La militarizzazione del contrasto al traffico di stupefacenti ha fallito. Dopo quarant’anni di intelligence, segrete incursioni armate contro coltivazioni e laboratori di raffinazione, piogge chimiche che ricordano i bombardamenti defolianti dell’ aviazione statunitense in Vietnam, la cocaina è diventata una droga globale e i suoi trafficanti miliardari formano una galassia criminale che avvelena e pone a rischio la democrazia in mezzo continente americano. Ma su entrambe le sponde dell’Atlantico la legalità ha sofferto una sconfitta la cui drammaticità non viene ancora pienamente valutata.
Ammazzato il colombiano Pablo Escobar (il signore dei cieli è ormai un personaggio delle serie Netflix), ne sono nati altri cento nel centro-nord-ovest messicano, tra Acapulco, Tijuana e Ciudad Juárez, ai confini con gli Stati Uniti. Più d’uno è diventato altrettanto se non più ricco e potente dell’inventore del cartello di Medellín. Né meno famoso, come nel caso del Chapo Guzmán dopo la recente intervista a Sean Penn. Accelera inoltre l’espansione dei cartelli peruviani, collegati alla mafia giapponese.

“se mi viene la voglia esco di prigione”, dall’account twitter di El Chapo
L’America Latina ne esce dilaniata: campagne sconvolte e milioni di profughi dalle zone più colpite, come in Colombia; città insidiate e corrotte, dalle favelas brasiliane ai quartieri borghesi di Lima, Buenos Aires e Santiago, per non parlare delle periferie estreme. Ora i governi cambiano tutti strategia. La politica prende il comando, i fucili diventano un’eventualità subordinata.
Il governo del presidente Juan Manuel Santos appare ormai vicino a concludere con uno straordinario successo lo storico tentativo di condurre alla pace la guerriglia delle FARC, che da sessant’ anni mantengono la Colombia in combattimento. Ha intanto avviato la rinegoziazione del piano di aiuti sottoscritto con Washington nel 1999 tra i presidenti Bill Clinton e Andrés Pastrana. “Abbiamo annullato totalmente le fumigazioni aeree, che in concreto sono processi d’intossicazione dei terreni. Se dopo decenni il narcotraffico non è stato debellato, chiunque può comprendere che il sistema non funziona. Di certo ha prodotto più danni che benefici”, dichiara da Bogotà il ministro della giustizia, Yesid Reyes.

I presidenti Bill Clinton e Andrés Pastrana in una conferenza stampa al Rose Garden della Casa Bianca, ottobre 1998
Il governo di Obama ha prima tentato di opporsi a questa svolta. Di fronte alla risolutezza degli interlocutori sudamericani e – c’è da credere -, all’evidenza dei fatti, anche a Washington hanno tuttavia finito per accettarla e adesso mostrano disponibilità a sostenerla non meno di quanto abbiano fatto nell’ultimo decennio con il “Plan Colombia”.
La guerra non è servita a molto, sono necessarie strategie articolate e flessibili. Contenere il fenomeno per poi ridurlo progressivamente. La sua dimensione culturale non è meno importante e difficile da sradicare di quella tossica e commerciale, spiega Bruce Bagley, uno specialista dell’università di Miami.
Per taluni aspetti, l’ultimo mezzo secolo delle rispettive esperienze ha per la prima volta favorito il capovolgimento della dinamica dei rapporti politico-culturali tra Stati Uniti e America del Sud. Con grande cautela ma con altrettanta determinazione, Colorado e Washington stanno introducendo nei rispettivi stati il cosiddetto Modello Uruguay per la produzione e la commercializzazione legali della marihuana. Introdotta in Uruguay dall’ex presidente Pepe Mujica, si tratta di un’iniziativa sperimentale che suscita grandi aspettative.

Pepe Mujica: “Se hai bisogno delle droga per essere libero sei fregato. La libertà è qui, altrimenti non esiste”
A suggerirla è lo stato delle cose: tanto nell’uno così come nell’altro dei due emisferi americani, appare necessario e urgente disincentivare il consumo di droghe pesanti, ridurre i profitti della criminalità, alleggerire il sovraffollamento delle carceri e in generale i costi sociali ed economici delle tossicodipendenze. Tanto più che il narcotraffico commercializza ormai in misura crescente droghe sintetiche. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità richiama – nell’ ordine – l’ attenzione: sull’uso di anfetamine, sull’ abuso di farmaci consentiti, sull’eroina che ha sottratto grandi quote alla cocaina sul mercato dei consumi proibiti.
Diretta dall’ex presidente del Brasile, il sociologo Fernando Henrique Cardoso, la Commissione Speciale Latinoamericana su Droghe e Democrazia, di cui sono membri anche gli ex capi di stato della Colombia, César Gaviria, e del Messico, Ernesto Zedillo, tre personaggi prestigiosi, sostiene a sua volta la rivoluzione strategica contro il narcotraffico. “L’istanza militare deve restare soltanto come un complemento subordinato all’analisi e all’intervento politico-sociale”, ha concluso la Commissione.
L’unanimità che sembra sostenere questa svolta fondamentale per la vita sociale dell’America Latina e – va ricordato – del mondo, considerate le drammatiche conseguenze provocate ovunque dal narcotraffico, non è priva tuttavia di contraddizioni. Alcune iniziative sono decise e coerenti. Altre lo sono meno. Il ministro colombiano Reyes sollecita le Nazioni Unite a promuovere la depenalizzazione delle droghe leggere. Altrettanto auspica il presidente del Guatemala, Otto Pérez Molina, favorevole anche a un mercato legale della marihuana.

Il presidente del Guatemala, Otto Pérez Molina
In Brasile, che con i suoi duecento milioni di abitanti, l’urbanizzazione accelerata e l’aumento del reddito pro-capite degli ultimi anni è diventato uno dei primi consumatori mondiali di cocaina, il Congresso nazionale ha approvato la legge che aumenta le pene per i trafficanti, sostituendo accortamente il carcere previsto per i consumatori con servizi civili obbligatori. In Argentina il nuovo governo presieduto da Maurizio Macri autorizza l’abbattimento degli aerei che sospettati di trasportare droga tentino di sfuggire all’atterraggio forzato. Una legge analoga fu abrogata in Perù in quanto causa di tragici equivoci, in uno dei quali morirono alcuni seminaristi degli Stati Uniti. Per le stesse ragioni forti sono le critiche dell’opposizione anche in Argentina.

Un tweet di Enrique Peña Nieto @EPN del 13 febbraio México se ilumina con la visita del Papa Francisco @Pontifex_es
Il presidente messicano Enrique Peña Nieto, il cui paese subisce effetti tragici per il dilagare del narcotraffico, dice di essere interessato a strategie alternative. Ma agli assassinii succedono gli eccidi, intere provincie vivono in stato d’assedio, i capi narcos corrompono le istituzioni e spadroneggiano apertamente, senza ch’egli e il suo governo abbiano presentato finora un programma concreto d’intervento. Neppure gli amministratori della capitale, Città del Messico, roccaforte progressista di un paese conservatore, hanno proposto una via d’ uscita. Né l’appena conclusa visita del Papa ha fin oggi cambiato le cose.
Accade che sebbene se ne parli ogni giorno, non solo in America Latina l’informazione complessiva sui danni che vanno accumulando il narcotraffico e il consumo di droghe risulta più sensazionalista che pedagogica. Non aiuta quindi a correggere le reazioni per lo più negative delle opinioni pubbliche dei vari paesi, in prevalenza tradizionaliste, a politiche percepite come tolleranti sebbene vogliano risultare solo più efficienti. Mostrando così di essere più conservatrici dei Parlamenti e dei governi che esse stesse hanno eletto. Prevale, insomma, un’idea di rifiuto del problema, che esclude in partenza la ricerca di soluzioni anche soltanto parziali.
La lotta alle droghe viene ancora vissuta da troppe persone come una lotta manichea del bene contro il male. Suddividere la questione distinguendone un aspetto dall’altro secondo criteri utilitaristici, distribuire di conseguenza premi e castighi, scegliere con attenzione e tempismo tra tolleranza e inflessibilità, stabilire regole coerenti: tutto questo sforzo alla maggioranza delle persone appare semplicemente come una resa, spiega John Walsh, un autorevole analista di Bureau Washington- America Latina.
E poiché questa stessa gente ogni qualche anno va a votare, ecco spiegate le incertezze di alcuni politici e le incoerenze di altri. Un caso tutto particolare è poi quello di Evo Morales in Bolivia. Il paese andino produce coca fin dall’epoca pre-colombiana. Coca, non cocaina. Gli indios ancora oggi ne masticano le foglie con un effetto leggermente stimolante, tanto più apprezzato sulle grandi alture andine in cui vive la maggior parte degli abitanti. Morales non solo è originario di una zona di produzione, è stato anche un esponente sindacale dei lavoratori del settore. Di lì comincia la sua carriera politica oggi al suo culmine.
Non ha sorpreso pertanto che giunto alla presidenza abbia licenziato la missione della DEA (Drug Enforcement Administration) che da decenni indirizzava i governi de La Paz nella lotta al narcotraffico. E promulgato una legge che permette ai coltivatori diretti di piantare coca in parcelle delimitate e controllate dallo stato, la cui produzione è destinata al consumo interno tradizionale e all’industria farmaceutica. Ma consapevole che l’ insidia del narcotraffico permane, rifiuta di considerare la legalizzazione anche della sola marihuana.
Nell’immediato la guerra sulle Ande non cessa del tutto. Tende però a diversificarsi, attraverso un’intensificazione della sorveglianza delle fonti e prevalentemente in terapie forzate su distributori e consumatori: dunque soprattutto nelle città. Gli interessi in gioco sono giganteschi: sfiorano i cento miliardi di dollari l’anno, secondo alcune stime recenti (osservatori di fondazioni internazionali e Nazioni Unite). Si tratta di una finanza parallela soltanto all’ origine, poiché poi attraverso i vasi comunicanti delle società fantasma create dal sistema bancario nei paradisi fiscali si rovescia nell’ indistinto torrente che alimenta il mercato degli investimenti.
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