Lo scorso 28 dicembre, Donald Trump avrebbe dovuto recarsi in Israele. Nell’agenda spiccavano l’incontro con Benjamin Netanyahu e una visita alla spianata delle moschee. Il viaggio del candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti fu cancellato una quindicina di giorni prima della data ormai fissata di comune accordo con il governo israeliano.
La diffusione della notizia del suo prossimo arrivo in Israele era avvenuta in coincidenza con una delle punte massime del profluvio razzista e misogino del front runner repubblicano.
Le sue tirate anti islamiche, la sua richiesta che fossero chiuse le frontiere americane a immigrati di fede mussulmana avevano suscitato indignazione in America e nel mondo, fino al punto, inusuale, di un fermo richiamo rivolto ai repubblicani, da parte della Casa Bianca, a smarcarsi apertamente da Trump.
Con l’eccezione dell’Italia – sia a livello di esponenti di governo e del Pd sia di commentariat politico – la performance del miliardario era stata stigmatizzata in Europa da capi di governo e di stato, anche conservatori come David Cameron, e aveva provocato conseguenze politiche.
In Gran Bretagna partiva una raccolta di firme, che oggi raggiunge 576.837 adesioni, per una Petition to Block Donald J Trump from UK entry una petizione al parlamento per chiedere il divieto d’ingresso nel paese al miliardario razzista. Lunedì alla camera dei comuni si è discusso della mozione popolare (occorrono centomila firme per ottenere un dibattito parlamentare “dal basso”). Non avendo carattere vincolante, il dibattito non ha avuto un esito pratico ma è stato comunque l’occasione per porre al centro dell’attenzione, al più alto livello istituzionale, un tema politico della massima importanza.
Trump, infatti, non esprime opinioni, ma propositi politici, e trattandosi di un potenziale presidente degli Stati Uniti, oggi il favorito tra gli aspiranti repubblicani, sono propositi che potrebbero tradursi in misure effettive. È a questo livello che vanno considerate le sue prese di posizione. Ed è in questo contesto che va vista la mobilitazione contro di lui nel Regno Unito.
La notizia dell’iniziativa popolare britannica ha avuto una certa eco in Italia. Ed è stata commentata sul Corriere della Sera da Pierluigi Battista, sempre puntuale e imparziale nella sua costante vigilanza sui passi falsi della sinistra, una vigilanza non limitata, va detto, all’ambito italiano ma sovente anche attenta ai brutti scivoloni dei compagni d’oltre confine. È il caso, appunto, di quella che egli definisce una “buffonata”, cioè la petizione discussa ai Comuni. L’iniziativa – scrive il commentatore del Corsera – “non è solo controproducente: è soprattutto sbagliata in linea di principio. Suggerisce che ci sia un’istanza politica che dispone della libertà d’opinione per le parole che pronuncia…”
Sicuramente per distrazione, a Battista è sfuggita la raccolta di firme che, contemporaneamente a quella organizzata in Gran Bretagna aveva luogo in Israele. Firme in questo caso non di cittadini ma di parlamentari della Knesset. E che, diversamente, da quanto accaduto a Londra, una conseguenza politica pratica e rilevante, sul piano stesso delle relazioni con l’America, le avrebbero avute. Come si è detto all’inizio, la conseguenza è stata la cancellazione del previsto viaggio a Gerusalemme da parte di Trump.

Il tweet di reazione del deputato Omer Barlev all’annuncio della visita di Trump in Israele
La vicenda è stata riportata dai media italiani, ma senza alcun rilievo. Eppure è una vicenda importante, anche perché emblematica.
La raccolta delle firme di membri della Knesset parte per iniziativa della sinistra di Meretz, in particolare della deputata Michal Rozin, a cui poi via via s’aggiungono le adesioni di parlamentari dell’Unione sionista, della Joint List, di Yesh Atid, più un paio di parlamentari della coalizione di governo Yakov Margi dello Shas e Roy Folkman di Kulanu. Alla fine saranno 37 le firme (su centoventi parlamentari), un fatto politico di grande rilievo che costringe Bibi a rilasciare una dichiarazione netta di presa di distanze da Trump e induce lo stesso Trump a cancellare la sua visita, rinviandola sine die, e lo fa, dice, per non creare imbarazzo al premier “sotto pressione”
“Ce l’abbiamo fatta – ha esultato Razin – il razzismo si è arreso a noi. Trump ha ricevuto il messaggio che lo stato d’Israele non ha spazio per una persona razzista, sciovinista e ottenebrata come lui”.

Il tweet di Bibi Netanyahu di presa di distanze da Trump
L’iniziativa parlamentare era nata come reazione alla disponibilità manifestata dal premier Netanyahu ad accogliere Trump nella sua veste di candidato presidenziale e lo stesso avrebbe fatto con altri candidati. Il loro incontro, sostenevano i parlamentari firmatari, sarebbe stato “un sostegno alle affermazioni razziste [di Trump], disonorando il carattere democratico di Israele e ferendo i suoi cittadini islamici”. La mozione era stata sottoscritta anche dal ministro dell’energia Yuval Steinitz, della destra del Likud, molto legato a Bibi. Intervistato dalla radio delle forze armate, Steinitz dichiarava che va perseguita “la lotta contro il terrorismo e l’estremismo islamico” “ma non dichiarerei il boicottaggio dei mussulmani o l’ostracismo nei loro confronti”.
Duro anche Marc Zell, rappresentante in Israele del Partito Repubblicano: Trump “è un demagogo, e noi in quanto ebrei, e anche come israeliani, sappiamo che cos’è storicamente un demagogo”.
Per Trump la visita in Israele aveva particolare importanza, in vista dell’inizio delle primarie repubblicane, per sottolineare quello che egli considera (non proprio ricambiato) il rapporto speciale con quel paese e con la comunità ebraica statunitense. Sarebbe servito, il viaggio, anche per proporsi agli elettori come candidato attento alle questioni internazionali e, in particolare, a quelle riguardanti il quadrante mediorientale, oggi più che mai al centro dell’attenzione. Gli hanno spiegato che la raccolta delle firme di parlamentari era solo il preludio a un’accoglienza molto “calorosa” di piazza contro la sua presenza, e fosse andato comunque a Gerusalemme, la sua iniziativa internazionale si sarebbe risolta in autogol.

Trump interviene al Republican Jewish Coalition Forum, 3 dicembre 2015
Sul Jerusalem Post il professore Eytan Gilboa spiega bene il sentimento che anima gli israeliani nei confronti di un personaggio come Trump. Gilboa ricorda le ripetute affermazioni del tycoon sulla questione dell’immigrazione dall’America Latina, una sequela di insulti (Il Messico ci manda criminali, trafficanti, violentatori) e quanto disse dopo il massacro di San Bernardino, con la richiesta di un bando temporaneo all’ingresso dei musulmani negli Usa. “Gli ebrei, scrive Gilboa, che hanno patito la chiusura delle porte all’immigrazione e che sono stati salvati da quelle porte che erano loro aperte, considerano queste affermazioni ripugnanti. L’emigrazione di massa degli ebrei dalla Russia e dall’Europa Orientale verso gli Usa, la Palestina e altri paesi, specie agli inizi del Ventesimo secolo, salvò gli ebrei dai pogrom, dalla persecuzione e dall’oppressione. L’emigrazione di massa dai paesi arabi verso Israele dopo la guerra d’indipendenza del 1948 li salvò dallo stesso destino. Dall’altra parte, prima, durante e immediatamente dopo la II Guerra mondiale, agli ebrei che tentavano di fuggire dalla Germania nazista o dall’Europa occupata era vietato l’ingresso in molti paesi, compresi gli Usa”
“Morirono a milioni, prosegue Gilboa, per questo gli ebrei non possono che protestare contro un bando totale, basato sulla religione, dell’ingresso negli Usa. Sta di fatto che molte organizzazioni ebraiche negli Usa, così come gruppi politici e religiosi in Israele hanno nella stragrande maggioranza respinto la richiesta di Trump per il divieto d’ingresso negli Usa per i musulmani”.
L’ascesa di Trump è stata molto sottovalutata in Italia, se non trattata con benevola e liberatoria simpatia, come dimostra anche l’articolo di Battista. Non è in questione la libertà di parola, ma – come bene emerge anche dalle prese di posizione che abbiamo illustrato – in questione sono posizioni razziste che, come tali, in bocca a un possibile prossimo presidente degli Stati Uniti, devono preoccupare e, indubbiamente, legittimano reazioni ferme, come è avvenuto in Israele e nel Regno Unito.
Gli ebrei, per cultura e per quello che hanno patito nella storia, e in particolare in quella recente, sono ipersensibili riguardo ai temi del razzismo, della discriminazione, dell’odio nei confronti delle minoranze o di fedeli di religioni diverse. È talmente profonda nella stragrande parte di loro questa sensibilità che, anche sul terreno dei rapporti con il mondo islamico, non sono per niente propensi a coccolare un tipo come Trump.
Anche perché, a dispetto dei suoi proclami di amicizia nei confronti degli ebrei e nei confronti di Israele, traspare chiaramente una vena antisemita nel sua visione del mondo. Non sono passate inosservate le sue gaffe – proprio di fronte a una platea di sostenitori e donor repubblicani ebrei (Republican Jewish Coalition) – una sequela di stereotipi sull’acume affaristico degli ebrei e sulla loro propensione a controllare con i soldi la politica.
Non ci vuol molto a connettere la sua dichiarata islamofobia con l’antisemitismo non dichiarato ma non meno evidente per chi conosce e sente il “codice” del razzista anche nel sottotesto.
Trump non avrà il voto degli elettori ebrei. Non li avrebbe comunque, un candidato repubblicano alla presidenza, avrebbe, nel migliore dei casi, un quarto delle preferenze degli elettori ebrei, che costituiscono il blocco elettorale più solido e più leale a sostegno del Partito democratico, è l’elettorato più partecipe e attivo a sostegno della politica democrat, ne è anzi una parte costitutiva.
E sarà una delle ragioni per le quali Trump difficilmente riuscirà a diventare presidente degli Stati Uniti, e forse neppure il nominee repubblicano. I blocchi elettorali costituiti dalle minoranze etniche, religiose e di genere, che Donald Trump detesta (o fa finta di ammirare, come nel caso degli ebrei, con l’effetto di irritarli), sono decisivi in molti stati. Senza il loro voto, e solo con il sostegno dei bianchi arrabbiati a e razzisti come lui, il tycoon non va molto lontano. Ciò non toglie che il fenomeno che egli rappresenta non va sottovalutato e va valutato con serietà. È tutt’altro che una “buffonata”, come la definisce Battista, e, a suo dire, anche meno grave della “buffonata” della raccolta delle firme contro di lui nel Regno Unito.

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