
Birgunj (o Birganj) (in nepalese: बीरगंज) città di confine tra Nepal e India
Durante un incontro con la stampa nella sua residenza a Baluwatar il 26 gennaio scorso, il primo ministro nepalese Khadga Prasad Sharma Oli ha annunciato l’imminente fine del blocco delle frontiere con l’India che dura dallo scorso settembre, e che ha messo in ginocchio l’economia del paese.
Prendendo a pretesto le violente manifestazioni che si sono registrate nella regione confinante del Terai a seguito dell’approvazione della prima costituzione repubblicana nepalese, l’India di Narendra Modi ha operato un blocco delle forniture di carburante e altri beni essenziali dallo scorso settembre per esercitare una pressione nei confronti del governo del piccolo stato himalayano. Con ciò volendo tutelare le minoranze di origine indiana che vivono nella confinante regione del Madhesi, sconvolta da scontri che spesso hanno generato vittime.
Il braccio di ferro tra New Delhi – che oltre a tutelare le minoranze indiane, mal tollera il carattere laico e non indù della costituzione – e il piccolo stato del Nepal sembra comunque destinato a cessare, dopo che il parlamento di Kathmandu ha approvato il mese scorso una risoluzione per modificare la carta fondamentale e istituito una commissione cui partecipano tutti i partiti incaricata di ridisegnare i confini distrettuali nepalesi.
Di qui l’ottimismo di K. P. Oli, suffragato anche dal fatto che nei giorni scorsi l’India ha messo fine ai blocchi in alcuni valichi di confine, anche se il principale punto di transito con il Nepal, il ponte di Birganj-Raxaul da cui passa il settanta per cento delle merci, rimane ancora bloccato da una manciata di manifestanti. Mentre i camion che sostano dal lato indiano in attesa di poter partire alla volta di Kathmandu trasportando combustibile e gas da cucina non hanno ancora avuto l’autorizzazione a passare.
Immagini dell’attività del primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli (K. P. Oli) tratte dal suo account twitter @kpsharmaoli
A dire il vero non è nemmeno la prima volta che il primo ministro nepalese si sbilancia a rilasciare dichiarazioni improntate all’ottimismo, essendo poi smentito dalla realtà dei fatti. Che generalmente hanno aggravato in modo drammatico la disastrosa situazione economica del paese, sconvolto da un disastroso terremoto nell’aprile dell’anno scorso. Ma questa volta forse il suo ottimismo non è senza fondamento.
A testimonianza di come il blocco dei trasporti che dura da cinque mesi abbia operato sull’economia del paese, basta ricordare uno studio della Federazione delle Camere di Commercio e Industria nepalese (FNCCI) secondo il quale il danno al settore industriale nazionale è costato due miliardi di rupie nepalesi al giorno.
Sempre secondo la FNCCI, nel settore industriale compreso tra i distretti di Bara e Parsa, il cui capoluogo è appunto il valico di Birganj centro degli scontri più violenti tra agosto e settembre 2015, tutte le fabbriche hanno chiuso, lasciando a casa almeno centomila lavoratori. Un numero che raddoppia su scala nazionale, dove duemila imprese sono state costrette a cessare l’attività.
Una mazzata per un’economia già messa a dura prova dal terremoto, che ha costretto alcune aziende a rivolgersi al mercato nero per approvvigionarsi del combustibile necessario a far continuare la produzione e che ha fatto sì che la maggioranza abbia sospeso ogni attività. Tanto che si stima che la crisi abbia spinto sotto la soglia di povertà circa settecentomila persone, generando un fenomeno inflattivo che ha toccato il 13,4 per cento a Kathmandu e il 10,2 nel Terai. E che tutti gli osservatori economici stimano, al di là di ogni dubbio, in peggioramento.

Povertà a Kathmandu
Un fenomeno che colpisce per lo più le persone a basso reddito e in particolar modo le donne e i bambini, che pagano caro l’aumento dei prezzi per cibo e carburante. Facendo temere che il tasso di malnutrizione che negli anni scorsi il paese aveva saputo abbassare, possa nuovamente crescere a causa della crisi economica.

Kathmandu dall’alto
In altre parole, quel che senza esagerare si potrebbe definire un quadro a tinte fosche. Confermato dai dati pubblicati solo pochi giorni fa dalla Banca Centrale sul periodo luglio-dicembre 2015, che evidenziano come la crisi del blocco delle merci abbia colpito in primo luogo il commercio estero del Nepal e abbia abbassato del venti per cento la riscossione delle entrate, riducendo il reddito di settore dei servizi di quasi il 43 per cento.
Situazione che rende probabile, in mancanza di un’uscita rapida dall’attuale crisi, che il governo non potrà disporre di fondi necessari all’assistenza agli anziani e per le vaccinazioni dei bambini. E se paradossalmente bilancia dei pagamenti, riserve di valuta estera e deficit commerciale migliorano, ciò si deve unicamente all’impossibilità di importare i prodotti essenziali dei quali il Nepal, paese tra i due giganti Cina e India, si deve necessariamente procurare.
Quindi tutto tranne che un risultato economicamente positivo, cui deve aggiungersi l’allontanamento degli investitori stranieri spaventati da cinque mesi d’instabilità politica del paese di cui ora finalmente pare si possa intravedere l’uscita dal tunnel. Grazie alla recente modifica di tre clausole della costituzione che avevano particolarmente infiammato i Madhesi, per quanto il cambio di rotta del governo nepalese non sembra ancora soddisfare le richieste dei ribelli della rivolta del Terai.

Narendra Modi rende omaggio alle forze armate indiane
Non a caso, infatti, la coalizione dei quattro partiti che formano il Fronte Madhesi ha ribadito l’intenzione di continuare con il blocco del confine, annunciando manifestazioni fino al 1 febbraio. Perché se da una parte l’India di Narendra Modi ha giudicato l’introduzione dei cambiamenti nella costituzione nepalese come un’evoluzione positiva, dall’altra ha fatto sapere che conta sul fatto che le altre questioni in sospeso saranno risolte in modo costruttivo. Conseguenza, allentamento sì del blocco e parziale ripresa ei rifornimenti del paese, ma non ancora attraverso lo snodo principale. Il confine di Birganj.
Dato che rimangono, infatti, ancora sul tappeto le richieste dal Fronte Madhesi, quelle delle due provincie federali che comprendono tutta la regione delle pianure meridionali, su cui i tre maggiori partiti nepalesi non sono d’accordo. E su cui la trattativa con i leader dei ribelli è fallita, lasciandoli in pratica fuori dai giochi.
Così si spiega la continuazione del blocco del confine di Birganj da parte dell’India, presidiato da un sit-in ormai poco più che simbolico dei ribelli del Terai. Significativo non solo per il peso economico rappresentato, ma soprattutto per il suo ruolo di monito a Kathmandu. Una sorta di campanello d’allarme. Un invito pressante a risolvere, senza indugi e in modo costruttivo, le ultime questioni rimaste in sospeso con i Madhesi. Come già è negli auspici espressi dal gigante alleato, in attesa appena al di là del confine.

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