
La poetessa e attivista Maya Angelou (1928-2014, USA) registra la sua poesia “A Brave and Startling Truth” nella sede delle Nazioni Unite (2011)
Arriva con la primavera la Giornata mondiale della Poesia (21 marzo) proclamata dall’UNESCO (World Poetry Day) per diffondere lo studio e l’amore per un genere letterario non sempre adeguatamente diffuso ed apprezzato per le sue potenzialità di disvelamento degli strati profondi dello spirito umano. E del nostro rapporto con noi stessi e con la realtà in cui viviamo. La celebrazione del World Poetry Day è stata decisa nel corso della trentesima sessione dell’UNESCO a Parigi nel 1999.
La Poesia, questa sconosciuta. Nulla di più distante dalla prosa e nulla di più vicino ad una partitura musicale, al linguaggio dell’inconscio, all’arte come astrazione, espressione che non conosce vincoli, filtri della coscienza e barriere. La poesia, spesso quasi ignorata nelle scuole di molti paesi dove viene trascurata o male insegnata. La poesia che è però ben viva in alcune nazioni dove ha una sua antica tradizione radicata nella comune coscienza collettiva e dove ha contribuito a formare lo spirito nazionale e la consapevolezza generale dell’importanza della lingua come elemento identitario di un popolo, di una nazione.
L’esempio della Russia
Così accade in Inghilterra e in Irlanda. Così, soprattutto, accade in Russia. Pushkin, Liermontov, Majakovskij, Bella Achmadulina, Serghiei Esenin. E ancora Anna Achmatova, Boris Pasternak, Ievgheni Ievtushenko. Un firmamento letterario invidiato da altri popoli e coltivato, studiato, insegnato da sempre nelle scuole russe. Così come si dice che in ogni casa russa ci sia un pianoforte, è altrettanto vero che nello zaino di ogni studente di quella che fu la Grande madre Russia c’è un libro di poesie. Una sorta di Vangelo laico dello spirito della nazione.
Se è a volte un’impresa tradurre in altre lingue opere letterarie in prosa, il compito si rivela arduo, se non a volte impossibile, per l’opera poetica. Il detto ‘traduttori traditori’ rispecchia la difficoltà della trasposizione di un’opera in versi sottolineandone l’unicità, la singolarità anche come espressione nazionale.
“Traduttori traditori”? Non sempre
I traduttori in realtà non sono “traditori” come sbrigativamente si sostiene nel tentativo di ridimensionarne il ruolo e le presunte ambizioni. I traduttori si sottopongono anzi ad una fatica improba e a volte quasi impossibile. Se in Italia conosciamo la poesia russa del ventesimo secolo è anche, e soprattutto, grazie all’opera di Angelo Maria Ripellino e alla sua meticolosa opera di cesello di ogni sfumatura della parola per trasferirla nella lingua italiana. Quasi una traslitterazione di frammenti d’anima. Ma il risultato, ovviamente, non è lo stesso che ci si può aspettare dalla traduzione di un romanzo o di un saggio. La poesia tradotta, può essere essa stessa, e spesso lo è, un capolavoro. Ma necessariamente diverso dall’originale. In altri paesi, lo studio della poesia non è così attento e la sua diffusione non così capillare come in Russia o in Inghilterra. Esiste poi un pregiudizio diffuso e non solo in Italia. La parola stessa, ‘poesia’, evoca qualcosa di romantico, di irreale, forse incomprensibile, quasi di femmineo. Esiste insomma una sorta di diffidenza generata anche dalla difficoltà di decrittazione dei profondi significati poetici da parte dei lettori.
Italia, da Dante ai Nobel. Ma Giovanni Giudici.. Chi era costui?
Eppure anche l’Italia è terra di poeti. Di sommi poeti. Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Carducci, Pascoli, Montale, Ungaretti, Quasimodo.
Tutti ricordiamo “la nebbia a gl’irti colli…”,
“quello spirto guerrier ch’entro mi rugge..”
e “il naufragar m’è dolce in questo mare”…
Sono versi entrati nel dizionario identitario del nostro popolo, del nostro Paese, sono la grammatica dell’anima del nostro comune vissuto che peraltro, oggi, ricordano solo i più anziani essendo sciaguratamente venuto meno, nelle scuole, l’obbligo della memorizzazione di questi versi, vere e proprie parole-chiave per entrare in quella dimensione inconscia che è appunto il livello più profondo dell’identità di un paese. Una singolarità linguistico-lessicale ci viene poi dalla Francia dove, come è noto, imparare “a memoria”, si dice “par coeur”.
Ma Giorgio Caproni, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto?
Non sono calciatori, non sono cantanti. Neanche aspiranti attori di serie televisive. Il loro nome è sconosciuto ai più come quelli di Patrizia Cavalli o Biagio Marin. Si salvano, forse, solo Attilio Bertolucci e Mario Luzi. Eppure si tratta di importantissime voci della poesia italiana del ‘900 (per la Cavalli anche del ventunesimo secolo), un secolo che ci ha dato Ungaretti, Montale e Quasimodo, questi ultimi due insigniti del Nobel. E forse, qui, hanno un senso i premi letterari. Far conoscere, far emergere le voci sotterranee di una forma letteraria dimenticata. Così come la televisione che potrebbe avere un suo ruolo, una sua funzione, nel far meglio comprendere quella seconda vita, quella “seconda realtà” (di cui parlava anche André Gide) nascosta nei versi dei poeti, italiani o stranieri. Si prenda il caso di Alda Merini o della Nobel polacca Wislava Szymborska. Poche apparizioni in tv e i loro libri scalarono le classifiche. Ovviamente senza superare le opere del simpatico Fabio Volo…Ma la speranza è l’Ultima dea, l’ultima a morire.

Mario Gazzeri

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1 commento
Splendido articolo!!