Referendum costituzionale. Il no dei 56 che illumina le ragioni del sì

GIOVANNI INNAMORATI
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Anche chi giudica positivamente le riforme costituzionali approvate dal parlamento il 12 aprile scorso, dovrebbe essere grato ai 56 giuristi che il 22 aprile hanno diffuso un Appello per il “no” al referendum confermativo di ottobre. Infatti, mentre il Comitatone guidato da Alessandro Pace e Stefano Rodotà, o il modestissimo documento di Libertà e Giustizia, evocano apoditticamente “torsioni autoritarie” o Licio Gelli, i 56 giuristi finalmente parlano di contenuti, seppur criticamente. Su questi ci si può confrontare, sulle allucinazioni un po’ meno.

L’opinione pubblica italiana – come accadrebbe in qualsiasi altro grande Paese europeo – ha infatti diritto a un serio dibattito sui contenuti della riforma. Il sì o il no al quesito di ottobre, ovviamente, non riguarderà certo solo gli aspetti tecnici del ddl Renzi-Boschi, ma sarà innanzi tutto un giudizio politico sul tentativo complessivo di riformare il nostro assetto istituzionale. Ma conoscere come “funzioneranno” le nostre istituzioni, in caso di consenso dei cittadini, rimane un diritto.

Chi, come me, quale giornalista parlamentare, ha seguito tutte le 173 sedute del Parlamento (tra Commissioni ed Aula di Senato e Camera) nelle quali sono state esaminate e votate le riforme, e da 24 anni osserva la vita reale del nostro Parlamento, ha la presunzione non dico di convincere i nostri 56 a cambiare idea, ma almeno di avere qualche dubbio sulle loro tesi. Le mie considerazioni – essendo un cronista – si baseranno sui fatti realmente accaduti a Palazzo Madama e a Montecitorio.

La prima obiezione dell’Appello è che la riforma sia stata approvata “da una maggioranza peraltro variabile e ondeggiante” e che quindi manchi per questo di una certa coerenza interna, non essendo “frutto di un consenso maturato fra le forze politiche”. Questa può forse essere l’impressione di chi non ha seguito passo passo l’iter parlamentare del ddl, ma la realtà è diversa. Personalmente trovavo migliore il testo originario del Governo, portato in Senato l’8 aprile 2014, ma le modifiche apportate in prima lettura in Senato sono state mantenute nelle successive letture, anche quando di volta in volta, alcuni gruppi (o una loro parte) sono usciti dalla maggioranza costituzionale che sosteneva il cammino delle riforme.

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In Commissione Affari costituzionali del Senato sono state accolte due modifiche essenziali richieste rispettivamente da Forza Italia e Lega, che il 10 luglio 2014, hanno votato a favore del mandato al relatore (tecnicamente si chiama così il sì definitivo al testo dato in Commissione). A livello di contenuti le due modifiche riguardano la composizione del futuro Senato delle Regioni – richiesta da Fi – e la limitazione della clausola di supremazia a favore dello Stato – chiesta dalla Lega assieme ad alcuni cambiamenti all’articolo 117 della Carta (competenze di Stato e Regioni). La Lega al momento della presentazione degli emendamenti in Aula al testo (16 luglio 2014) ancora sosteneva le riforme, tanto è vero che Matteo Salvini ha incontrato il 17 luglio i relatori (Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, sì proprio lui); in Fi, invece, i cosiddetti frondisti vicini a Raffaele Fitto avevano preso le distanze presentando mille emendamenti. La Lega ha iniziato a votare contro il ddl Renzi-Boschi dal 25 luglio. Ma l’avversione sia di Fitto sia di Salvini alle riforme prescindeva dal loro contenuto ed è dipesa da altre motivazioni: il primo aveva lanciato la sfida a Berlusconi per la leadership del centrodestra, mentre il secondo voleva accentuare il profilo antagonista del Carroccio, dopo il buon risultato alle elezioni europee del 25 maggio precedente (sei per cento dei consensi).

L’8 agosto 2014 l’Aula del Senato ha approvato in prima lettura il testo. Forza Italia ha votato a favore (47 i sì) tranne i frondisti (11); la Lega ha votato contro, ma Calderoli ha espresso un voto favorevole perché, spiegò, voleva “mantenere aperto il dialogo con la maggioranza”. Il 20 gennaio scorso, giorno dell’approvazione definitiva delle riforme da parte del Senato, chiacchierando con Calderoli gli ho detto che lui è tra i padri della riforma, visto l’incidenza del suo lavoro di relatore: lui ha riso soddisfatto.

Nei successivi passaggi parlamentari le modifiche concordate con Fi e Lega non sono state toccate. Il 13 dicembre 2014 la Commissione Affari costituzionali della Camera approvò il testo con il sì di Forza Italia, che ha continuato ad appoggiare il ddl anche in Aula nelle votazioni sugli emendamenti, fino al 27 gennaio. Come si ricorderà, tre giorni dopo, il partito guidato da Berlusconi ruppe il cosiddetto Patto del Nazareno, dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Da allora il grosso di Fi non ha più sostenuto le riforme, tranne il gruppo di Denis Verdini. Ma anche qui per ragioni estranee al contenuto che ha continuato ad essere quello approvato in prima lettura. Insomma la maggioranza parlamentare non è stata ondeggiante, ma si è via via assottigliata; tuttavia – insisto – le ragioni di tale fenomeno prescindono dai contenuti delle riforme il cui testo finale – tranne successive limature non essenziali – è stato condiviso da un arco di forze politiche assai ampio. Solo M5s e Sel sono rimasti estranei – per tutto l’iter parlamentare – al confronto ed effettivamente non hanno inciso su modifiche e contenuti.

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Passando al merito della riforme, la prima obiezione dell’Appello è in parte condivisibile anche se i nostri 56 sbagliano ad enfatizzare le conseguenze: si tratta della composizione del futuro Senato. Mentre il testo originale del Governo, varato dal Consiglio dei ministri il 30 marzo 2014, prevedeva che ogni Regione mandasse a Roma una delegazione di sei senatori, composta dal Presidente della Giunta e due Consiglieri regionali (eletti all’interno dello stesso Consiglio) nonché dal sindaco della Città capoluogo e da altri due sindaci (eletti dagli altri primi cittadini della Regione), il testo approvato dal Parlamento prevede invece (accogliendo le richieste di Fi) che le delegazioni di ciascuna Regione siano proporzionate al loro peso demografico. In più ci sarà un solo sindaco mentre gli altri senatori-consiglieri saranno eletti sulla base della consistenza dei gruppi consiliari. Con questo tipo di composizione, osservano i 56, nel futuro Senato “non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali articolate in base ad appartenenze politico-partitiche”. Ebbene sì, questo rischio esiste.

È reale cioè la possibilità che – per fare un esempio – i senatori di FI della Toscana non si accordino con gli altri senatori toscani per votare i provvedimenti, bensì con gli altri senatori di Fi della Lombardia, della Calabria, del Veneto ecc, specie se a livello nazionale il loro partito è all’opposizione. Nei miei articoli e in un libro sul Parlamento ho anche io sollevato questi rilievi. Il principale partito di Maggioranza, il Pd, aveva presentato un ddl (a prima firma di Giorgio Tonini) che proponeva il modello tedesco, con un Senato composto dai presidenti delle Giunte regionali; la soluzione più coerente con un assetto federale, ma avversata da tutti – e dico proprio tutti – gli altri partiti.

Ovviamente la domanda ai 56 giuristi è: era meglio mantenere l’attuale assetto che esclude la voce delle Regioni dal processo di formazione delle leggi dello Stato, o non piuttosto un compromesso appoggiato da un ampio arco di partiti che conduce a questo risultato? Va per altro ricordato che in Germania, negli Anni 70, i Presidenti dei Länder della Spd hanno spesso risposto a logiche politico-partitiche in contrapposizione ai Governi della Cdu-Csu, fatto questo verificatosi anche nello scorso decennio. Quindi è vero che quell’assetto sarebbe stato migliore di quello approvato dal Parlamento, ma esso da solo non avrebbe assicurato il reale funzionamento delle istituzioni senza quella “leale collaborazione tra poteri dello Stato” più volte evocata dalla Corte costituzionale in diverse sue sentenze. E per giungere a questo occorre che maturi una cultura politica condivisa.

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La seconda obiezione dei 56 – esposta anche il 27 aprile scorso da Ugo De Siervo all’Assemblea del Comitato Popolari per il No – è quella per me più sorprendente, perché ignora che l’attuale procedimento legislativo è in crisi da decenni ed è anzi una delle concause della crisi della politica. I 56 criticano la “pluralità di procedimenti legislativi differenziati” a seconda del peso che il Senato avrà sulle diverse leggi. Per esempio, le riforme costituzionali o le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali saranno bicamerali; per altre leggi occorrerà una maggioranza qualificata al Senato per proporre emendamenti ai testi approvati dalla Camera (che avrà comunque la parola finale), mentre a sua volta la Camera potrà respingere gli emendamenti del Senato a maggioranza semplice per la maggior parte delle leggi, mentre per alcune le sarà richiesta la maggioranza assoluta. Questa pluralità di procedimenti porterebbe a “incertezze e conflitti”.

“Incertezze e conflitti”, dunque. Esattamente quello che sta accadendo da decenni nel nostro Parlamento a bicameralismo perfetto, con la conseguenza che il procedimento legislativo indicato dall’articolo 72 della Costituzione è morto e sepolto da anni. “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”, recita appunto l’articolo 72 comma 1 della nostra Carta. Invito allora i 56 giuristi ad andare a vedere tutte le leggi di Stabilità degli ultimi decenni, a partire dall’ultima (legge 208/2015): ha un unico articolo e 999 commi. Quella dell’anno precedente (legge 190/2014) ha invece un solo articolo e 735 commi e così via andando indietro negli anni. Cosa mai dunque succede in Parlamento che i 56 giuristi non sanno sia accaduto?

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Il disegno di legge (non riguarda solo la Stabilità ma tutti i provvedimenti importanti) entra in Commissione dove talvolta viene approvato con modifiche e dove assai spesso non arriva neppure al mandato al relatore (l’approvazione). Il testo viene portato in Aula e a quel punto il Governo propone un maxi-emendamento costituito da un unico articolo con dentro tutti i commi che costituiscono la legge, e su quel maxi-emendamento viene posta la fiducia. In più la definizione del maxi-emendamento avviene in sedi del tutto extra-parlamentari, in riunioni a cui partecipano rappresentanti di più ministeri (ma non di tutti), il relatore, il presidente della Commissione, qualche capogruppo della maggioranza più intraprendente. Alla fine sul testo costituito da un unico articolo l’Aula è chiamata semplicemente a una ratifica, con il voto di fiducia.

Questo accade almeno dalla famosa finanziaria da 60.000 miliardi di lire del governo Prodi, il quale il 16 novembre 1996 pose la fiducia su tre maxi-emendamenti in cui aveva spacchettato la sua Finanziaria (allora la legge di Stabilità si chiamava ancora così). L’Aula parlamentare è marginalizzata sul piano della procedura (legge trasformata in un articolo unico con un solo voto) e sul piano dei contenuti, che sono decisi in sedi politiche e non parlamentari.

Ma perché dunque accade ciò? Forse tutti i governi che si sono succeduti (Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) sono malvagi? Piuttosto è accaduto un mutamento istituzionale che non è stato recepito nella nostra Costituzione: l’Italia ha aderito all’Unione Europea, nella quale sono i Governi dei diversi Paesi ad essere i referenti delle Istituzioni Comunitarie nella realizzazione della politiche di convergenza, a partire da quelle di finanza pubblica; i Governi hanno il dovere di far approvare dal Parlamento leggi che ci avvicinino alla realizzazione degli obiettivi presi dal nostro Paese a livello Ue, ma con l’assetto del bicameralismo perfetto questo è stato possibile solo stressando i meccanismi parlamentari esistenti, fino a trasformarli oggi in vuoti simulacri. Aldilà del nuovo ruolo del Governo nel cammino di convergenza nell’Unione Europea, le patologie del bicameralismo perfetto si sono manifestate già negli Anni Ottanta quando è andato accumulandosi il nostro debito pubblico “monstre”: la Finanziaria usciva dalla Camera (per esempio) che valeva 20.000 miliardi di lire e, dopo, il passaggio in Senato il suo valore era di 22.000 miliardi. Nei 24 anni del mio osservatorio non ho mai visto uscire una Finanziaria o una legge di Stabilità in seconda lettura dalla Camera o dal Senato, senza che le sue dimensioni contabili fossero cresciute.

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Questa patologia del bicameralismo paritario non dipende solo da ragioni empiriche, di malcostume politico, ma ha anche radici dal punto di vista teorico. Vediamole, dunque. Lo stesso corpo elettorale elegge (seppur con leggi elettorali diverse) un deputato e un senatore. Il senatore non controlla il Governo, bensì il deputato (e viceversa). Per esempio se nel collegio di Vicenza c’è bisogno del finanziamento per la superstrada della Valdastico, il senatore e il deputato entreranno in concorrenza tra loro per chi è così abile da far inserire con un proprio emendamento il finanziamento nella legge di Stabilità o in qualche altro provvedimento. Se ci riesce il deputato, a sua volta il senatore sarà in difficoltà perché avrà maturato minori benemerenze di fronte al proprio elettorato in vista delle successive elezioni; se poi i due sono dello stesso Partito, per il povero senatore sono guai. Dovrà ad ogni costo riuscire a far inserire in un successivo provvedimento almeno il finanziamento dei padiglioni della nuova Fiera. Il nostro debito pubblico è nato e cresciuto così. Solo due Camere elette da corpi elettorali diversi composte a loro volta da soggetti passivi diversi, non in concorrenza tra loro, possono spezzare questo meccanismo. Ma la finanza pubblica non è stato l’unico problema.

In 24 anni di attività di cronista parlamentare ho osservato un altro elemento macroscopico che evidentemente sfugge a chi preferisce l’attuale bicameralismo alla riforma costituzionale approvato dal Parlamento il 12 aprile. Su moltissime leggi accade che un Partito, o una corrente di un Partito, chieda una cosa in un ramo del Parlamento e un’altra cosa – talvolta addirittura opposta – nell’altro ramo. Questo è accaduto anche nell’iter della stessa riforma: per esempio la minoranza del Pd in Senato in prima lettura ha presentato emendamenti che aumentavano le competenze e i poteri del futuro Senato delle Regioni; alla Camera la stessa corrente del Pd ha presentato emendamenti (alcuni dei quali approvati) che ridimensionavano drasticamente poteri e competenze del Senato delle Regioni; ovviamente in terza lettura, a Palazzo Madama c’è stata una nuova giravolta. Perché questo?

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Il bicameralismo paritario ha aumentato a dismisura l’intermediazione dei Partiti, che dunque hanno ceduto alla tentazione di accrescere il loro potere ricercando l’intermediazione per l’intermediazione, fine a se stessa. In tutti i governi di coalizione, della Prima e della Seconda Repubblica, questa tentazione è cresciuta a dismisura. Se, per esempio, la Lega otteneva qualcosa su un provvedimento nel passaggio alla Camera, l’Udc al Senato chiedeva l’inserimento in quella legge di un proprio emendamento. E se aveva successo il Carroccio andava alla carica su un successivo provvedimento. Un solo esempio: la Lega ottenne la legge Fini-Bossi che stringeva le maglie dell’immigrazione regolare, ma l’Udc riuscì a fare inserire (per fortuna!) la sanatoria degli immigrati (la più grande della storia italiana, 900mila persone). Ovviamente i governi di centrosinistra non sono stati da meno.

Ho citato solo episodi della Seconda Repubblica, perché chi legge se ne può ricordare. L’intermediazione come strumento per accrescere il potere dei Partiti è una delle cause non solo del nostro debito pubblico, ma della corruzione economica e morale della nostra politica, e della sua crisi di credibilità. Non esiste Costituzione che tenga se i soggetti che la fanno vivere non sono credibili dinanzi ai cittadini. Le “incertezze e i conflitti” che i 56 indicano come rischio connesso alla riforma, sono quotidiana realtà dell’attuale bicameralismo, da decenni. Che non lo vedano personalità dello spessore di Cesare Mirabelli, Ugo De Siervo, Valerio Onida, ecc, è per me un mistero.

Referendum costituzionale. Il no dei 56 che illumina le ragioni del sì ultima modifica: 2016-05-02T15:01:49+02:00 da GIOVANNI INNAMORATI
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6 commenti

Referendum o Renzerendum? | ytali 3 Maggio 2016 a 18:36

[…] Referendum costituzionale. Il no dei 56 che illumina le ragioni del sì di Giovanni Innamorati  […]

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Giovanni Parenti 3 Maggio 2016 a 18:51

La ringrazio della sua puntuale analisi. Ora sono proprio convinto che il prossimo ottobre voterò “No”.

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Alessandro Frigo 4 Maggio 2016 a 8:25

Egregio sig. Parenti, potrebbe cortesemente spiegarmi perché l’analisi la convince a votare No? Francamente non riesco a comprenderne le ragioni e sarei invece sinceramente interessato a capirle. Grazie.

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Alberto Bernstein 9 Maggio 2016 a 12:27

mi sembra che l’analisi porti a sostenere il si al referendum…

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Il Referendum Costituzionale, spiegato facile facile 12 Ottobre 2016 a 18:30

[…] Parere di Giovanni Innamorati, giornalista parlamentare pro-sì che ha seguito tutte le 173 sedute c… […]

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