La NATO, l’Alleanza atlantica, confina direttamente con l’area oggi decisiva, fuori dell’Europa, della guerra all’ISIS. Infatti, la Siria, paese pesantemente coinvolto in una violenta guerra civile e, per questa via, con sue città cadute sotto il controllo dell’ISIS (una delle diverse organizzazioni politico/militari ostili al governo Assad), confina con la Turchia, paese membro della NATO stessa.
Se a questo si aggiunge che appena dentro il confine turco/siriano operano forze ribelli (non ISIS) al governo di Damasco; che contro di esse agiscono, al limite dello spazio aereo di Ankara, i caccia-bombardieri della Russia, il primo alleato del Presidente siriano Assad, allora si avrà la chiara immagine che l’abbattimento da parte di un caccia F16 turco del Sukhoi Su-24 è la spia di come tra i partner della cosiddetta “guerra al terrorismo” covino contrasti irrisolti. Tensioni che la crisi diplomatica che è immediatamente seguita alla distruzione del jet con la stella rossa solo in parte, per obblighi diplomatici, esplicita.
Naturalmente, nessuno dei protagonisti vuol portare la tensione al punto di non ritorno. Del resto, questo non accadde neppure durante la Guerra fredda, quando nel 1960 un aereo spia U2 statunitense sconfinò nello spazio aereo dell’URSS venendone per questo abbattuto. Tuttavia, la situazione è delicata; non solo perché comporta comunque un’escalation militare, per quanto “fredda”, di Mosca, tesa ad offrire un ombrello di protezione aerea ai suoi jet impegnati in attacchi al suolo. Il che significa, politicamente parlando, che sicuramente aumenta il rischio d’incidenti: ad esempio, nuove (vere o supposte che siano è uguale) violazioni dello spazio aereo turco, reazione turca e controreazione russa con abbattimento di intercettore turco. Ma anche che, ed è un aspetto decisivo, l’alleanza anti ISIS si mostra per quel che essa realmente è: balcanizzata. E questa sua frammentazione rende la situazione politico/militare assolutamente caotica.

Sukhoi Su-24
In definitiva, la particolare durezza (l’abbattimento del Sukhoi Su-24) della risposta di Ankara alla supposta violazione dello suo spazio aereo, ha evidenziato, per il suo preciso significato prima politico che militare, al mondo (e all’ISIS) che “il Re è nudo”: ovvero, che l’idea di “Comunità internazionale contro il terrore”, se intesa come comunanza etico/politica, è, per dire col filosofo Bacone, un idola fori, ossia parole cui nulla corrisponde fuori di esse. Logico, d’altronde, visto che gli attori sul campo sono molteplici e con opposti interessi nel ridisegno, in un eventuale dopo ISIS, di ciò che le carte geografiche attualmente nominano come Siria e Iraq; e questo non solo per gli appetiti geopolitici dei protagonisti, ma anche perché è impresa assai difficile, forse impossibile, ricomporre nei confini precedenti le zone egemonizzate da alawiti, curdi, sciiti e sunniti.
Nessuna meraviglia, pertanto che sul futuro dell’area facilmente gli alleati diventino nemici; in fondo, questa è la regola di qualunque guerra, dove il combattere assieme significa l’individuazione del “nemico principale” e non, necessariamente, amicizia politica reciproca. A riprova, Roosevelt, Churchill e Stalin, i Grandi alleati contro il nazifascismo, per il dopoguerra avevano obiettivi opposti: tant’è che dalla loro vittoria nacque la Guerra fredda. Caso mai, il problema è proprio questo, ovvero che per il dopo ISIS mancano tuttora le tracce – se non parzialmente – di una sorta di “Yalta mesopotamica”. Di qui la vaghezza politica della, sebbene auspicata, “Comunità internazionale contro il terrore”.

F-16 turchi
Ma allora parlare di “Comunità internazionale contro il terrore” è solo piegarsi alle ipocrisie (spesso utili) del linguaggio diplomatico? No, se lo si fa fuor di retorica, per indicare, pur con tutta la vaghezza del caso, che nonostante tutto tra le potenze in campo contro l’ISIS può esistere un minimo comun denominatore; e ciò almeno per evitare il completo collasso di Damasco e Baghdad. Non a caso lavorare per questo è l’obiettivo principale della diplomazia del presidente Hollande che ha l’oggettiva necessità, acuitasi dopo gli scontri a Parigi, di supportare con vaste alleanze politico/militari (anche trasversali alla NATO, se serve) lo sforzo bellico della Francia; tra l’altro geograficamente molto esteso visto che trascende il fronte siro/iracheno per spingersi fino all’Africa occidentale. Inevitabilmente, però, l’abbattimento del Sukhoi Su-24 russo mette in discussione l’intero disegno dell’Eliseo, perché fa emergere le opposte concezioni geopolitiche di due dei maggiori protagonisti non arabi del conflitto contro l’ISIS: la Turchia e la Russia, con USA e Iran sullo sfondo.
La Turchia, da parte sua, sviluppando un approccio geopolitico neo-ottomano, punta a emergere come potenza regionale sunnita. Ankara infatti, sulla base del concetto (elaborato dal premier Ahmet Davutoğlu) per il quale la profondità strategica degli interessi di un paese supera i suoi confini legali, ritiene di poter aspirare ad un ruolo di leadership del mondo sunnita su di un arco geopolitico che va dalle Repubbliche turcofone dell’ex-URSS, ai Balcani ed al Medio Oriente. Ovvio, in questa prospettiva, che la creazione di un governo sunnita “amico” in Siria ne sarebbe un primo passo. Conseguentemente, per Ankara la Russia, che, viceversa, è intervenuta militarmente per stabilizzare il regime siriano (ponendosi al massimo il problema di un maquillage politico relativamente ai suoi vertici), è d’intralcio. L’attacco al Su-24 risponde a questa logica. Né si deve dimenticare, in questa prospettiva, che la Turchia è un paese NATO; e questo di fatto apre, dovendo l’Alleanza solidarizzare con un suo membro, una crisi tra essa e la Russia, con la conseguenza di bloccare una stretta cooperazione NATO/Mosca contro l’ISIS (cosa che certo non dispiace a Washington).

Ahmet Davutoğlu
Certo, comunque, singoli membri della NATO, certamente la Francia, collaboreranno con Putin; ma è un contesto che nella sostanza emargina la NATO. Anche perché il meccanismo decisionale di quest’ultima richiede il consenso di tutti; quindi, ad Ankara basterebbe il veto per bloccare operazioni NATO/Russia poco o nulla gradite. In ragione di ciò è difficile che la Casa Bianca ignorasse la possibilità di uno scontro aereo russo/turco; e che, dunque, vi abbia consentito anticipatamente, preoccupata anch’essa del ritorno di Putin, e da posizioni di forza, sulla scena internazionale.
In altri termini, per gli USA la guerra all’ISIS è solo una tra le diverse priorità; le principali delle quali sono, da un lato, la tenuta delle petromonarchie del Golfo (tra l’altro nel Bahrein ha sede il comando della V flotta USA) e l’integrità territoriale di Israele; e, dall’altro, in relazione alla distribuzione geopolitica dei sui comandi militari, evitare egemonie regionali che possano divenire globali. Visto da Washington, insomma, lasciare in parte la “patata bollente” della “crisi ISIS” in mano alla Russia e ai suoi alleati (Stati europei e Turchia) ha senso strategico.
Anzi, l’incidente del Sukhoi Su-24, ostacolando il rapporto Russia/NATO, è perfetto, sempre per Washington, per bloccare l’asse russo/tedesco, un potenziale blocco, cioè un nuovo competitore politico, poco, anzi per nulla, gradito dalla Casa Bianca. L’attuale gestione della “guerra all’ISIS” da parte degli States, pertanto, quantomeno richiama, anche nelle sue lentezze operative, quest’approccio, certo anche orientato a evitare, a tutela delle petromonarchie sunnite del Golfo, che Mosca possa favorire un dopo ISIS troppo sbilanciato a favore dell’Iran e, conseguentemente, degli sciiti.
Per la Russia, viceversa, la posta in gioco nella guerra al Califfato è vitale su due piani. Il primo è quello di garantirsi in Siria una presenza militare – per il vero già in essere ai tempi dell’URSS – fondamentale per pesare in Medio Oriente e nel Mediterraneo, dove il Cremlino ha interessi politici, militari ed economici (anche per la presenza in zona dei suoi colossi energetici). Poi il Cremlino ha la necessità di evitare che il Califfato si stabilizzi territorialmente creando così una sorta di “oasi militare” per quelle migliaia di combattenti provenienti soprattutto dal Caucaso del Nord che poi, tornando in un paese molto esposto alla predicazione in stie ISIS, potrebbero ripetere gli attacchi di Parigi, ma su scala ancor più pesante.
In effetti, per interessi sia di sicurezza interna che geostrategici, Parigi e Mosca considerano l’ISIS il nemico prioritario; e questo le spinge alla comunanza d’azione. D’altronde, vorrà pur dire qualcosa che il presidente Hollande dopo i fatti di Parigi abbia evitato di appellarsi alla NATO (dove la Francia è rientrata nel 2009); certo, ciò è espressione di quel tipico riflesso gollista che rappresenta il bisogno di autonomia della Francia; tuttavia, letto oggi, significa una lettura dell’attuale crisi internazionale che porta Parigi ad agire anche fuori dalla NATO, forse nel caso considerata più un vincolo che un supporto, per rivolgersi (non con appelli ma con operazioni militari congiunte) alla Russia di Putin. Così facendo, tra l’altro, ha modificato la scacchiera, obbligando gli USA ad esplicitare le loro opzioni sulla guerra all’ISIS. Molto dipende ora dalle mosse della Casa Bianca.
Nondimeno, una cosa è certa: i nemici dell’ISIS pensano ad equilibri geopolitici del Medio Oriente nel dopo ISIS diversi. Vero, la minaccia li spinge comunque a collaborare. Ma con che coerenza strategica? Al di là delle sue conseguenze diplomatiche (un appeasement le parti riusciranno con tutta probabilità a trovarlo), l’abbattimento del Sukhoi Su-24 esprime bene i dilemmi geopolitici insiti di questo conflitto.

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