Avesse deciso un’Oriana Fallaci di quei tempi, o un suo fan, di quelli che se ne vedono tanti in giro di questi tempi, al siriano Abdulfattah Jandali sarebbe stato negato asilo negli Usa come rifugiato politico, nel 1954. E l’America, e il mondo, non avrebbero mai avuto Steve Jobs.
Il nesso? Il fondatore di Apple Inc. si chiamava Jobs, nome super-Wasp, ma in realtà era figlio biologico di Abdulfattah Jandali, scappato dalla Siria.
Figlio di un ricco latifondista, nato nel 1931 a Homs, terza città del paese, uno dei centri nevralgici dell’attuale guerra civile in corso, si trasferì a diciott’anni in Libano, per continuare gli studi all’American University of Beirut. In un articolo del 2007, su Campus gate, rivista pubblicata dall’American University, Jandali è annnoverato tra i giovani esponenti di spicco del nazionalismo arabo di Beirut, tanto da diventare direttore di Al Urwa Al Wuthka, un giornale che sosteneva i simboli del movimento del nazionalismo arabo, personaggi poi diventati noti George Habash, Constantin Zureiq e Shafik al-Hout.
Nel 1952 la situazione libanese fu terremotata dalle dimissioni di Bechara el Khoury, primo presidente dopo l’indipendenza libanese e primo presidente arabo a lasciare il posto sotto le pressioni della piazza. Fu in quel contesto di disordini e caos che Al Urwa Al Wuthka cessò le pubblicazioni, e Jandali, che era anche finito in carcere, decise di lasciare il Medio Oriente, trovando ospitalità nel 1954 da parenti a New York, dall’ambasciatore all’Onu Najm Eddin al-Rifai. S’iscrisse alla Columbia University e dopo un anno alla Wisconsin University, dove ottenne una borsa di studio e poi conseguì il a Ph.D. in economia e scienze politiche.
Fu in Wisconsin che Jandali, ormai John, conobbe Joanne Carol Schieble, cattolica, di origini svizzero-tedesche. Mona Simpson, sorella biologica di Steve, racconterà che i nonni paterni non volevano che i due giovani si frequentassero non tanto perché fosse mediorientale quanto perché era musulmano. Dalla loro relazione fu concepito un bambino, ma il padre di lei s’oppose a che si sposassero. Jandali lasciò Joanne prima che il bambino venisse al mondo, a San Francisco, tornò per un periodo in Siria. Il neonato fu messo dalla madre in adozione a San Francisco, a condizione che la coppia adottiva fosse benestante e cattolica. Jandali successivamente si rifece vivo con Joanne, si sposarono, nacque una figlia, Mona. Il bambino, nel frattempo, era stato adottato da Paul e Clara Jobs, classe operaia, nessun titolo di studio universitario, contro il volere di Joanne Carol, che ricorse, invano, contro l’adozione.
Da allora la vita di Jandali è stata molto movimentata, sempre comunque estranea a quella del figlio biologico. Parlandone, molto tempo dopo, Steve Jobs usò parole molto dure nei confronti del padre e delle madre biologici: “il mio sperma e la banca dell’uovo, niente di più”. Jandali, d’altra parte, non ha mai avanzato pretese genitoriali: “In realtà non sono suo padre, lo sono il signore e la signora Jobs, che l’hanno cresciuto. E non intendo prenderne il posto”. E ha aggiunto: “Non posso prendermi il merito per il successo dei miei figli”
Eppure Steve, e contemporamenamente Mona, senza sapere l’uno del’altro, ed è la ragione per la quale a un certo punto si sono incontrati, si sarebbero rivolti a un’agenzia investigativa per conoscere il loro genitori biologici.
Negli Stati Uniti fermenta, con accenti pericolosi, il dibattito sull’accoglienza dei siriani in fuga dalla guerra civile. “Da parte dei conservatori – scrive Bill Palmer su DailyNewsBin – sono usati tutti i soliti argomenti contro una simile evenienza: e se non sono affidabili? E se sono incompatibili con il nostro stile di vita? E se ci prendono i nostri posti di lavoro? Ma forse la domanda più rilevante è questa: e se uno di loro finisce per dare la vita a uno che crea la Apple? Perché è questo quello che precisamente accadde quando l’ultima volta accogliemmo nel paese i profughi siriani”.
“La storia di Steve Jobs e di suo padre – dice ancora Palmer – è uno straordinario richiamo a tener presenti due cose. Gran parte degli immigranti che vengono in America danno un contributo alla nostra società in modi piccoli o grandi, alcuni più grandi di altri. E gli unici malvagi in storie così sono i conservatori che fanno sì che la paranoia razzista li spinga a straparlare contro gli immigrati in modi che sono semplicemente estranei all’America”.
@GuidoMoltedo

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