Machiavelli a Madrid

LIVIO ZANOTTI
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La Spagna “all’italiana” scatena ancor più suggestioni della Francia divisa ultimamente tra repubblicani e “repubblichini” (così risulta l’opposizione socialisti- Nicolas Sarkozy vs lepenisti). La pigrizia mentale della gran parte dei commentatori riduce tutto ad anti-politica. Tale sarebbe in Spagna l’aver negato il voto ai due partiti tradizionali, popolari (PP) e socialisti (Psoe), che sin dal ritorno della democrazia, quasi 40 anni fa, si sono alternati al governo.

 

Sebbene i due nuovi concorrenti affermatisi a livello nazionale – Podemos a sinistra, Ciudadanos (C’s) a destra – agiscano all’ interno della Costituzione e del sistema politico, pur chiedendone correzioni e aggiornamenti significativi che però non li snaturino.

Del resto sono entrambi nati dagli effetti della globalizzazione e dalla bancarotta dei “derivati finanziari” nel 2008. Il risultato elettorale del 20 dicembre scorso viene indicato adesso come un terremoto che sconvolge l’assetto del sistema post-franchista. Ma dov’è il suo epicentro?

 

Più d’uno, tra Madrid e Barcellona, e l’ex premier Felipe González per primo si chiedono come faranno gli spagnoli a governare “all’italiana” senza italiani. Cioè senza la nostra duttilità machiavellica.

La congiuntura economica è pesante. La formazione del nuovo Governo richiederà inventiva, tempo e pazienza. Abilità già note e praticate, peraltro, da tempo, nei Paese Basco e in Catalogna, solo per fare due esempi.

In quelle due regioni, infatti, il maggiore dinamismo economico oltre alla questione indipendentista hanno storicamente frazionato il voto assai più che nel resto del paese e reso inevitabili quindi governi di alleanza, così come adesso sarà necessario fare per quello centrale.

 

Anche le Cortes hanno possibilità di riuscire a esprimere il loro governo. Dispongono di  due mesi per farlo. Si tratta di trovare uno sbocco alla questione sociale. La politica esiste per questo.

Indicato a lungo come il sale della democrazia, il bipartitismo deperisce un po’ ovunque. In misura clamorosa in Europa, tendenzialmente in Sudamerica, con forme meno dirette ed esplicite ma comunque di qualche significato anche negli Stati Uniti.

In quest’ultimo Paese, il periodico affiorare di un terzo partito resta puntualmente lontano dal consolidarsi. Ma è sempre più frequente l’apparire di candidati eccentrici rispetto al baricentro moderato di democratici e repubblicani, da Ross Perot a Donald Trump.

E proprio in questa campagna per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo appare un fattore di gioco inedito che per il costo vertiginoso e crescente della contesa potrebbe infine fare la differenza.

È l’industria tecnologica della west coast e in particolare della California, la più globalizzata, che per la prima volta interviene nelle primarie d’entrambi i partiti anche se prevalentemente lo ha fatto a tutt’oggi con i democratici, contrapponendo i propri finanziamenti a quelli tradizionali di  Wall Street.

Industria vs Finanza? C’è chi lo sostiene e comunque l’ipotesi merita una verifica. Niente del genere si profila, comunque, in Europa. Anche perché nel nostro continente le manifatture costituiscono il grosso dell’industria, la cui dipendenza dal sistema bancario è totale.

Ma, osservato in quest’ottica, il deperimento del bipartitismo e dello stesso sistema democratico di cui è un fulcro storico, permette di vedere le faglie economiche e sociali del terremoto elettorale spagnolo (e francese).

Anti-politica? Ma la partecipazione degli spagnoli alle urne è stata massiccia, hanno votato i tre quarti degli aventi diritto. È piuttosto vero il contrario: la richiesta espressa dal voto è di più rappresentanza, più dibattito, più verità, più politica. Il rischio d’ingovernabilità esiste, ma è nella sostanza delle cose.

La società spagnola almeno per la metà ha detto di voler discutere gli effetti della globalizzazione e ha spinto nuovi interlocutori nelle istituzioni. Ha ampliato la platea degli interventi.

Il “movimento tellurico” è stato avviato dalla globalizzazione che ha integrato i mercati, favorito la crescita di aree emarginate, ma anche dissestato interi sistemi produttivi in zone centrali del mondo prima che venissero sostituiti da altri, espellendo milioni di lavoratori e ostacolando l’accesso al lavoro di altrettanti giovani.

La linea di faglia è marcata da disoccupazione, deterioramento del welfare, corruzione, debito pubblico. La crisi del bipolarismo è l’effetto centrifugo della concentrazione finanziaria da un lato e della frammentazione del lavoro dall’altro.

da IL DIAVOLO NON MUORE MAI

 

Machiavelli a Madrid ultima modifica: 2015-12-22T17:07:34+01:00 da LIVIO ZANOTTI
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