L’esigenza di reagire in qualche modo al terrorismo, di razionalizzare ciò che sta avvenendo attorno a noi in queste ore e, al tempo stesso, di rendere coerenti le nostre reazioni con i principi e le regole giuridiche che hanno retto la nostra civiltà fino a oggi, l’esigenza di restituire un senso alla nostra quotidianità e di non cedere al ricatto della paura planetaria, ci conducono a creazioni fantasmatiche che stanno tutte nell’orlo di una ambiguità lessicale.
Stiamo in guerra o no? E con chi, si chiede l’autorevole costituzionalista, snocciolando – giustamente – gli elementi costitutivi di ogni sovranità statale, popolo, governo, territorio, per tentare di definire con ermeneutiche giuridiche il profilo dei nostri nemici?
Eppure il fuoco della “guerra”, non dichiarata e non voluta, almeno da noi, comincia a lasciar trapelare qualche contorno che lascerebbe intravedere una sua logica, seppur aberrante.
Intanto per la sua diffusione: la Francia, il Belgio, paesi francofoni con un importante passato coloniale e con presenze musulmane assai diffuse nel territorio. Il Mali, colpito, però, in quella specie di enclave francese che era l’hotel Radisson Blu di Bamako. Ultima Istanbul, il quartiere di Sultanahmet.
Ma, a ben vedere, la furia jihadista, quella sistematica, stragista, professionale, quantitativamente immane, si scatena soprattutto nell’altro quadrante del mondo, quello islamico, dove il conto delle vittime non è possibile circoscriverlo solo nell’ordine delle centinaia ma addirittura delle diecine di migliaia, in chiave di genocidio.
Rispetto a quello che sta avvenendo da quella parte del mondo, in Siria, in Libia, in Iraq, nell’Africa martoriata, le stragi prodotte in Europa hanno un connotato diverso: appaiono “ammonimenti”, affidati a giovanissimi insider fighters vocati al martirio e arruolati attraverso la Rete col filo della rabbia sociale delle banlieue.
Ma a chi sono diretti quegli ammonimenti? Agli occidentali, portatori di blasfemie e di stili di vita agli antipodi rispetto alla ortodossia malata dell’Is, per dissuaderli dall’intraprendere qualsiasi azione di contrasto a quel mondo? O al miliardo e mezzo di uomini e donne che si identificano nel credo religioso islamico, nello spietato svolgimento di una delirante partita per l’egemonia totale?
A quanti in Occidente sollecitano una risposta netta e rassicurante da parte dei musulmani moderati che abitano il territorio europeo sarebbe utile offrire questa riflessione: e se il vero messaggio fosse rivolto alle pacifiche comunità di islamici che sono integrate da tempo nelle nostre città?
Forse varrebbe la pena di tenere a mente queste domande quando ci disponiamo a considerare gli accadimenti di questi giorni e lo spaesamento che ci assale, gettando uno sguardo in questo rigurgito di medioevo chiamato Is.

Il sipario del Petruzzelli di Raffaele Armenise raffigura la fase conclusiva della liberazione di Bari dai Saraceni dalle truppe condotte dal doge veneziano Orseolo II (fonte dondialetto.it). Il sipario fu distrutto dall’incendio del teatro il 27 ottobre 1991
A proposito di medioevo, non è noto a molti che la mia città, Bari, fu sede di uno Stato musulmano in piena età oscurantista, tra l’847 e l’871. Fu un quarto di secolo soltanto, ma assai intenso: si succedettero tre emiri e venne costruita una moschea. L’ultimo emiro, il terribile Sawdàn, noto per le sue scorrerie piratesche in tutto il Mezzogiorno, venne sconfitto nell’871 dall’imperatore franco Ludovico II, che lo fece prigioniero e liberò la città. Sawdān si ricorda come un uomo spietato ma anche capace di grandi aperture mentali: una specie di mecenate che proteggeva i dotti ebrei. Niente a che vedere, dunque, con la jihad trinariciuta e ignorante dei giorni nostri.

Pino Pisicchio, deputato

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