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Registro solo un punto del dibattito televisivo fra Hillary Clinton e Bernie Sanders, quello che si è svolto a Brooklyn l’altro giorno, in vista anche delle primarie di New York di domani martedì 19 aprile. Un dibattito nervoso in cui le tensioni e le animosità fra i due contendenti e i loro sostenitori nel pubblico sono ormai evidenti: non raggiungono la violenza verbale di certi dibattiti repubblicani, ma le cortesie a denti stretti di qualche mese fa sono un ricordo.
Il punto è il lungo scambio di battute sulla questione israelo-palestinese. Si tratta di un fatto assai rilevante. Il semplice riconoscimento dell’esistenza politica dei palestinesi è abbastanza una novità nei dibattiti elettorali presidenziali, in cui, in genere, si fa a chi giura di più su Israele ed è chiusa lì. A introdurre il tema e a estenderlo, e quindi a estendere il discorso sull’intera faccenda, è stato proprio il vecchio ebreo Sanders (non che abbia la minima idea di come risolverla, la faccenda: “non è facile, Dio solo lo sa”).
Bernie ha detto di essere (anche lui) “pro-Israele al cento per cento” ma che questo non significa essere sempre d’accordo con il governo israeliano, con il primo ministro Netanyahu, tanto per non fare nomi. Ha detto che Israele ha diritto di difendersi dal terrorismo ma che la reazione contro Gaza l’anno scorso è stata sproporzionata. Ha detto che bisogna “trattare il popolo palestinese con rispetto e dignità” e che il governo degli Stati Uniti dovrebbe avere un ruolo imparziale (“even-handed”) nel conflitto.
È stato aggressivo nei confronti di Clinton:
“Hai fatto un importante discorso alla conferenza dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee], che ovviamente tratta con la crisi medio-orientale, e praticamente non hai neanche nominato i palestinesi.”
Hillary è stata costretta a giocare di rimessa, alla fine anche a sbilanciarsi un po’. Dapprima ha cercato di far pesare l’esperienza, il pragmatismo, il suo diretto coinvolgimento da segretario di Stato (“Ho negoziato il cessate il fuoco fra Israele e Hamas nel novembre 2012”). Poi ha ammesso che i suoi colloqui privati con Netanyahu non sono sempre stati felici. E che, in privato, non è mai venuta meno la sua attenzione per il diritto all’auto-determinazione dei palestinesi, per la two-state solution.
Non ha rinunciato a difendere le imprese di famiglia:
“Se Yasser Arafat avesse acconsentito con mio marito, a Camp David alla fine degli anni novanta, all’offerta messa sul tavolo dall’allora primo ministro [israeliano] Barak, avremmo avuto uno stato palestinese da quindici anni.”
Sanders avrà fatto i suoi calcoli elettorali, nel parlare di queste cose? Avrà pensato a come possono risuonare con l’elettorato newyorkese, in particolare con quello ebraico, assai numeroso? È un terreno delicato, pieno di trappole, e Bernie lo sa bene, ne sta già pagando qualche prezzo. Proprio poche ore prima del dibattito la sua campagna elettorale ha sospeso dall’incarico una collaboratrice appena assunta come director per i rapporti con la comunità ebraica. Per ragioni, diciamo così, diplomatiche.
La giovane donna, Simone Zimmerman, ebrea lei stessa, è criticissima del governo israeliano, dell’occupazione e degli insediamenti nella West Bank. Naturalmente questo lo si sapeva già. Ma la situazione è precipitata quando è emerso un suo post su Facebook dell’anno scorso in cui dà pubblicamente dell’asshole a Netanyahu e lo manda a quel paese. Il post è stato poi corretto alla meglio, ma la prima versione è stata salvata nella memoria inesorabile della rete e la riporto qui sotto.
E questa, comunque la si voglia mettere, non è buona diplomazia.

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