prese finora in considerazione: non contro uno sbruffone misogino come David Trump, un pallone che si sta già sgonfiando; non Jeb Bush, il cui unico merito, sempre più evidente, è quello di essere il rampollo di una dinastia potente; non Carly Fiorina, che non sembra avere altra carta se non quella dell’ovvia polemica con Trump; non Ben Carson, già costretto a difendersi da accuse riguardanti la sua pratica medica. Gli altri, tranne forse Ted Cruz, solo comparse. Quindi ecco Marco Rubio, che per ora sembra emergere – come spesso accade in politica – non per la propria forza ma per la debolezza dei suoi avversari, e per la sua capacità di sfruttarla (ma anche in questo consiste la stoffa politica)

A cominciare da Jeb Bush, il suo mentore politico. Quello al quale deve la sua carriera politica. Quello contro il quale – il potente clan Bush ne era sicuro – non avrebbe neppure osato pensare di scendere in campo nella corsa presidenziale. Ed è stata proprio questa stolta arroganza a creare le condizioni di una probabile, perfino prossima uscita dalla corsa presidenziale di Jeb e della conseguente ascesa di Marco.

Il dibattito di mercoledì sera a Bolder, Colorado, sarà proprio ricordato per lo scambio di battute tra Bush e Rubio. Accade quando, proprio agli inizi del confronto, Bush cerca punti facili criticando Rubio per la sua scarsa presenza sui banchi del senato:

Sono un elettore del senatore e l’ho aiutato, e mi aspettavo che avrebbe adempiuto al suo mandato di rappresentanza, e cioè che sarebbe andato al lavoro. Marco, quando hai firmato [per questa carica], sapevi che era per sei anni, e avresti dovuto presentarti al lavoro. (…) Lo dico davvero, al senato, c’è forse la settimana alla francese [allude alle 35 ore]. E così hai solo tre giorni in cui farti vedere? Fai pure la tua campagna elettorale, ma dimettiti e fai fare a qualcun altro il tuo lavoro.

Bush l’aveva pensato a freddo l’attacco, dopo che Rubio era finito nel mirino del Sun Sentinel, un importante quotidiano della Florida meridionale per il suo assenteismo a Washington: un editoriale del giornale l’accusava di aver imbrogliato i floridiani che l’avevano votato nel 2010. E uno dei moderatori del dibattito, Carl Quantanilla, ha sollevato il tema nel dibattito.

Ovviamente, anche Rubio si era preparato, facile aspettarsi un attacco del genere. Immobile, come un predatore, lascia finire Bush, per poi saltargli addosso.

Scrive John Cassidy sul New Yorker:

Rubio era preparato. L’aveva già dimostrato cercando di rovesciare la domanda di Quintanilla in un attacco alla stampa, una tattica che molti repubblicani adottano quando sono sotto il fuoco, perché spesso funziona. Innanzitutto Rubio sottolinea che uno dei suoi predecessori democratici, Bob Graham, non era presente a oltre il trenta per cento delle votazioni al senato, nel 2004, quando era in corsa per la presidenza. Aggiunge che John Kerry e Barack Obama – due altri senatori in corsa per la Casa Bianca – erano assenti a un numero di votazioni anche superiore. “Ecco – dice Rubio – un altro esempio del doppio standard che esiste in questo paese nella stampa nei confronti del movimento conservatore”

Poi, rivolto a Bush: “Be’, interessante”, e osserva che Jeb ha proprio di recente elogiato la campagna presidenziale del senatore John McCain nel 2008, indicandola come un modello della sua corsa per la Casa Bianca: “Sai a quante votazioni John McCain era assente quando stava conducendo la sua furiosa rimonta che citi a modello? Jeb, non ricordo che tu ti sia mai lamentato delle assenze di John McCain. L’unica ragione per cui lo fai adesso è perché siamo in competizione per lo stesso posto e qualcuno ti ha convinto che attaccando me ti fa gioco”.

Bush balbetta, dà letteralmente l’impressione di barcollare, non sa che dire. Marco Rubio l’incalza:

La mia campagna sarà sul futuro dell’America, non sarà basata sugli attacchi nei confronti degli altri candidati nei dibattiti. Non corro contro il governatore Bush, non corro contro nessuno su questo palco. Mi candido alla presidenza perché non esiste che eleggiamo Hillary Clinton per continuare la politica di Barack Obama.

Si può anche leggere la serata di mercoledì come una sconfitta dell’establishment repubblicano, concentrando l’attenzione sul suo candidato, Jeb Bush, in partenza il favorito, e per questo il più dotato finanziariamente e organizzativamente. Un candidato, rispetto a tutti gli altri, moderato e, su alcuni terreni, perfino relativamente aperto.
La sua débâcle rende ora la corsa territorio esclusivo di esponenti della destra più ottusa e retriva, tra i quali spicca Marco Rubio, appunto.

A sentirlo, è un campione delle ovvietà e delle banalità, e delle frasi fatte, che vogliono echeggiare Reagan senza la capacità comunicativa dell’ex attore. Eppure “dietro il suo aspetto piatto si nasconde un politico scaltro e felino, con senso dell’equilibrio istintivo e una serie di artigli in grado ferire a sangue”, osserva John Cassidy.

Lo scambio con Bush ne è stata la conferma.

Lo vedremo nei prossimi dibattiti, e si vedrà anche se i finanziamenti finora confluiti verso le casse di Bush, sempre meno negli ultimi tempi, ora saranno dirottati verso il golden boy dei tea party, il figlio di immigrati, cubani, come Barack, che è figlio di un immigrato kenyota. È un po’ dunque l’Obama della destra.
Un accostamento non insensato, considerando l’importanza ormai decisiva delle trasformazioni demografiche e il peso rilevante degli immigrati, due fattori chiave nella politica americana e determinanti al fine di vincere le elezioni presidenziali.

Naturalmente, l’analogia con Obama finisce qui, perché politicamente i due sono agli antipodi. E sono all’opposto per cultura e per capacità di maneggiare temi complessi. Se Obama è il professore di Harvard, anche con i limiti del professore pedante, Rubio è il classico ignorante conservatore, perfino fiero di esserlo. Al giornalista che un paio di anni fa gli chiedeva «che età ha la terra» rispose: “E mica sono uno scienziato!”. Poi lo scorso anno, con grande sicumera, ha detto di non essere affatto d’accordo con chi – scienziati compresi – ritiene che il cambiamento climatico sia provocato dall’azione dell’uomo. “Il nostro clima è sempre cambiato, e quel che hanno deciso di fare è prendere un po’ di decenni di ricerca dicendo che qui ora c’è l’evidenza di una tendenza di lungo termine che è direttamente e quasi del tutto attribuibile all’attività umana. Io non sono d’accordo”.

Come Ted Cruz, il suo rivale del Texas, guarda al voto latino, un blocco elettorale decisivo, ma diversamente da Cruz, che tiene di più allo zoccolo duro conservatore, anti-immigrati, Rubio si è esposto su questo tema. In rottura con la destra a cui appartiene, è stato con la “banda degli otto” – otto senatori democratici e repubblicani, tra cui McCain – autore di un disegno di legge complessivo sull’immigrazione che prevede un percorso verso la cittadinanza per gli oltre dieci milioni di immigrati senza permesso negli Usa, molti dei quali latinos, una riforma bloccata alla camera, dalla maggioranza repubblicana. Un blocco aggirato dal presidente Obama con una serie di ordini esecutivi. E per questo duramente attaccato da Cruz.

Ironia della sorte, dunque, Hillary potrebbe trovarsi di fronte un altro Obama, anche se un Obama di estrema destra. Tra tutti i possibili candidati del Partito repubblicano è per lei il più insidioso.
Si ha la sensazione, dopo un dibattito che ai più è risultato tedioso e inutile, tanto che dopo si è commentata più la performance dei conduttori, per criticarli, che quella dei protagonisti, si ha la sensazione che ciò nonostante la sfida presidenziale sia cominciata davvero mercoledì scorso.

La “Big Night” di Marco. Sarà lui lo sfidante di Hillary ultima modifica: 2015-10-29T16:50:53+01:00 da GUIDO MOLTEDO
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