La vita sonnolenta di un paese della provincia palermitana viene sconvolta dall’arrivo di una troupe di cineasti – tra i quali una conturbante Claudia Cardinale e Franco Nero – intenta a girare “Il giorno della civetta” sotto la direzione di Damiano Damiani.
È l’occasione per l’allora bambino Amedeo La Mattina, l’autore de “L’incantesimo delle civette” (edizioni e/o), di riflettere sugli effetti che la scossa produce in tutto il piccolo paese. E soprattutto di accostarsi a una realtà, quella della mafia, che ai suoi occhi era fino allora sfuggita, quasi diluita nel ritmo routinario della vita del paese. Una realtà cui egli si avvicina attratto dalla Cardinale e dal tema del film. Che lo porta alla scoperta di Leonardo Sciascia che gli farà capire l’abnormità del fenomeno mafia a dispetto delle parvenze in cui spesso si appalesa. La molla che lo porterà a reagire avvicinandolo all’impegno politico e a Peppino Impastato. Giornalista politico prima all’Ansa e attualmente a La Stampa, Amedeo La Mattina è al suo esordio narrativo, essendosi dedicato in precedenza alla saggistica con “Mai sono stata tranquilla”, sulla vicenda di Angelica Balabanoff, l’amica che Lenin ha avuto modo di definire “un’indomita moralista”. Questa la sintesi di una lunga conversazione che con Amedeo La Mattina abbiamo avuto sul suo libro e sulla sua terra di origine.
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Amedeo, quale molla spinge un giornalista politico a percorrere le incerte strade della letteratura?
Bella domanda. Intanto un po’ di desiderio di evasione dalla routine giornalistica. Sono quasi ventotto anni che scrivo di politica e mi sono un po’ appesantito. Sentivo il bisogno di scrivere una storia del passato per ritornare a un periodo in cui ero ragazzino e mi sono successe le cose che descrivo nel libro. A cominciare dall’arrivo di questi attori e di Damiano Damiani che venivano a girare “Il giorno della civetta”. Anche se ero bambino, questo evento ha rappresentato un punto di svolta nella mia vita. Alla base comunque c’è questo bisogno di uscire un po’ dal giornalismo politico che è sempre più duro da descrivere e, se vuoi, anche sempre più banale. Potrei dire che è stato un modo di ripulire un po’ il mio cervello dalla politica.
Non è che rappresenta in qualche modo anche l’aver pagato un tributo alla scelta di vivere a Roma e quindi lontano dalla tua Sicilia?
In parte sì, anche se io non provo nostalgia per la Sicilia. Non sono uno di quelli che dicono di voler tornare a vivere in Sicilia da dove manco ormai da trentun anni avendo vissuto a Roma. Anche se non mi sento romano. Mi sento molto siciliano. Direi che forse si tratta di un tributo non tanto alla Sicilia com’è conosciuta, quanto un modo di ricordare un momento di un paese in provincia di Palermo che si chiama Partinico che in quegli anni ’60 ha cercato di svegliarsi e di vivere un momento magico. Che è stato poi represso dalla mafia.
Nel tuo libro descrivi il paese che ha cercato di svegliarsi grazie alla ventata di novità portata dalla troupe. Un benefico sconvolgimento che a molti, di sicuro a te, ha aperto prospettive impensate. Nel tuo caso determinando scelte di vita. Ma, se non ricordo male, vicino a Partinico viveva anche Peppino Impastato.
Nel libro ovviamente Peppino non c’è perché stiamo parlando di epoche diverse. Ma il suo esempio per me conta moltissimo. Era un mio amico, anche se era più grande di me. Quando è stato ucciso aveva trentun anni, io diciannove. Nel ’76 il gruppo politico di cui facevo parte aveva messo su una radio libera che si chiamava Radio Onda Libera. Un anno dopo nasce a Cinisi, il paese vicino, Radio Out che era di Peppino Impastato. Eravamo due radio consorelle, tanto che ci prestavamo dischi, mixer e microfoni. Si faceva politica, e lì ho cominciato a fare il piccolo giornalista. Peppino Impastato è stato per me un maestro. Un leader vero, non solo politico, ma anche di vita. Anche per il coraggio che ha avuto. La definirei una lucida follia che l’ha portato purtroppo alla morte. Che per me è stata una chiave di volta importantissima e che s’incrocia anche con Sciascia che in questo mio libro è fondamentale. E la scoperta della mafia e dei partiti che vogliono appendere sulle corna del popolo le proprie bandiere, mentre la mafia saltella da una punta all’altra sfruttando la situazione. Ecco, sia Sciascia sia Peppino Impastato sono state le molle che mi hanno fatto pensare e poi dire che sulle mie corna nessuno doveva saltarci. Impastato è stato l’incarnazione e la personificazione di questo modo di vivere e di reagire contro la rassegnazione di una Sicilia bella e maledetta.
Come si è trasformato quel mondo che hai deciso di lasciare, dopo aver aperto gli occhi grazie all’arrivo della troupe e di Claudia Cardinale, alla scoperta di Sciascia e al sacrificio di Peppino Impastato?
Ecco, direi che questa è la parte dolente della storia. Perché effettivamente quel mondo è cambiato molto, ma non in positivo. C’è stata sicuramente una reazione positiva, una generazione nuova che ha poi vissuto il dramma di Falcone e Borsellino che ha reagito. Molte persone che vivono nel mito di questi eroi, questi veri uomini d’onore nell’accezione positiva del termine. L’onore vero e l’orgoglio anche morale di voler rompere queste catene che sono state spezzate in parte. La mafia esiste ancora, anche se è stata di molto ridimensionata. Io mi ricordo che da ragazzo quando vivevo a Partinico e poi da ragazzo quando ero a Palermo per l’università, la mafia dominava e uccideva magistrati, poliziotti e politici. C’era un calvario di omicidi. Adesso, anche nei paesi, molti di questi mafiosi o sono morti, o sono in carcere o sono latitanti. Non spadroneggiano più come prima. La mafia ora è molto più “acquattata”, alza meno la testa. Grazie alla storia di Falcone e Borsellino, ma anche grazie alla storia della gente che si è ribellata al pizzo. A Palermo c’è quest’associazione che si chiama “Addio pizzo” che è molto diffusa e ramificata, tanto che ha portato molti commercianti a ribellarsi. Rispetto alla camorra e alla ndrangheta che sono molto forti ed hanno il controllo internazionale dell’eroina e della cocaina, la mafia si è indebolita moltissimo. Non solo grazie alle inchieste. Si è indebolita nel consenso sociale che non è più quello di cui godeva prima. Rimane ovviamente una certa omertà, la mafia continua in ambienti più ristretti e clandestini, ma sicuramente è cambiata. Quello che non è cambiato secondo me è la parte più culturale.
Vuoi dire l’anima?
Ecco, quell’anima …. quella rassegnazione…. Non c’è una reazione politica, o meglio prepolitica, culturale. Non c’è un riscatto vero, non c’è la voglia di dire che noi non possiamo essere sempre quelli che s’aspettano qualche cosa dallo stato, qualcosa dalla regione, qualcosa dal sindaco. Questo aspetto, che con la mafia non c’entra, che ci impedisce di darci da fare in proprio e attendere sempre che qualcosa arrivi dalle istituzioni. Esiste chi gestisce i beni sequestrati alla mafia, chi amministra feudi interi e ha creato aziende. Ma ciò rimane comunque sempre chiuso in ambiti ristretti. In altre parole non c’è quel salto culturale che invece c’è stato in Puglia, dove c’è stata una reazione molto più forte alla Sacra Corona Unita, forse dovuta anche a micro condizioni regionali. Una reazione che si è verificata anche in Sicilia, ma dove è rimasta sempre un po’ strozzata.
C’è speranza in Sicilia?
Secondo me sì. Sono stato in Sicilia a presentare “L’incantesimo delle civette” e ho avuto modo di avere frequenti contatti con molti ragazzi di associazioni che non vogliono lasciare l’isola e che lì vogliono costruire la propria storia. Ti confesso che mi emoziono quando incontro questi ragazzi. Io ho fatto politica per lunghi anni e ricordo che di fronte a noi non c’era solo chi sparava, c’era un muro di gomma della società. Adesso penso ci sia molta più possibilità di cambiare. Ma non bisogna mai aspettare che il cambiamento te lo porti qualcuno da fuori.
Torniamo a “L’incantesimo delle civette”, che ha avuto un successo unanime di critica, è già alla prima ristampa e che ti ha fatto conoscere come narratore. Ci sono ancora progetti letterari nel tuo futuro?
Sto scrivendo una specie di seguito ideale al libro che riguarda la storia di due cinquantenni, un giornalista e un professore universitario, due amici inseparabili che vivono a Palermo. E che sono molto stanchi della loro vita e del lavoro scelto. Non delusi, dato che sono stati baciati dalla fortuna. Ripercorro le loro storie dai tempi del liceo e dell’università. Descrivo con un tono sarcastico e leggero quello che hanno vissuto, e il loro incontro con la mafia. Quando dalla fine degli anni ’70 a Palermo la mafia uccideva prefetti e giudici, commissari e carabinieri. O il presidente della regione Mattarella. Attraverso le vicende dei due personaggi, descrivo la vita della città di Palermo. Come con “L’incantesimo delle civette” ho descritto quella di Partinico. Percorro l’esistenza di queste due persone finché incontrano una donna che rappresenta un lato molto oscuro. E qui c’è come una torsione un po’ giallistica del racconto, in cui questi due scoprono finalmente quel lato oscuro in un’isola del Mar Baltico che si chiama Gotland. In altre parole è un racconto che si svolge per tre quarti nell’isola che è il cuore del Mediterraneo, la Sicilia. E si conclude in un’isola del Baltico. L’opposto.
In “L’incantesimo delle civette” un ruolo importante è assegnato a Claudia Cardinale. A parte quelle che risalgono all’epoca in cui girava il film a Partinico, che relazioni hai avuto con lei?
L’ho rincontrata dopo quasi cinquant’anni a Roma un paio di settimane fa. Lei ovviamente non si ricordava di me né del nome di Partinico, dove aveva girato “Il giorno della civetta”. Quando gli è stato ricordato, ha detto: “Ah sì, Partinico. Com’erano tutti carini e gentili. Addirittura troppo gentili. Quasi asfissianti”. Al che io semiserio ho replicato “Signora lei mi ha rovinato la vita perché mi ha fatto scoprire un mondo differente. Mi ha fatto diventare una persona diversa, facendomi capire che bisognava andare via da Partinico. Per punizione deve leggersi questo libro”. Mi ha guardato sorpresa e per un attimo preoccupata. Finché ho avuto modo di spiegarle tutto e di invitarla alla presentazione del libro a Roma. Questa donna che allora aveva ventinove anni e aveva girato “Il Gattopardo”, “C’era una volta il West” e tanti altri, facendo innamorare di sé tutta l’Italia.
Popolando i nostri sogni e le nostre fantasie con scene indimenticabili.
Già. Poi lei era dotata di una bellezza non eccessiva e non prorompente come quella di Sofia Loren. La sua era una bellezza molto più raffinata. Il suo canto, come scrivo nel libro, mi è sempre rimasto dentro. Sia quello vero, che ho conosciuto, dato che la seguivo ovunque quando era a Partinico. Sia quello che lei è riuscita a rappresentare nell’immaginario collettivo. Nel libro io immagino che Claudia Cardinale mi conosca e che sappia chi io sia. E che mi dica di cercare di essere sempre me stesso. Questa è un’immaginazione che sta nel libro. Nella realtà è una cosa che non è successa. Al tempo del film avevo otto anni. Ma pur essendo soltanto il racconto di quel che mi sono nel tempo immaginato, quell’episodio rappresenta la molla che mi ha fatto diventare prima giornalista. Ed ora, con questo libro, uno scrittore per così dire non professionista.

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