Le migrazioni. Il nuovo mondo. Che fare?

LUIGI ZANDA
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dueVenerdì scorso, 8 aprile, al Palazzo dei Trecento (o Palazzo della Ragione) di Treviso, si è svolto un incontro con il presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, organizzato dal circolo del Pd della città e moderato da Guido Moltedo, con la partecipazione del sindaco Giovanni Manildo, dei segretari del Pd cittadino Andrea Michielan e del Pd provinciale Lorena Andreetta, iscritti, cittadini, parlamentari, amministratori, amministratrici, rappresentanti delle categorie. “La sfida dell’immigrazione. Economia, Europa, Mediterraneo“, il titolo del dibattito. Una discussione interessante, suscitata dalla relazione di Zanda, che pubblichiamo di seguito integralmente.

LUIGI ZANDA
In un primo tempo avevo pensato di parlare di quella che è ormai una mia ossessione: il declino del sistema democratico. Anzi della crisi delle democrazie, come dice Sabino Cassese, perché oggi le forme della democrazia sono tante e la loro crisi è comune a tutto l’occidente.

Qualche giorno fa Ezio Mauro ha scritto che stiamo scoprendo terrorizzati che “tutta l’impalcatura – culturale, istituzionale, politica – che ci siamo costruiti nel dopoguerra è entrata in crisi”.

È in crisi persino il presidenzialismo americano con Obama “anatra zoppa” dal novembre 2014, quando ha perso la maggioranza al Congresso. Per di più con la pericolosa avanzata di Trump, personaggio simbolico della nostra epoca che l’Italia ben conosce dopo i venti anni di Berlusconi.

Guardiamo la carta geografica dell’Europa. Innanzitutto cresce la massa dei cittadini che non va più a votare. In molte nazioni europee le percentuali del “non voto” viaggiano intorno al cinquanta per cento.
Sono i delusi, gli arrabbiati, gli indifferenti che non credono più all’utilità della politica e al valore della democrazia.
Ma c’è di più. Sono entrati in crisi i sistemi politici e le architetture istituzionali delle democrazie occidentali.

È in crisi il semipresidenzialismo francese in gravi difficoltà economiche, finanziarie e sociali e con il crescente consenso del radicalismo xenofobo della Le Pen. Neanche il sistema semipresidenziale garantisce più la stabilità.
Dopo la difficile conduzione della presidenza Sarkozy, c’è ora la ridotta popolarità di Hollande.

Il parlamentarismo tedesco dove lo scarso consenso con cui è stata accolta la politica di accoglienza e l’aggressività dei movimenti anti europei hanno molto indebolito la Merkel.
Il parlamentarismo spagnolo che da più di cento giorni, dal 20 dicembre 2015, non riesce a formare un governo mentre i conti pubblici peggiora

La monarchia parlamentare del Regno Unito che si affida a un referendum per decidere l’uscita dall’Europa e per strappare privilegi per i britannici. Piero Ottone ha scritto che non sarebbe mai stato pensabile nulla di simile né con Churchill, né con MacMillan.

Il parlamentarismo italiano con una destra completamente spappolata, il populismo di Salvini e la demagogia distruttiva di Grillo e Casaleggio e un Partito Democratico sulle cui spalle ricade tutta intera la responsabilità del governo del Paese e della stabilità del sistema politico.

Ma non basta. Molti paesi dell’est europeo, a cominciare dalla Polonia e dall’Ungheria, sembrano nelle mani di una nuova destra che arriva a rimettere in discussione la democrazia e a praticare nuovi autoritarismi.
Il Nord Europa, culla della socialdemocrazia, attraversato da pulsioni xenofobe solo pochi anni fa inimmaginabili.

Da questo quadro emerge in modo inequivoco che il mondo sta cambiando molto in profondità e che noi siamo chiamati a fare scelte altrettanto impegnative.
Davanti agli effetti della globalizzazione, alla velocità del progresso scientifico, alla violenza della competizione internazionale, alla rottura del principio della sovranità delle nazioni per l’irrompere nella scena di soggetti irresponsabili come i centri finanziari internazionali, i potenti padroni dei motori di ricerca che operano su scala globale, il terrorismo e la criminalità transnazionali, troppo spesso le democrazie parlamentari che abbiamo costruito si dimostrano non in grado di reagire ai pericoli con l’efficacia necessaria, né di assumere decisioni tempestive sostenute dall’opinione pubblica.
Tornerò su questo punto perché dobbiamo riflettere seriamente sulla profondità e sulla pericolosità della crisi delle democrazie. È la prima ragione della necessità di un Partito Democratico forte.

Per me la radice profonda della nostra riforma costituzionale e della nuova legge elettorale sta proprio nella necessità di far crescere la nostra democrazia, aiutarla a sconfiggere i populismi e gli autoritarismi, metterla in grado di governare con efficacia.

Abbiamo poi considerato l’ampiezza dei problemi e pensato di dare alla nostra conversazione un orizzonte più vasto.
Il tema è quindi cresciuto: la sfida delle migrazioni, la condizione difficile dell’Europa, l’instabilità del Mediterraneo, la gravissima crisi economica. Aggiungerò, cercando di non essere troppo lungo, qualche cenno alla violenza del terrorismo internazionale, alla crisi delle democrazie e al ruolo del Partito Democratico in questa fase e in questa legislatura.

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Una premessa.
Da qualche decennio il mondo si sta trasformando con una densità di eventi e mutamenti mai vista sinora.
Cambiano le politiche delle nazioni, le loro relazioni internazionali, crescono terrorismo e criminalità, cambiano gli istituti giuridici e i sistemi economico-industriali, cambiano le nostre abitudini, cambia persino la nostra testa, cambiano le società.
Nascono problemi nuovi con dimensioni sempre più globali, problemi che attraversano i continenti, e condizionano pesantemente la vita delle nazioni.
Gli storici scriveranno di un lungo e travagliato tempo di mezzo che traghetta una fase storica che fatica a concludersi verso un’epoca nuova ancora sconosciuta.
D’altra parte, se sono entrati in crisi gli imperi, il feudalesimo, il potere delle Repubbliche marinare e poi quello dei Comuni, il potere temporale della Chiesa, le monarchie assolute, può ben accadere che entri in crisi un’altra intera epoca storica e, con essa, un’Europa fatta di nazioni egoiste e immobili.

Vedo tre caratteri di fondo di questa fase di trasformazione.
Una caratteristica sono i tempi.
Viviamo nella complessità e nella velocità, ma il cambiamento determinato dai nuovi fenomeni ha tempi lunghi.
È lunga la crisi economica, lunghi i mutamenti degli assetti sociali, lunga l’azione del terrorismo, lunghissimo il riequilibrio tra il nord e il sud del pianeta.
Il secondo carattere è l’assoluta interdipendenza degli avvenimenti, delle culture, dei fenomeni che, ovunque si manifestino, sono ormai sempre più collegati tra loro.
L’Europa, il nord e il sud del mondo, la crisi economica, le migrazioni, ma anche il degrado delle democrazie, l’emergenza demografica e la tragedia ambientale, le rivolte, il terrorismo e le guerre, tutto è interconnesso in un groviglio di problemi che è diventato molto difficile districare.
Sarebbe miope pensare di poter risolvere questi nodi senza tener conto dei collegamenti reciproci.

Il terzo carattere è il tramonto delle ideologie che ha inciso fortemente sulla qualità della politica.
Sempre più fondamentalismo, populismo, fanatismo, opportunismo, demagogia. Sempre più spesso l’interesse economico prevale sulla politica.
Pensiero, visione a lungo termine, ideali, tutti quei valori che negli ultimi secoli hanno tenuto unite le persone, le hanno orientate, non ci sono più, spariti!

Cosa voglio dire con questa lunga premessa?
Che la soluzione dei nostri problemi non è né facile, né rapida. Dobbiamo tenere i nervi saldi se vogliamo che questo faticoso passaggio storico si risolva con il metodo della pace e non a colpi di guerre e di terrorismo, se vogliamo che porti a tutti più benessere e non più povertà.

È con questo spirito che vengo all’oggetto difficile di questa nostra conversazione.
Da dove conviene cominciare, visto che tutto si tiene, tutto è collegato?
Parto dalle migrazioni anche perché sono proprio le migrazioni a rendere evidente le relazioni profonde che legano insieme i grandi problemi del mondo.
All’inizio del ‘900 il nostro pianeta era abitato da un miliardo e seicento milioni di persone. Alla fine del ‘900 eravamo cinque volte di più, sei miliardi e cento milioni.
Tra ottanta anni saremo il doppio, undici miliardi.
La distribuzione antropica è molto varia, diversa per geografia e tenore di vita. In alcune parti del mondo l’aspettativa di vita è di novant’anni, in altre di quaranta. Molti popoli, là dove le donne fanno al massimo un figlio, sono vicini alla crescita zero. Altre popolazioni producono una media di 6-7 figli per donna.
Nell’Unione Europea il PIL pro capite è di 25.000 euro l’anno. In Somalia di 600 e in Congo di 400.

La straordinaria crescita demografica e i drammatici squilibri economici, più le guerre, le persecuzioni e il terrorismo stanno già determinando, e sempre più determineranno in futuro, grandi spostamenti di milioni di persone.
Noi le chiamiamo migrazioni. Ma siamo davanti a un fenomeno nuovo per dimensioni e per qualità, molto più grande di quel che abbiamo sinora conosciuto. È l’inizio di un grande processo di redistribuzione delle popolazioni del pianeta.
Nei prossimi decenni le masse di popolo che si sposteranno saranno sempre più imponenti.
I grandi spostamenti di popoli determineranno nuovi equilibri sociali tra le nazioni e nelle nazioni.

Sulla base di quali impulsi, di quali motivazioni, tante persone affrontano lunghissimi e rischiosi viaggi, spesso senza neanche sapere bene dove stanno andando e cosa rischiano?

Oggi non si emigra solo per cercare un destino migliore, come gli italiani nell’800 e ‘900. Quelle migrazioni potevano essere regolate, gestite.
Oggi si scappa per salvarsi dalle guerre, per sfuggire alle persecuzioni politiche o religiose, alle epidemie, alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Si parte perché la distanza tra il nord e il sud del mondo è diventata intollerabile.
Le migrazioni dei nostri tempi sono quindi in gran parte incontrollabili. Non possono essere fermate. Se non partiamo da qui rischiamo di fare solo buchi nell’acqua.
Davanti alla crescita demografica, davanti all’evidenza di squilibri così iniqui, come si può pensare che il flusso migratorio possa cessare? Come è possibile immaginare che nel futuro anche prossimo gli spostamenti di intere popolazioni non aumentino a ritmi sostenuti e non durino ancora a lui.

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E quindi che fare?
Quale risposta politica e di governo possiamo dare a un fenomeno di questa portata?
Nel nostro Paese abbiamo ancora da fare per migliorare la gestione dell’accoglienza, ma sotto molti profili, certamente per l’umanità che dimostriamo quotidianamente, possiamo dire che nessuna nazione europea può sostenere d’aver fatto meglio di noi.
Ma, se vogliamo dirci la verità, non si può parlare di migrazioni senza affrontare il tema del futuro dell’Europa.

Per tentare di gestire i grandi nodi del nostro tempo, dobbiamo sapere che l’Europa è l’unica sponda cui appoggiarsi.

Perché senza un’Europa solida nessuna nazione europea può farcela, né rispetto alle migrazioni, né al terrorismo, né alla crisi economica, né alla stabilizzazione del Mediterraneo.
Ormai nell’Europa ci sono anche il destino dell’Italia e le sorti dello stesso Partito Democratico.

Le Monde ha scritto che l’Europa “si sta smembrando, disintegrando, decostruendo, spegnendo”. Padoan ha detto che l’Europa “è deludente”! Altri dicono che soffre di “impotenza strategica”, di “debolezza costitutiva”, “il fantasma dell’Europa”.
Giuseppe Guarino, che ha 94 anni e che è il più grande costituzionalista italiano vivente, giorni fa mi diceva: nel mondo d’oggi l’Europa è l’unico continente che non ha un governo.
Sono parole forti, ma non lontane dalla realtà. Fanno temere che le istituzioni europee che con tanta fatica abbiamo costruito negli ultimi settanta anni, possono declinare, si possono anche rompere.

L’Europa è in crisi per lo stallo del processo di unificazione politica. Incapace di rinnovarsi, ha perso l’idea originaria di solidarietà che aveva ispirato le nazioni fondatrici.
L’atteggiamento dell’Europa nei confronti della crisi economica greca e le barriere costruite da Stati che si illudono di potersi difendere col filo spinato dai flussi migratori, hanno rimesso in discussione lo spirito con cui l’Unione Europea è nata.

Agnes Heller, e non solo lei, ha detto che geograficamente l’Europa è “una piccola penisola adriatica”. È così.
L’Europa ha cinquecento milioni di abitanti, un PIL di 14.000 miliardi di euro, controlla il venti per cento degli scambi commerciali del pianeta, 190 miliardi di esportazioni e 160 miliardi di importazioni, ha il più antico concentrato di cultura e di storia del mondo.

Nel 2015 questa Europa ha ricevuto un milione di migranti. Lo stesso numero del Libano, che però ha solo cinque milioni di abitanti!
Il milione di profughi arrivati in Europa nel 2015 ha creato un caos nei flussi, messo i governi d’Europa in lotta l’uno contro l’altro, determinato una pericolosa crepa al trattato di Schengen, logorato visibilmente le prospettive di ulteriore avanzamento del processo di unità politica.

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La crisi europea è crisi politica. Dovuta essenzialmente all’essersi fermata a metà del guado.
L’Unione non è né Federazione né Confederazione.
I confini tra la sovranità europea e quella dei singoli Stati è incerta, spesso controversa.
Abbiamo una moneta unica, ma le politiche fiscali e di bilancio sono affidate ai governi dei vari Paesi.
Abbiamo soppresso i confini interni, ma non abbiamo pensato a come presidiare con un uguale rigore tutti i confini esterni! Siamo un’Unione senza confini, né interni, né esterni!

La storia dell’Unione Europea è storia di buone decisioni e di grandi errori che vanno riconosciuti e ricordati:
1954 il rifiuto della Francia di aderire all’Unione Europea di Difesa ha pesato molto sulle sorti dell’Europa. Il Trattato che creava una difesa europea prevedeva un sistema militare europeo alle dipendenze del potere politico. Tre anni dopo, nel 1957, il Trattato di Roma ha, sostanzialmente, invertito il rapporto tra la politica e gli apparati comunitari. Larghissimi poteri sono stati affidati alla Commissione e, quindi, ai Servizi tecnici europei;
1998 nascita della BCE senza i poteri di una banca centrale di ultima istanza e senza una vera direzione politica che ne indirizzasse l’azione e la coordinasse con le politiche comuni del continente europeo;
2002 introduzione dell’euro senza unità politica dell’Europa. Una moneta senza un governo politico che la gestisca non si è mai vista nella storia del mondo;
2004 allargamento dell’Unione Europea a 25 (poi siamo diventati 28) senza che precedentemente si fosse definita l’unità politica del nucleo originario dell’UE;
2005 la Francia boccia con un referendum la Costituzione europea;
2007 firma del trattato di Lisbona e attribuzione alla Commissione e alla burocrazia europea di poteri ancora più forti di intromissione nella politica degli Stati senza adeguati contrappesi democratici;
2012 approvazione del fiscal compact senza alcun contrappeso in direzione dello sviluppo!

È evidente a tutti che la rigidità di politiche eccessive di austerity ha portato al blocco dello sviluppo e a un pericolosissimo aumento della disoccupazione.

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Oggi un grande partito di centro sinistra come il Partito Democratico deve occuparsi di riformare le strutture istituzionali, economiche e sociali del proprio Paese. Ma, su tutto, ha un dovere primario.
Prendere in mano la bandiera del completamento dell’unione politica dell’Europa e farne il primo punto della sua azione, della sua cultura, della sua battaglia quotidiana.
Non dobbiamo temere le difficoltà. Costruire l’Europa politica sarà opera lunga e difficile, almeno quanto lo è stata la costruzione delle nazioni europee.
Avremo conquiste, ma anche traumi e sconfitte.
Dovremo occuparci di apparati tecnici, di tradizioni, di culture anche molto diverse tra loro.

Ma dobbiamo farlo, sapendo che anche i nostri problemi nazionali, a partire da sviluppo economico e disoccupazione, da migrazioni e terrorismo, si risolveranno solo se accanto alle riforme interne di cui l’Italia ha bisogno arriveranno nuove politiche europee.

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Torniamo alle migrazioni.
I governi europei sanno perfettamente che i problemi posti da milioni di profughi, rifugiati, persone scampate a guerre, persecuzioni, carestie, sono per loro natura grandi questioni transnazionali che andrebbero affrontate con intelligenza, umanità e lungimiranza.

Lo sanno i governi europei e lo sanno anche quei comuni italiani che si rifiutano di accogliere i migranti.

A quei comuni, anche del trevigiano, che si rifiutano di accogliere migranti a prescindere da chi siano e del perché sono stati costretti a lasciare i loro paesi, a quei sindaci che si rifiutano persino di partecipare alle riunioni del Prefetto, vorrei dire qualcosa e fare una domanda.
Vorrei dir loro che comprendo le loro preoccupazioni e la necessità di rassicurare i propri cittadini, ma al giorno d’oggi nessun comune, nemmeno il più forte e più ricco, può essere governato nel chiuso del proprio orto, senza pensare a quel che avviene fuori, trascurando i doveri nei confronti della comunità nazionale.
E vorrei domandare se pensano veramente di poter affrontare isolandosi un fenomeno biblico come le migrazioni. Non riflettono su cosa potrà accadere ai loro figli e ai loro nipoti se loro, proprio loro, continueranno a pensare di poter governare con la logica dell’isolamento?
Come pensano che l’Europa e l’Italia possano affrontare le difficoltà del futuro senza un lavoro collettivo, senza la testa e il cuore di ciascuno di noi?

I governi ungheresi e polacchi che adottano un autoritarismo miope. I sindaci che non partecipano alle riunioni del prefetto.
Sono illusi di poter risolvere il problema chiudendo le frontiere degli stati e dei comuni.

È come se davanti a un grande fiume in piena, invece di mettersi tutti insieme e cercare di regolamentare la corrente e renderla amica, invece di fare quel che serve e proteggere in modo duraturo e stabile i propri cittadini, i sindaci e i capi di governo, pensando ai loro interessi politici e non ai loro doveri civili, si riunissero sull’argine solo per gridare e aizzare alla protesta!

Tutti sanno che è assolutamente necessario affrontare insieme i problemi che derivano dalle migrazioni.
Ma persino quando i capi di stato e di governo votano azioni comuni, c’è poi chi per egoismo, si sente autorizzato a fare di testa sua.

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Elenco nove punti di possibile indirizzo di una politica europea che sulle migrazioni smetta di giocare in difesa e punti su programmi di medio periodo.

1. La priorità è mettere un minimo di ordine nei flussi migratori. Aiuterebbe molto i Paesi più impegnati nell’accoglienza, a cominciare dall’Italia e dalla Grecia.
2. Bisogna impostare la politica europea nei confronti dei migranti su impegno organizzativo e finanziario che privilegi una linea di accoglienza avanzata nei paesi che ricevono il primo impatto dei rifugiati: Grecia, Italia, Turchia.
3. Dobbiamo imparare a distinguere meglio tra i profughi, che hanno bisogno di una protezione internazionale immediata, e i migranti per motivi economici o ambientali.
4. Bisogna decidere come suddividere in maniera più equa il carico dei rifugiati. Il Libano ospita un milione di profughi, la Turchia duemilioni e settecentomila.
5. I governi europei debbono stabilire con i paesi in via di sviluppo dove ha origine il flusso dei migranti, dei rapporti che vadano oltre le semplici politiche di immigrazione. I casi di successo in Europa sono fondati su relazioni bilaterali di lunga e profonda tradizione: tra la Gran Bretagna e il Pakistan, tra la Spagna e il Marocco, tra l’Italia e la Tunisia.
6. Bisogna intensificare gli scambi commerciali come leva diplomatica soprattutto con i Paesi che dipendono dalle rimesse dall’estero.
7. Bisogna aprire nuovi canali per favorire l’immigrazione legale.
8. Bisogna favorire l’accoglienza di paesi europei che sinora hanno fatto poco, per esempio la Gran Bretagna.
9. Bisogna favorire l’accoglienza dai paesi ricchi sinora poco considerati dal flusso migratorio. Per esempio Canada, Australia, Stati del Golfo.

Guardiamo al Mediterraneo.
È coerente con lo spirito dell’Unione Europea la decisione di Francia e Gran Bretagna di intervenire unilateralmente e militarmente in Libia? È degno dell’Europa attaccare la Libia, contribuire alla cacciata di Gheddafi e poi disinteressarsi delle conseguenze?

Guardiamo alla crisi economica.
È coerente con lo spirito dell’Europa il rifiuto di intervenire sin dall’inizio in soccorso della Grecia quando sarebbe bastato molto poco per salvarla dal fallimento?

È coerente con lo spirito dell’Europa non accorgersi che la crisi economica non si potrà mai battere con la sola austerità e senza politiche per lo sviluppo e l’occupazione?

È coerente con lo spirito dell’Europa chiudere gli occhi davanti al quotidiano aumento del debito pubblico di tutti, dico tutti, gli Stati europei? Oggi nessuna grande nazione europea, nemmeno la ricca Germania, ha un debito pubblico inferiore al 60% del PIL prescritto da Maastricht!

Lo ripeto. La politica europea, l’obiettivo del superamento dell’attuale Unione di Stati e della realizzazione di una vera Unione politica, realmente democratica, solidale, consapevole dei pericoli di un suo spappolamento, deve essere oggi il cuore delle politiche dei partiti democratici e socialisti europei.

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A questo punto voglio fare qualche osservazione su di noi, sul Partito Democratico, perché oggi la nostra responsabilità è grande.
Grande in Europa, dove siamo il Gruppo più consistente e dove rappresentiamo il numero maggiore di elettori.
Grande in Italia, dove siamo in Parlamento l’unico, vero partito politico presente e dove, col nostro voto e con le nostre iniziative, stiamo dando continuità non solo all’azione del governo, ma anche alla legislatura.

In un vecchio scritto di Umberto Eco ho trovato un passaggio che può aiutarci a capire perché dall’inizio di questa legislatura il PDL si sia diviso in quattro pezzi, i grillini abbiano perso 19 senatori su 54 (sono 35!), persino la Lega Nord si sia spaccata con l’uscita di Tosi.
Ed anche perché il dibattito interno al Partito Democratico assuma spesso toni che non condivido.

Sentite cosa scriveva Umberto Eco:

Anni fa a New York sono capitato con un tassista dal nome di difficile decifrazione e mi ha chiarito che era pakistano. Mi ha chiesto da dove venivo e gli ho detto dall’Italia. Mi ha chiesto quanti siamo ed è stato colpito che fossimo così pochi e che la nostra lingua non fosse l’inglese.
Infine mi ha chiesto quali sono i nostri nemici. Al mio “prego?” ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno. Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l’ultima guerra l’abbiamo fatta più di mezzo secolo fa, e tra l’altro iniziandola con un nemico e finendola con un altro.
Non era soddisfatto. Come è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici? Sono sceso lasciandogli due dollari di mancia per compensarlo del nostro indolente pacifismo, poi mi è venuto in mente cosa avrei dovuto rispondergli, e cioè che non è vero che gli italiani non hanno nemici. Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d’accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro: Pisa contro Lucca, guelfi contro ghibellini, nordisti contro sudisti, fascisti contro partigiani, mafia contro stato, governo contro magistratura – e peccato che all’epoca non ci fosse ancora stata la caduta dei due governi Prodi altrimenti avrei potuto spiegargli meglio cosa significa perdere una guerra per colpa del fuoco amico.

Fine della citazione.

Naturalmente, l’espressione “fuoco amico” è ben utilizzata parlando della guerra. Ma è sbagliata per le vicende della politica.
Lo scritto di Umberto Eco spiega bene un nostro carattere nazionale molto antico, che si perpetua ancora oggi. Spiega perché, anche in politica si può perdere per non saper restare uniti!

Tutto questo non era immaginabile alla luce della storia delle formazioni politiche del centrosinistra del Novecento, quando c’erano l’intelligenza strategica di De Gasperi e Moro, la lucida difesa del pensiero liberale e socialista dei fratelli Rosselli, di Gobetti, di Nenni, Pertini, Parri, Giolitti, il coraggio innovatore di Gramsci e di Berlinguer.
Tutte queste storie, separate e imprigionate dalle ideologie e dai blocchi, una volta liberate dalla caduta dei muri, avrebbero dovuto rimuovere l’anomalia di aggregazioni spurie (nei partiti e nei governi) e ritrovarsi, finalmente, insieme.
Invece, abbiamo assistito a un accavallarsi di processi di unità e di disgregazione. Spesso conclusi con la prevalenza delle divisioni sull’unità.

Il punto è che solo i grandi partiti, con forti radici popolari, possono tenere salde le nazioni e i grandi partiti non si inventano.
Si possono inventare partiti padronali, partiti-avventura, partiti demagogo-populisti.
Non si possono inventare le radici di grandi partiti popolari. Per farli serve tempo, pensiero e buon capitale umano.

Non considero negativamente l’incalzante e vivace azione della nostra minoranza interna. Anzi. Il Partito Democratico ha bisogno di discutere, anche con forza.
Per il nostro Partito sarebbe un danno molto serio se venissero a mancare il dibattito, la lotta politica, la spinta delle minoranze, se mancassero la competizione interna, le battaglie per la guida del Partito.
Ma le premesse di un buon dibattito sono due. Il reciproco riconoscimento e la qualità della discussione.
La guida di un partito che voglia essere democratico deve essere contendibile. Nel Partito Democratico è stato così con Veltroni, Bersani, Renzi.
Tra un congresso e un altro, maggioranza e minoranza, senza rinunciare ad essere se stesse, debbono saper trovare il modo di concorrere a rafforzare la causa comune, vincere le elezioni, affrontare le battaglie in Parlamento.

La lotta politica deve essere confronto di idee, di pensiero, di strategia politica.
Il leader che ho più ammirato è Aldo Moro. La sua corrente aveva meno del cinque per cento del suo partito. Ma con le sue idee, la sua proposta politica aveva conquistato l’egemonia politica dell’intero arco costituzionale!

Dentro il Partito Democratico il confronto deve vertere sulle grandi questioni del nostro tempo: su austerità e sviluppo, sull’unità politica dell’Europa, sulla democrazia delle nostre istituzioni, sulle migrazioni, sulle politiche industriali, sulla sicurezza interna e sulla difesa, sulla ricerca scientifica, sulla Libia e sulle nostre missioni internazionali.
È su questi temi che debbono discutere maggioranza e minoranza in un partito di governo nell’Italia del 2016.
E poi, lasciatemelo dire, la sede del dibattito interno è il partito, non l’aula del Parlamento con discussioni tra compagni di partito su procedure e su emendamenti.

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Come vedete, realmente tutto si collega.

C’è un punto politico molto forte che tiene insieme il processo di unità politica dell’Europa, la necessità di uscire da una crisi economica che se non dominata può diventare secolare, l’urgenza per l’Europa di convergere in una strategia comune per la gestione del fenomeno migratorio e attuare serie politiche di contrasto al terrorismo.

Il punto politico ineludibile è che viviamo fenomeni epocali, non governabili e nemmeno contrastabili sul piano interno senza una forza politica adeguata, senza una democrazia viva e decidente e, sul piano europeo, senza un’Unione europea politicamente e democraticamente unita.

Il maestro Giorgio Pavan e l’orchestra dei giovani talenti Classiche Angolazioni prima dell’inizio del dibattito

Le migrazioni. Il nuovo mondo. Che fare? ultima modifica: 2016-04-11T22:39:38+02:00 da LUIGI ZANDA
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