Con tutto quello che è accaduto a partire dal 24 novembre (giorno dell’abbattimento del Sukhoi russo sui cieli del Medio Oriente), una notizia che pure avrebbe meritato qualche considerazione è finita con l’essere sopraffatta dai rimbombo dei tamburi di guerra:
la Commissione europea aveva appena partorito il sofferto rapporto annuale sulla Turchia e per la prima volta in quasi tre lustri anziché fustigare le brutalità di Recep Tayyip Erdoğan diceva che sì, si registra qualche manchevolezza nell’area dei diritti civili (giornalisti arrestati, avvocati uccisi, manifestazioni brutalmente disperse), è vero, c’è qualche problema di democrazia (partito islamico Akp con la maggioranza assoluta, internet e social network interrotte a fasi alterne, giudici e poliziotti scomodi messi brutalmente da parte, attentati dinamitardi) ma tutto sommato, considerando bene le cose…

Sukhoi Su-24
Il povero estensore del rapporto aveva fatto i salti mortali per rendere possibile quel che è accaduto pochi giorni dopo, ovvero un Consiglio d’Europa che per la prima volta nella storia si è svolto a 29 (i ventotto paesi dell’Unione più la Turchia) e soprattutto è servito a firmare il cosiddetto “patto di contenimento”.
Ankara (ovvero Erdoğan, almeno per il momento) s’impegna a trattenere sul suo territorio i fuggitivi dalla Siria e a controllare più strettamente i passaggi marittimi verso la Grecia, in cambio la Ue rivedrà le prospettive di adesione della Turchia, congelate da oltre un decennio, e dalla fine del 2016 renderà libera la circolazione dei cittadini turchi nel suo territorio – sempre che in quel vasto territorio si mantenga ancora libera circolazione.
Tutto questo avveniva prima che Mosca rendesse pubbliche le prove dello spudorato traffico di petrolio dell’ISIS che si svolge attraverso il territorio turco, e sempre prima che fonti della guerriglia non islamica esibissero copie di contratti che sembrano proprio ricondurre tutto questo alla famiglia Erdoğan.
Qui non si parla di fantasie, ma di tre miliardi di euro all’anno, e non è arduo ipotizzare che di fronte a simili cifre anche la fede del musulmano più fervente possa vacillare. Soprattutto, stanno emergendo altri elementi che finiscono con dimostrare come, anche in materia di geopolitica, tutto si tiene.
La grande amministratrice del traffico pare proprio essere l’organizzazione dei Fratelli Musulmani (Jama’at al-Ikhwan al-Muslimin), gruppo che fin dalla sua nascita avvenuta in Egitto si è sempre collocato fuori dalla guerriglia ma molto dentro agli affari. Qui aprire una parentesi richiederebbe una digressione troppo lunga, ma forse basterà chiarire che i “Fratelli” sono stati messi fuorilegge da Egitto, Russia, Siria e perfino Arabia Saudita, mentre al contrario vengono appoggiati dal Qatar e negli ultimi anni sostenuti dalla Turchia di Erdoğan. E adesso forse se ne capisce meglio il perché.
Ma torniamo al contrastato rapporto fra Ankara e Bruxelles: in quello che sul mercato domestico Erdoğan si è rivenduto come un grande trionfo – e sicuramente lo è stato, avendo lui il coltello dalla parte del manico – è affiorata la manina di un ignoto funzionario europeo a cui probabilmente un giorno dovremo tutti erigere un monumento.
A Bruxelles il padre padrone della Turchia – o come molti ormai lo chiamano, il Sultano – ha ottenuto quasi tutto, tranne una cosa che adesso però diventa essenziale. Lui voleva che i tre miliardi l’anno garantiti dall’ Unione diventassero una sorta di quota fissa, invece su questo punto l’accordo scivola verso una serie di subordinate e di distinguo che, a ben considerare, rendono possibile ogni soluzione.
Insomma, per tornare a terra: oggi l’Europa assicura a Erdoğan quella montagna di danaro, ma domani potrebbe interrompere il flusso con ogni possibile pretesto. Tutto dipenderà dall’andamento della crisi dei rifugiati, e non solo.

Convoglio di autocisterne dell’Isis
Adesso, una piccola chiosa di carattere stilistico: se soltanto fino a due settimane fa qualcuno si fosse azzardato a mettere in dubbio il potere di Erdoğan sulla Turchia, sarebbe stato preso per folle. In una qualsiasi frase a lui dedicata, dire che è il padrone della Turchia “almeno per il momento” sarebbe parsa vuota esercitazione stilistica, o appello al Supremo. Invece, nell’arco di pochi giorni, questo dubbio è diventato realistico, e mai come oggi il Sultano appare fragile.
La Russia lo ha bandito, gli Stati Uniti lo difendono solo in maniera formale, i curdi lo incalzano dall’interno, e nel mondo la sua immagine non è più quella di un islamico fervente, per quanto retrogrado, ma di un autentico bandito che non arretra dinanzi a nulla e pur di fare soldi finanzia il terrorismo (oppure appoggia il terrorismo facendo anche soldi, come al solito l’ordine dei fattori non cambia il prodotto).
Bene: adesso il grande alleato dell’Europa è un tipo del genere. Quando ne prenderemo atto?
Il momento, lo sappiamo, è particolarmente difficile, l’ondata dei migranti non si ferma ancora anche se la stagione la rallenta, in Macedonia sta prendendo il via la ribellione dei respinti, Usa e Ue cercano di considerare la tragedia ucraina come un conflitto congelato mentre in Siria si va stabilendo un’alleanza di fatto con quella stessa Russia che a Kiev viene trattata come nemica, dunque a Bruxelles non è certo il momento di andare troppo per il sottile. Quanto al vagheggiato ingresso di Ankara nell’Unione, c’è tempo: in oltre dieci anni di trattative sono partite appena quattordici delle trentatre tappe negoziali previste e ne è stata conclusa soltanto una, quella su scienza e ricerca e dunque i colloqui possono protrarsi all’infinito (vedi esempio della Serbia), o almeno fino a un cambio di regime.
Tutto ciò detto, sarà bene rendersi conto fin d’ora che l’Unione europea ha affidato le chiavi della sua porta balcanica a un signore che arma i terroristi islamici, finanzia i terroristi islamici e viene finanziato dai terroristi islamici. Anche la tiepida difesa abbozzata dagli Stati Uniti nei suoi confronti può considerarsi a tempo: Erdoğan continua a sostenere che fra terroristi e curdi “non c’è nessuna differenza”, mentre per Washington il Partito dell’Unione democratica (PYD), a guida curda, è il partner più efficace e affidabile che abbiano trovato in Siria (per non parlare del Kurdistan iracheno).

reparti del PYD
Dunque, una resa dei conti sarà inevitabile. Negli ultimi giorni anche dalle forze armate americane si sono levate voci che criticano la cautela dell’amministrazione Obama. Il maggior generale Paul E. Valley, che si è appena ritirato dopo aver lavorato anni a contatto con la guerriglia siriana, dice senza mezzi termini che “Erdoğan rappresenta la forza più negativa dell’intera regione, sostiene i terroristi islamici da prima che il Califfato nascesse e forse lo ha fatto nascere”, concludendo con una constatazione agghiacciante: “Parliamo tutti di Stato islamico e terrorismo senza accorgerci che uno Stato islamico esiste già ed è fuori controllo: sto parlando della Turchia”.
A oggi, siamo a questo punto. Dunque se serve (come serve) continuiamo pure a trattare con Erdoğan sui rifugiati ma non facciamoci illusioni, quel vaso di Pandora è stato appena socchiuso.

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