Dallo scorso ottobre Evo Morales si è aggiudicato il primato di durata alla presidenza della Bolivia, superando il record di permanenza al potere che apparteneva al maresciallo Andrés de Santa Cruz (1829-1839). In un paese in passato caratterizzato da un’endemica instabilità politica e da frequenti tentazioni dittatoriali, l’esperimento di Morales, primo presidente di origine indigena, ha avuto la fortuna di essere accompagnato da un boom economico senza precedenti, favorito dalla crescita dei prezzi delle materie prime che il paese esporta.
Ciò ha consentito di realizzare un piano d’infrastrutture senza precedenti che ha puntato a incrementare in primo luogo la rete dei trasporti (autostrade e aeroporti) e ha permesso la nascita di una nuova classe media che può ora contare su un reddito di 3119 dollari, rispetto agli 873 di cui godeva all’inizio dell’avventura di Evo Morales.
Se fin dall’inizio i ricavi della vendita del gas naturale e di minerali hanno consentito di finanziare i programmi di sostegno sociale promossi dall’ex cocalero assicurandogli un poderoso sostegno popolare, il governo di La Paz non è purtroppo riuscito a modificare nel tempo le basi economiche su cui poggia il paese. Tanto più che la mancata diversificazione dell’economia boliviana ha fatto sì che il calo del 32 per cento registrato nei prezzi delle materie prime nel 2015 abbia messo in crisi il modello su cui Morales ha basato la propria azione di governo.
Mettendo in luce la fragilità del sistema da lui realizzato. Senza poter evitare che si producesse una messe di accuse che, oltre a denunciare il controllo della stampa e gli scempi ambientali commessi, lamentano la scarsa trasparenza in fatto di commesse statali e casi di favoritismo nei confronti di persone gradite a Palacio Quemado, sede della presidenza della repubblica.
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Uno di questi scandali ha coinvolto perfino la figura di Evo Morales, accusato nel corso di una trasmissione televisiva dal conduttore Carlos Valverde, di aver avuto un figlio, in seguito morto, dalla giovane Gabriela Zapata nel 2007. Una relazione che pare esser comunque durata almeno fino al 2013. Fin qui nulla di male, sembrerebbe. Solo che Gabriela Zapata risulta essere la direttrice commerciale della cinese CAMC Engineering, che con lo stato boliviano ha chiuso contratti per 500 milioni di dollari stipulati prima del 2013.
Se a ciò si aggiunge che uno dei provvedimenti del governo di Evo riguarda la cancellazione dell’obbligo da parte dello stato di ricorrere alla licitazione pubblica nei casi di affidamento di commesse alle imprese private, il sospetto di poca trasparenza o peggio di favoritismi non sembra peregrina.
Allo scoppiare dello scandalo e alla circuitazione virale nei social networks di foto in cui il presidente veniva ritratto in atteggiamenti affettuosi con la giovane compagna, da parte degli ambienti governativi si è reagito accusando di ingerenza gli Stati Uniti, rei di aver orchestrato il tutto per screditare Morales. Per danneggiarlo in vista del referendum dello scorso 21 febbraio, che avrebbe dovuto modificare l’articolo 168 della Costituzione (CPE) consentendo al leader cocalero di presentarsi per la quarta volta alle elezioni presidenziali del 2019.
Ma i risultati non hanno arriso a Evo, tanto che ai primi exit poll che fotografavano un paese diviso a metà in cui il no al cambio costituzionale prevaleva di poco, il vice presidente Álvaro García Linera si è spinto ad ipotizzare il rovesciamento del verdetto grazie ai dati, il quel momento mancanti, del voto all’estero e di quello campesino. Passando poi a parlare di sostanziale pareggio tecnico nei giorni a seguire, quando i dati dello spoglio affluivano col contagocce dal Tribunal Supremo Electoral. Che alla fine ha assegnato il 51,29 per cento dei voti al no, e il 48,71 ai sostenitori del sì.
Ed è stato solo allora che Evo Morales si è fatto sentire, convocando una conferenza stampa al Palacio Quemado in centro a La Paz, in cui ha ammesso di aver perso sì una battaglia, ma non la guerra. Rivendicando addirittura la bontà del risultato, dal momento che il suo MAS (Movimiento al Socialismo) che precedentemente contava sul 35/40 per cento, ora aveva addirittura allargato il suo zoccolo duro sfiorando quasi la metà degli aventi diritto al voto. Sebbene in campagna elettorale Morales avesse manifestato più volte sicurezza e l’idea che avrebbe vinto con il settanta per cento del consenso. Così non è stato, come si è visto, e il verdetto delle urne ha decretato una sconfitta del presidente boliviano che potrebbe andare ben oltre del suo contingente significato.
E ha invece premiato i fautori del no, che prima del referendum avevano intensificato le accuse di corruzione al governo per il caso del Fondo Indígena che ha coinvolto alcuni dirigenti affini al MAS e portato in carcere addirittura l’ex ministra dello sviluppo rurale Julia Ramos. Scricchiolii minacciosi nel sistema di potere di Evo Morales, che non più tardi di ieri ha dichiarato che del suo successore non si deve parlare fino al 2018, dato che le elezioni sono programmate per l’anno seguente. E ha confermato che il MAS sarà sottoposto a un’attenta analisi tesa a ristrutturare il movimento, in un processo che dovrà porre rimedio ai punti critici emersi in questi anni di potere. Che tutto parrebbe lasciar presagire che potrebbero acutizzarsi nei tre che mancano allo spirare della presidenza Morales, se non si ricorre prontamente ai ripari.
E che soprattutto dovrà mettere al centro della discussione del MAS l’individuazione di una nuova leadership, dal momento che Evo sembra destinato forzatamente ad abbandonare. La storia recente ricorda che una tale prospettiva era già stata vissuta in Venezuela da Chávez nel 2007. Pure lui uscito sconfitto di stretta misura dai fautori del no a una riforma che doveva permettere la sua rielezione. Solo che a lui già l’anno dopo era riuscito di far passare il cambio costituzionale con un 55 per cento di adesioni.
Un esempio, quello di Chávez eletto alla presidenza per ben quattro volte, che forse Morales potrebbe voler imitare, anche se nulla lo lascia presagire al momento. Per suo orgoglio personale, innanzitutto. Ma soprattutto per un vizio congenito che pare colpire buona parte della sinistra latino americana al potere. Ovvero quella sua connaturata incapacità di rinnovare le proprie leadership, che evidenzia una carenza di reale democrazia interna. Intesa come capacità di mettere in discussione e cambiare i gruppi dirigenti, evitando il rischio d’esporsi all’inevitabile e conseguente degenerazione rappresentata dalla corruzione. Di cui la Bolivia odierna, come si è visto, non manca di esempi. Errori in cui Evo è caduto e di cui ha pagato e dovrà pagare il conto.
Una tentazione che ha sfiorato anche il vicino Ecuador, dove lo scorso dicembre l’assemblea nazionale ha approvato una riforma che include la rielezione presidenziale indefinita. Ma dove, almeno fino ad oggi, Rafael Correa ha dichiarato che non presenterà la sua candidatura a essere rieletto. Farà sempre in tempo a cambiare idea. Perché, se da una parte è vero che le leadership di sinistra tendono automaticamente a riproporsi una volta al potere, è altrettanto vero che spesso le alternative, soprattutto quando sono radicalmente neoliberali, potrebbero dare peggior prova di sé una volta giunte al potere. Una constatazione che, unita alla difficoltà di rinnovare le classi dirigenti a sinistra, parrebbe la spinta decisiva a far mettere nuovamente in pista l’usato sicuro.

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