
Yahya Zanolo
Da più di vent’anni la Comunità religiosa islamica italiana (CO.RE.IS) opera in Italia con una scuola per imam, tutti di origine italiana, e gestisce la moschea Al-Wahid, riconosciuta come luogo di culto dal Comune di Milano fin dal 2000, dove gli imam recitano la preghiera del venerdì. Concentrando la sua attività sull’educazione, sulle pubblicazioni, la rappresentanza istituzionale e sul dialogo interreligioso, la COREIS collabora con altre comunità e centri islamici italiani ed è presente su tutto il territorio nazionale. Rappresentante del triveneto è l’imam Yahya ‘Abd al-Ahad Zanolo, al quale abbiamo rivolto alcune domande circa le problematiche del mondo islamico nel nostro Paese.

Moschea Al–Wahid di Milano
Come COREIS avete partecipato alle celebrazioni dei 500 anni del Ghetto di Venezia. Quali riflessioni vi ha suscitato l’esperienza di segregazione degli ebrei?
È stata innanzitutto un’occasione per consolidare i rapporti di amicizia che ci legano da molto tempo con la comunità ebraica italiana, sia con il rabbinato sia con l’Unione delle Comunità ebraiche. Ma è stata anche un’occasione di riflessione sui significati che la parola ghetto può assumere nella realtà contemporanea. Com’è stato ben detto da Renzo Gattegna, presidente dell’UCEI, e da Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress, non si tratta di festeggiare o di celebrare nulla, ma di un’occasione per ricordare un’esperienza che è stata storicamente negativa, nella consapevolezza che potrebbe proporsi ancora nella realtà contemporanea.
Sta forse pensando alla nuova legge regionale del Veneto che è stata non a caso battezzata anti-moschea?
Non ho avuto modo di leggere la nuova norma che non è ancora stata pubblicata sul sito della Regione Veneto. Tutto quello che le dico proviene quindi dalle informazioni che ho potuto desumere dalla stampa. L’impressione è di una certa preoccupazione. Soprattutto se invece di facilitare l’integrazione e la necessaria regolamentazione dei luoghi di culto di qualsiasi religione, e in particolar modo dell’Islam che non è ancora riconosciuto in Italia, con un eccesso di regolamentazione si favorisce la nascita di nuovi ghetti e di separazione dei punti di aggregazione e di rappresentanza islamica. Se le zone F di cui parla la norma sono nella maggioranza dei casi in periferia ciò rispecchierebbe una volontà di mettere ai margini l’Islam, anziché promuovere un’integrazione come già avviene nella maggioranza delle legislazioni in Europa. Dove non si può dire che sia tutto rose e fiori, ma dove per esempio esiste una moschea in centro a Berlino che risale agli anni ’20 del secolo scorso. Per non parlare della Francia, dove le moschee sono ovunque. Non voglio dire che l’esistenza delle moschee siano l’unico elemento determinante per l’integrazione o meno, dato che gli aspetti su cui ci si misura sono molteplici e più ampi. Tuttavia, se la costruzione di nuovi centri di cultura islamica sono permessi solo fuori delle città, temo che questo possa favorire il proliferare di zone d’ombra, l’esatto contrario di quello che ci si dovrebbe proporre.

Moschea Al-Wahid. Una lezione agli allievi di una scuola elementare per il progetto: “Dentro la Moschea”
In Italia la confessione islamica non è riconosciuta dallo Stato. In passato i governi di Romano Prodi e poi di Massimo D’Alema avevano avviato un processo che avrebbe dovuto portare a un riconoscimento, ma la cosa non ha poi avuto seguito. Lo Stato italiano riconosce ben undici confessioni religiose, anche numericamente trascurabili rispetto alla comunità islamica che è composta di un milione e trecentomila fedeli. Aggiungo che un eventuale riconoscimento potrebbe anche aprire la strada all’ammissione dell’otto per mille e quindi a una sorta di finanziamento pubblico del culto islamico. Secondo lei, quali sono le ragioni per le quali non si è ancora giunti a un accordo?
Una legge di riconoscimento dell’Islam darebbe prima di tutto dignità a quella che è la seconda religione in Italia. Una cosa che già esiste in tutte le nazioni europee. Ma permetterebbe anche di regolamentare tutti gli aspetti dei rapporti tra comunità islamica e Paese, quindi sia i luoghi di culto che probabilmente sono quelli che oggi interessano di più per la loro forza mediatica. Sia tutto quello che interessa la vita quotidiana di tutti i musulmani. Le faccio qualche esempio. Dalle mense nelle scuole per avere la possibilità di fruire di cibo preparato secondo le norme islamiche, ai cimiteri, alle feste come accade negli altri stati europei e già in Italia per le confessioni che hanno sottoscritto un’intesa. Al mese di ritiro e digiuno del Ramadan. Vorrei ricordare che la COREIS ha presentato una proposta d’intesa addirittura nel 1998, proponendo allo Stato delle soluzioni pratiche per regolamentare tutti gli aspetti della vita quotidiana.

I festeggiamenti per l’ultimo giorno di Ramadan, presso Parco Catene, Marghera (http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2015/07/17/news/migliaia-di-musulmani-in-preghiera-per-la-fine-del-ramadan-1.11791801)
E come mai non si è arrivati ancora a un accordo?
Da un lato la comunità islamica italiana è ancora giovane rispetto alle comunità esistenti in altri stati europei e c’è di sicuro una necessità di maturazione. Lei prima citava i governi Prodi e D’Alema, ma la prima consulta per l’Islam è stata promossa ancora nel 2005 dal governo Berlusconi e dal ministro dell’Interno Pisanu, che ha fatto tutto un lavoro che ha aiutato l’emergere di associazioni affidabili. Ma se alla fine manca la volontà politica… Non si può pretendere che l’Islam si trasformi e diventi quello che non è mai stato nella storia diventando un’unica istituzione con un unico rappresentante. Questa è una peculiarità soltanto della Chiesa Cattolica. Il punto è: i politici italiani hanno o no il coraggio e la volontà politica di selezionare e di scegliere quelle comunità islamiche che nel corso degli ultimi decenni hanno dimostrato affidabilità, trasparenza, competenza, capacità di mediazione? È questa la domanda che ci dobbiamo porre. Non si può ogni volta tirare fuori le solite scuse sulla sicurezza, sull’integrazione o sul fatto che non esiste appunto un referente unico. In questo modo si andrà avanti all’infinito. Anche alla luce delle difficoltà e dei problemi che sono emersi nell’ultimo anno, con i pericoli che conosciamo tutti, ci vorrebbe una volontà maggiore di riconoscere le comunità affidabili che certamente esistono guardando la storia dell’Islam in Italia.
Nel 2006 la moschea al Wahid è stata il primo luogo di culto islamico a Milano a ricevere la visita della comunità ebraica guidata dall’allora presidente dell’Assemblea Rabbinica d’Italia, rav Giuseppe Laras e dal rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib (fonte http://www.coreis.it/13/moschea.php)
Ma spesso accade che le comunità islamiche presenti in Italia facciano riferimento al paese di origine, e questo di sicuro può rappresentare un ulteriore problema.
Direi che è vero fino ad un certo punto. Ci sono per esempio associazioni di pakistani, turche o marocchine, con cui come COREIS abbiamo rapporti, che sono connotate anche dal punto di vista del paese di origine. Ma il lavoro che è stato fatto negli ultimi anni è andato nel senso di creare una rappresentanza che non abbia dipendenza da paesi esterni o che ne subisca influenze e ingerenze. In questo senso la COREIS rappresenta i musulmani italiani e non fa riferimento ad alcun paese esterno, ed essendo italiani abbiamo proposto da sempre le prediche dei sermoni in italiano. Che poi è un aspetto positivo della nuova legge della Regione Veneto, in mezzo ai molti aspetti negativi messi in luce anche dal Patriarca di Venezia Moraglia quando ha detto di separare i centri commerciali dai luoghi di culto. Mi sembra un’osservazione molto giusta di Moraglia, con il quale eravamo assieme, tra l’altro, alla celebrazione dei 500 anni del Ghetto.
Moschea Al-Wahid. Lo Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini con una delegazione di musulmani malesi appartenenti ad un ramo della confraternita islamica sufi Ahmadiyyah Idrissiyyah Shadhiliyyah(fonte http://www.coreis.it/13/moschea.php)
Nel recente meeting sull’Islam in Europa svoltosi nei giorni scorsi a Berlino, lei ha chiesto una maggiore cooperazione e riconoscimento dell’Islam autentico rispetto all’Islam politico. Mi vuol spiegare meglio il suo pensiero?
L’Islam politico è una forma recente, creata soprattutto nel ‘900, come reazione al colonialismo e al post colonialismo dopo il crollo dell’Impero Ottomano; una forma di “islamismo” dunque che corrisponde a dei movimenti di per sé politici che rappresentano una forte scissione e cesura con la secolare tradizione islamica, ponendosi spesso in netta contrapposizione ad essa. Dell’Islam sfruttano solo il linguaggio e alcuni simboli mal interpretati per fare presa sulle popolazioni. La prima volta in cui è stato usato il termine jihad nel senso in cui viene utilizzato adesso, deve essere fatta risalire all’Impero Asburgico, la cui propaganda durante la prima guerra mondiale si rivolgeva alle masse dell’Impero Ottomano attraverso alcuni orientalisti al fine di convincerle a scendere in guerra a fianco degli Imperi Centrali. Ed è stata la prima volta che il termine jihad è stato usato appunto in modo totalmente scollegato dalla tradizione islamica, sia dal punto di vista storico che dottrinale. Ciò per dire che i movimenti dell’Islam politico contemporaneo sono fenomeni completamente nuovi sia sul piano storico sia su quello dottrinale. E rappresentano una degenerazione, soprattutto dopo la fine dell’ultimo Califfato Ottomano, molto pericolosa come possiamo vedere nell’Isis.
Anche perché l’Islam non si è storicamente fondato sulla territorialità, ma sul dibattito teologico e sapienziale. E ne consegue che i fautori dell’Isis sembrerebbero contraddire addirittura la storia su cui poggia tutta la civiltà musulmana. O mi sbaglio?
Lei non si sbaglia per nulla, ed è una cosa riconosciuta da tutte le comunità islamiche ortodosse. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale si sono formati vari movimenti politici di carattere postcoloniale e panarabo con motivazioni prettamente di potere, di guerra, di unione dei popoli arabi, revanscisti nei confronti dell’Occidente. Con lo scopo di creare dei territori unici, o di ricreare sedicenti Califfati. Neanche al tempo dei veri Califfati, parlo di quello Omayyade o Abbaside, l’unità del mondo islamico, della Umma, si basava sul punto di vista territoriale unico, come invece vorrebbero gli attuali pseudo califfi. Ma si basava invece sulla rete sapienziale e sulla ricchezza e diversità d’interpretazione dei testi sacri, pur sempre all’interno dei paletti dell’ortodossia. Questo ha tenuto unito il mondo islamico, dalla Spagna, al Marocco fino all’Indonesia. È stata questa rete sapienziale di scambi da Damasco a Fez, al Cairo, a Baghdad, a Samarcanda, a Delhi a tenere insieme questo mondo che non è mai stato, in tutta quest’ampiezza, unito politicamente. Mai. Solo nei primi decenni c’è stata un’unità vera e propria anche in questo senso, e forse poi in misura minore solo fino al primo periodo della dinastia califfale abbaside. Quello che viene proposto adesso è pertanto qualcosa di assolutamente nuovo rispetto alla stessa tradizione dell’Islam. E i fondamentalisti li riconosci subito perché operano una cesura con la tradizione, e non fanno la prima cosa che tutti i sapienti musulmani hanno sempre fatto, ovvero rifarsi ai sapienti precedenti. Pensano di ricreare loro, come i salafiti che derivano il loro nome da salaf, purezza, un nuovo Islam. Il che è poi molto simile alle ideologie che hanno percorso l’Europa nel ‘900. La creazione di un mondo nuovo, puro, paradisiaco, tipico dei fascismi e dei nazismi del secolo scorso. Il fondamentalismo islamico non è altro che questo, solo che purtroppo strumentalizza anche i testi sacri di una religione.

L’interno della moschea di Roma
Le pare giunto il momento di riconoscere reciprocamente la validità salvifica di ogni rivelazione ortodossa?
Nell’Islam questo c’è sempre stato. All’interno dello stesso Corano vengono riconosciute le religioni precedenti, nel senso che si dice che ebraismo e cristianesimo hanno origine da Dio e sono confessioni salvifiche. In altre parole se uno rimane ebreo o cristiano per l’Islam si salva, la sua religione è efficace. Ci sono molti versetti coranici in cui i musulmani sono invitati a proteggere le rivelazioni precedenti. Se prevale una forma di esclusivismo, se prevale chi crede che la propria religione sia l’unica salvifica e autentica mentre gli altri non si salvano, abbiamo il prodromo da un punto di vista ideologico di ogni forma di radicalismo. Parte da qui. Poi le motivazioni politiche s’inseriscono. L’errore è pensare la propria religione non più come un mezzo ma come un fine stesso, e idolatrarla. Quindi non adorare più Dio, ma idolatrare la propria religione, o meglio sé stessi e la propria interpretazione. Per cui chi non è d’accordo, nei peggiori dei casi, viene eliminato. Non è poi un caso che la maggior parte delle vittime del radicalismo siano i musulmani stessi.
Una delle critiche che il mondo occidentale rivolge spesso all’Islam è la sua concezione dei diritti delle donne. Lei è nato in un paese europeo e conosce bene quello di cui sto parlando. Pensa che queste posizioni che l’Occidente può considerare arretrate e discriminanti possano in qualche modo essere riconsiderate nel tempo e quindi riviste se non abbandonate, oppure le ritiene essere una costante non soggetta a cambiamenti?
Ci sono casi in cui la religione viene strumentalizzata e che riguardano situazioni assolutamente intollerabili di maltrattamento di donne. Ma grazie a Dio non riguardano tutta la comunità islamica. Nessuno vuol negare che ci siano delle zone d’ombra, delle zone grigie anche dell’Islam in Europa. Ma nella stragrande maggioranza dei casi si accettano la dimensione della vita di coppia e il rapporto uomo donna secondo i principi autentici dell’Islam. I quali non prevedono nessuna sottomissione nel senso di superiorità individuale dell’uomo sulla donna che gli dia l’autorità di mancarle di rispetto. Questo è negato da tutta la tradizione islamica. Posso anche aggiungere che è auspicabile che l’Islam europeo possa diventare un esempio a livello internazionale su questo tema. Di maggiore e sempre più proficua integrazione tra i valori della civiltà occidentale e europea e quelli della spiritualità e della religiosità. Stiamo lavorando a questo, e speriamo che dalle istituzioni italiane possa venire un segnale autentico e sempre più concreto in questo senso.

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