Neppur troppo sottotraccia c’è chi lavora – il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi – ad un progetto molto ambizioso, certo coraggioso, magari utopico: una macro-regione che comprenda anche Umbria e Marche, consenzienti anche i loro governatori, molti partiti, non i sindacati.
Il nocciolo duro dell’Italia centrale pone insomma apertamente un problema (le troppe regioni, spesso troppo piccole) sottaciuto per non turbare poteri ed equilibri di varia natura.
Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, e i suoi due colleghi non si nascondono la complessità dei problemi che il loro obiettivo solleva: costituzionali anzitutto, ma non solo. E quindi vanno per gradi: si può cominciare con una salutare integrazione di servizi (di trasporto locale, di smaltimento dei rifiuti) con una resa economica non indifferente.
Si può proseguire con l’unificazione di alcune competenze. Sino a rendere ineluttabile il fine. Un fine che è già scritto sia in studi molto seri (la primazia spetta, da molti decenni, alla Fondazione Agnelli) e sia, come vedremo subito, in iniziative parlamentari di varia rilevanza.
S’è detto più volte che i comuni, in Italia, sono troppi e spesso troppo piccoli: più di ottomila. Uno spreco enorme, un sistema medievale, una miniaturizzazione di poteri, una parcellizzazione esasperante di competenze, mentre invece un’economia moderna imporrebbe una coraggiosa politica di aggregazione, se non altro una energica ristrutturazione consortile, quanto meno un accorpamento di servizi e di poteri istituzionali.
Certo, un’impresa non indolore: contrastare campanilismi, acconciarsi a drastici tagli di migliaia di poltrone, destinare gli ingenti risparmi ad investimenti e lavoro. Stesso discorso, ma ad un livello ancora più impegnativo, vale per le regioni.
Abolite le province, l’unico livello intermedio dell’organizzazione territoriale dello Stato, a parte le città metropolitane, è proprio quello regionale. Oggi le regioni sono venti, cinque delle quali a statuto speciale concesso o strappato in condizioni storiche e sociali del tutto superate. Ebbene, almeno sei di esse sono grandi (in estensione, ma soprattutto in numero di abitanti) quanto un quartiere o un paio di borgate di Roma o di Milano.
Vogliamo ricordarle? La Valle d’Aosta (129mila abitanti), il Molise (315), la Basilicata (578), l’Umbria (896), il Trentino-Alto Adige (1.051) e il Friuli Venezia Giulia(1.230). Nessuna primazia, per carità, nel porre il problema. Fatto sta, giusto nella fase conclusiva del dibattito in Senato sulla riforma costituzionale, il governo ha accettato un ordine del giorno di Raffaele Ranucci (Pd) che impegnava l’esecutivo a mettere allo studio del ministero dell’Interno una razionalizzazione del sistema regionale: non solo un accorpamento (da venti a dodici) ma una redistribuzione anche di una parte notevole delle (ex) province. Per dirne una, tra le più significative: il Lazio scomparirebbe come tale, resterebbe solo Roma Capitale. E il resto della regione? Re-distribuito in altre macro-regioni: a nord, a est, a sud.
Ma l’ipotesi della “scomparsa” del Lazio non è che una minuscola estrapolazione da un più organico disegno di legge depositato alla Camera da Roberto Morassut, Pd, e al Senato dallo stesso Raffaele Ranucci. Secondo questo piano, delle “vecchie” regioni resterebbero in vita solo Lombardia, Sicilia e Sardegna. Nascerebbero invece la Regione Alpina (che raggruppa Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria), il Triveneto (Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Trentino-Alto Adige), la Regione Emilia-Romagna (a cui viene accorpata la provincia di Pesaro), la Regione Appenninica (Toscana, Umbria e la provincia ex laziale di Viterbo), Roma Capitale, la Regione Adriatica (Abruzzo, le province ex marchigiane Macerata, Ancona, Fermo e Ascoli Piceno, la provincia ex molisana di Isernia e la provincia ex laziale di Rieti), la Regione Tirrenica (la Campania più le due province ex laziali di Latina e Frosinone), la Regione Levante (la Puglia più la ex provincia lucana di Matera e la ex provincia molisana di Campobasso), la Regione Ponente (la Calabria più Potenza, l’ex capoluogo della Basilicata). E chiedo venia di qualche eventuale dimenticanza o confusione.

(fonte: https://geograficamente.wordpress.com/)
Quali e quante possibilità di realizzazione ha questo progetto aperto comunque al confronto, a tutte le correzioni possibili e immaginabili? (La prima correzione nascerebbe dall’accennata idea di unificare il nocciolo duro dell’Italia centrale). Difficile dire, ma bastano alcuni elementi a cavallo di cronaca e storia a sostenere questo interrogativo.
Se pensiamo alla guerra guerreggiata, nel 1970, a Reggo di Calabria, per scegliere il capoluogo di quella regione. E se ricordiamo quanto è costata in bombe e attentati la costituzione del Trentino-Alto Adige anche e, soprattutto, dopo l’accordo De Gasperi-Gruber (in tedesco Gruber-De-Gasperi-Abkommen) del 1946 per la tutela delle popolazioni di lingua tedesca.
Se pensiamo al geloso, sacrosanto attaccamento dei valdostani alle specifiche tradizioni che ne fanno, come quelle dell’Alto Adige, un prezioso patrimonio multiculturale della nazione italiana. Se pensiamo… Ebbene, pensiamoci: senza campanilismi, senza idoli intoccabili.
Laicamente. Riflettendo per esempio – già che ci siamo – all’assurdo dello statuto speciale di cui gode – ancora e quasi sempre inspiegabilmente – qualche regione. Penso in particolare all’autonomia della Sicilia, nata come un privilegio (conquistato coraggiosamente e legittimamente) teso a garantire progresso e ricchezza, e trasformata in una sentina di sprechi inauditi, di enormi scandali, di vergogne imperdonabili e mai perdonate.

Giorgio Frasca Polara

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