Yes, Bernie can, si potrebbe commentare così il risultato dei caucus in Iowa di lunedì, scorso riecheggiando il semplice e celebre slogan della prima campagna presidenziale di Barack Obama del 2008, yes, we can.
In realtà, per capire quel che è successo nello stato del Midwest, sarebbe più appropriato replicare quello slogan proprio come fu formulato allora, perché dietro Bernie Sanders, ancora più che otto anni fa, il we, il noi, è davvero la ragione principale e il motore di questa sua straordinaria affermazione, ancora più significativa perché conseguita di fronte alla poderosa, ricca e sperimentatissima “machine” clintoniana.
Il noi è la grande mobilitazione, giovanile soprattutto, che è dietro il successo di un veterano della politica che, contro i luoghi comuni correnti assurti a leggi inconfutabili, ha condotto e conduce coerentemente e insistentemente una campagna elettorale di sinistra, di una sinistra schietta che per molti aspetti non è più di casa neppure in Europa, neanche in quella di tradizione socialdemocratica a cui pure Sanders si riferisce come modello. Gli elettori democratici hanno dato un chiaro messaggio, sostenendo Sanders: il tema della diseguaglianza ha pesato nella loro scelta come dato primario, con un elettore su quattro all’uscita dal seggio che ha indicato quel tema come il più importante per la nazione oggi.
Certo, il messaggio della lotta alle ingiustizie e alle diseguaglianze, della denuncia di una “economia truccata”, fa leva e suscita entusiasmo anche perché trova in Sanders un consumato e persuasivo “messaggero”. Lunedì scorso, la folla dei sostenitori che l’acclamava l’ha salutato con un corale “we feel the bern”. Andiamo sul dizionario dello slang americano in continuo aggiornamento, l’Urban Dictionary, per tradurre: sentiamo il bern, cioè l’illuminazione della logica e dei fatti di Bernie Sanders.
Con Sanders torna la politica, e vanno in fumo tutte le storie messe in giro dell’antipolitica trionfante, o peggio della confusione alimentata da commentatori ignoranti o in mala fede, anche in Italia, che pongono specularmente sullo stesso piano il messaggio chiaro e, appunto, logico della politica al servizio della giustizia sociale e il populismo demagogico di personaggi inquietanti come Donald Trump che investono miliardi nelle paure e nelle frustrazioni del ceto medio bianco e cavalcano i suoi sentimenti di rivalsa.
L’esito del voto in Iowa rappresenta una “political revolution”, come ha detto Sanders commentando il “virtuale pareggio” ottenuto lunedì nel duello con Hillary Clinton, duello divenuto davvero tale con la definitiva uscita di scena del terzo candidato democratico, Martin O’Malley. Il senatore socialista e/o socialdemocratico, come egli si definisce è andato molto vicino alla vittoria, un obiettivo possibile martedì prossimo 9 febbraio in New Hampshire, seconda tappa delle primarie presidenziali, dove Sanders è avvantaggiato dalla prossimità di questo stato con il suo il Vermont, ed è quello che dicono tutti i più recenti sondaggi che lo vedono in testa su Hillary con un ampio distacco.
In termini di delegati alla convention che si terrà a fine luglio prossimo a Filadelfia, il bottino di Sanders in Iowa è di 21 delegati contro i 23 di Hillary. In New Hampshire sono in palio 24 delegati. Se si pensa ai 4764 delegati che comporranno la convention di Filadelfia convocata per conferire la nomination democratica, il compito di Sanders appare titanico. Basti dire che quasi un quinto dei delegati, 713, lo è di diritto (parlamentari, governatori, alti dirigenti del partito, dirigenti emeriti), e di questi 347 si sono già schierati a favore di Hillary, solo tredici per Bernie. 350 devono ancora decidere, alcuni potranno anche cambiare parere, ma è già ampiamente evidente che l’apparato democratico sostiene decisamente Clinton.
Eppure, come anche accadde nel 2008, proprio questa smaccata potenza di fuoco che esibisce Clinton – unita alla notevole disponibilità di soldi e di reti organizzative locali – può alimentare quel sentimento diffuso nei suoi confronti, della candidata “inevitable”, calata dall’alto, voluta e sostenuta dagli interessi costituiti e dunque imposta alla base elettorale delle primarie.
Sanders diventa così il campione della partecipazione dal basso, incarna una possibile alternativa. Ed è interessante anche per questo il dato dei nuovi elettori, in gran parte giovani, che in maggioranza hanno votato per lui in Iowa.
Psicologicamente è anche importante l’impatto di una partenza ad alta carburazione. Nell’immediato è un altro elemento che scompiglia i piani clintoniani, specie se il risultato positivo in Iowa dovesse essere confermato dal previsto successo in New Hampshire. A quel punto l’aspirazione presidenziale di Sanders sarebbe presa in seria considerazione e non sarebbe più trattata dall’establishment e dai media come l’effimera scommessa di un vecchio politico sostenuto da giovani idealisti. D’altra parte, il circo mediatico è incredibilmente interessato a che la competizione democratica sia una vera corsa e che duri il più possibile.
Sulla sorte di Sanders pesa la sua scarsa presa su blocchi elettorali importanti per il Partito democratico, come quello africano americano e quello ispanico. Inoltre, quando la corsa s’intensificherà e arriverà negli stati che contano davvero in termini di delegati alla convention, il divario di mezzi finanziari e organizzativi nei confronti di Hillary si farà molto sentire.
Naturalmente, conterà nell’orientamento degli elettori democratici, nelle prossime tappe delle primarie, quanto succederà nel campo repubblicano. Chi emergerà determinerà anche in una certa misura la dinamica nella corsa democratica. E viceversa. I due campi s’influenzano reciprocamente. In quello repubblicano, è prima dell’inizio delle primarie, si dava per scontato che Hillary sarebbe stata la candidata democratica e, sulla base di quell’assunto, avrebbe guadagnato più punti chi avesse picchiato più duro nei suoi confronti e si fosse presentato come quello più adatto a sconfiggerla. Anche per questo Donald Trump è cresciuto nei sondaggi, come un perfetto anti-Hillary. La sua esibita misoginia ne è un evidente conferma.
In casa repubblicana, il voto dell’Iowa non ha chiarito il reale stato dei rapporti di forza. Ormai si è talmente abituati a valutare gli esiti delle competizioni sulla base delle previsioni che si considera Ted Cruz il front runner e Trump in caduta. Può essere, c’è anche da fare i conti con Marco Rubio. I tre, nel voto dell’Iowa, hanno superato il venti per cento e sono separati tra loro da pochi punti. Si profila così una corsa a tre, tre candidati nessuno dei quali in sintonia con l’apparato del Grand Old Party. L’unico che potrebbe rientrare nei ranghi ed essere sostenuto è Rubio, ma paradossalmente gli manca l’appoggio del clan Bush. Jeb è fuori corsa, ormai, potrebbe portare sul suo ex-figlioccio, Marco, i suoi voti e soprattutto il suo consistente patrimonio di fondi elettorali, ottenuto quando i potentati vicini al GOP puntavano su di lui. Ma poiché i Bush sono convinti che proprio la candidatura di Rubio sia all’origine della disfatta di Jeb molto difficilmente dirotteranno sul giovane senatore della Florida gli oltre cinquanta milioni di dollari rimasti in cassa per la sua campagna finita in disfatta.
L’inizio di queste primarie – una maratona con altre 25 tornate elettorali in 49 stati che si concluderà a metà giugno – conferma che la crisi delle organizzazioni partitiche, intrecciate in America con la forza dei clan e delle dinastie – abbia raggiunto un punto di non ritorno, aprendo la strada a paesaggi politici inesplorati. Quella che fino a non molto tempo fa sarebbe stata la sfida più ovvia – Clinton-Bush – è già fuori scena. Forse Hillary riuscirà a tenere duro e alla fine a diventare presidente. Ma se questo avverrà sarà non per certi suoi punti di forza legati al potere ma perché alla fine percepita come simbolo di una svolta storica, come donna e, avendo necessariamente fatto propri punti importanti del “berniesmo”, come esponente della sinistra, in discontinuità addirittura con il clintonismo suo e di Bill.
Non sarà tuttavia un riposizionamento facile, il suo, se effettivamente avverrà sotto forma di un significativo spostamento a sinistra. I suoi strateghi, guidati dal veterano John Podesta, adoratore del pesto della Liguria dove sono le sue radici, devono valutare attentamente come strutturare una linea politica che necessariamente deve tenere conto di numerosi fattori, tra loro contrastanti, e non solo quelli ovviamente a breve termine. Se nell’immediato la competizione è soprattutto a sinistra, la centrista Hillary può anche operare spostamenti, anche solo simbolici, per contrastare Sanders sul suo terreno. Ma se la sfida dovesse andare oltre il New Hampshire, e il senatore del Vermont dovesse rivelarsi un osso duro lungo tutto il percorso delle primarie, uno spostamento a sinistra consistente di Hillary fisserebbe la sua agenda e la sua immagine in una collocazione per tante ragioni difficile da tenere, specie se sarà lei poi alla fine la nominee democratica. Di qui alcune mosse tattiche degne di nota, che fanno intuire che cosa intendono fare i suoi consiglieri non solo per contrastare il cosiddetto momentum di Bernie ma anche per prefigurare il percorso dopo il New Hampshire.
Prendiamo la sua posizione a favore delle pena di morte, espressa nell’ultimo confronto con Bernie. Essa è la classica scelta che scavalla il dilemma destra-sinistra, dal momento che riflette un sentire comune trasversale in America mentre quella contraria non va molto oltre le élite liberal. Al tempo stesso, Hillary cerca di rafforzare i suoi legami con i blocchi elettorali che costituiscono le zoccolo duro democratico. Interessante che, nel pieno della campagna elettorale in New Hampshire, abbia deciso di andare a Flint, la seconda città industriale del Michigan, in totale decadenza, e oggi alle prese con l’emergenza terribile di un acquedotto malandato che rilascia piombo, con conseguenze tremende per la salute dei suoi abitanti. Si dà il caso che la popolazione di Flint, set del più bel film di Michael Moore, Roger and Me, sia per oltre il settanta per cento africana americana. L’acqua lurida e velenosa di Flint è il nuovo emblema della condizione intollerabile dei neri americani, perfino più delle ripetute uccisioni di giovani africani americani da parte di poliziotti bianchi.
Il voto africano americano è importante, anche se minoritario. Ancor di più lo è, per consistenza in diversi stati-chiave, quello ispanico. Questi sono elettorari interclassisti, anche se in maggioranza composti da cittadini di reddito basso e medio-basso. Attenti alla questione della diseguaglianza economica posta in agenda da Sanders. Ma anche, ancora di più, alla tutela della propria comunità. Se Sanders, da vecchio socialista, non è il tipo di politico che accarezza gli interessi etnici e comunitari, ma più quelli di classe, Hillary è invece la liberal vecchio stile dentro l’ideologia del partito interclassista, multietnico e multireligioso, il partito “pigliatutto”, la “grande tenda” che cerca di abbracciare tutte le componenti della società americana. Qual è oggi l’ottica vincente?
Inoltre, secondo gli strateghi clintoniani, Hillary deve comunque, soprattutto, tenere la bussola rivolta alle presidenziali, cioè più alla sfida che la vedrà come nominee che a quella immediata delle primarie. In questa prospettiva deve dare per acquisita l’incoronazione democratica, e rafforzare da subito il suo messaggio in rapporto al duello che la vedrà contrapposta a Marco Rubio, considerato il più probabile e il più temibile tra i possibili sfidanti repubblicani il prossimo novembre. Giovane, latino, spigliato. Inconsistente. E potrebbe essere proprio questa sua ultima “virtù” quella decisiva, quella più spiazzante per la veterana della politica democratica. Nel frattempo però c’è il duello con Sanders: hanno ragione gli strateghi clintoniani a considerarlo solo uno sgradevole imprevisto?
L’articolo è apparso su il manifesto del 3/2/2016 ed è stato aggiornato e rielaborato per ytali. il 6/2/2016, h.15.40
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