La poetica di un certo sguardo. Conversando con Piero Cannizzaro

CLAUDIO MADRICARDO
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Ossigeno” è l’ultima opera in ordine di tempo di Piero Cannizzaro, e racconta la storia del cambiamento di Agrippino Costa, un uomo in rivolta. Contro ogni genere di ordine costituito. Dopo aver passato lunghi anni in galera pur non avendo mai ucciso nessuno, Agrippino finisce in un manicomio criminale a seguito di una tentata evasione, da cui è salvato per intervento di Dario Fo e Franca Rame. Un percorso che dopo la detenzione approda al riscatto individuale attraverso la pittura e la poesia.

Presentato in anteprima nel carcere di Rebibbia per volontà del direttore Carmelo Cantone, lo stesso che aveva permesso di girare “Cesare deve morire” a Paolo e Vittorio Taviani, “Ossigeno” è stato visto in Italia al Festival di Courmayeur del 2012 ottenendo unanime riconoscimento del pubblico e della critica. È stato proiettato a Londra all’Istituto Italiano di Cultura, e a Parigi al cinema la Filmoteque del Quartier Latin, alla Maison d’Italie alla presenza dei critici Christian Uva e Gius Gargiulo, e all’Università di Nanterre. In Italia il documentario è stato visto a Roma, Torino, Milano, Mestre etc. Mentre a ottobre inizierà una piccola tournée in Francia.

Nonostante il successo ottenuto, “Ossigeno” non ha ancora trovato modo di essere visto dal grande pubblico raggiungibile dalla distribuzione televisiva. Ritardo che non pare giustificabile se si pensa alla qualità del messaggio insito nell’opera di Cannizzaro. E se è vero, come del resto conferma l’autore nella conversazione che con lui abbiamo avuto, che la televisione, e in primo luogo la Rai, ha fatto molto per il documentario nel nostro Paese da qualche tempo a questa parte, ciò pare ancora insufficiente. Tanto da rendere auspicabile che quanto prima il servizio pubblico possa offrire prodotti di qualità che altrimenti un sistema penalizzante di distribuzione rischia di precludere alla maggioranza degli spettatori. Di seguito riportiamo il resoconto della conversazione avuta con il regista Piero Cannizzaro.
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Il Leone d’oro a “Sacro GRA” nel 2013 e l’Orso d’oro per il miglior film all’ultimo documentario di Gianfranco Rosi “Fuocammare” nel 2016 farebbero pensare che qualcosa di profondo è cambiato nel gusto, se non del grande pubblico, almeno in quello delle giurie dei vari festival cinematografici. Pensi sia obsoleto parlare di distinzione tra film e documentario?
In generale direi di sì. Il pubblico cerca un’emozione in quello che va a vedere. Non ha più molta importanza etichettarlo in un genere. Ci sono ormai tanti linguaggi diversi e un misto di generi dovuto anche all’evoluzione tecnica elettronica, di montaggio e di ripresa. Voglio dire che al di là dell’idea e del racconto, è sempre più facile contaminare il linguaggio con altri materiali. Mi sembra sempre più difficile e anche un po’ inutile insistere su questa differenza. In questo senso le affermazioni di Rosi prima a Venezia e poi ha Berlino hanno contribuito a spostare l’asticella un po’ più in alto nell’immaginario del pubblico medio, rendendo il documentario parte integrante del racconto e quindi del cinema.

E questo non significa un lasciare il campo libero alle serie televisive da parte del cinema, inteso come fiction, visto che sembra prediligere un approccio etnoantropologico, cioè l’elemento che è più proprio della narrazione del documentario?
Mi sembra un’affermazione un po’ forte. Io credo che il bello del “sistema cinema” stia nella diversità. In Francia, che è per molti aspetti il nostro modello più avanzato, esiste una diversità incredibile di generi. Tu puoi trovare dal poliziesco al noir, dalla commedia al cinema d’autore. Da noi invece c’è un certo appiattimento produttivo sul genere commedia. Se non fai commedia, hai molta più difficoltà a produrre un film. È vero che le due opere di Rosi hanno allargato l’idea di film aiutando il pubblico ad avvicinarsi a proiezioni più antropologiche e più vicine al reale. A quello che oggi si chiama il cinema del reale. Ma hanno anche aiutato il committente, cioè la televisione che ora guarda con maggiore “simpatia” al genere documentario. Anche se non è poi vero che c’è tutta quest’apertura nel concreto nei confronti del documentario, e la strada da fare è ancora molta. È una cosa che ho misurato anch’io con “Ossigeno”, che ha riscosso grande interesse di pubblico e di critica, ma che quando vai a proporre alla televisione trova ancora molte difficoltà.
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Mi ha fatto molto riflettere, a proposito di “Ossigeno”, la parabola di Agrippino Costa, che da un’iniziale soluzione individuale (il furto) scopre in carcere la dimensione della lotta politica (Nap e Brigate Rosse). Il possibile riscatto collettivo. E con gli anni di detenzione e del fallimento della politica, quello che abbiamo chiamato “il riflusso”, approda di nuovo a quella che ancora una volta è una scelta individuale. Alla pittura e alla poesia come riscatto e cambiamento. Nel tuo “Il cibo dell’anima”, il cibo pare diventare veicolo di integrazione tra comunità e credi differenti. È esatto se affermo che la tua filmografia scopre valori che esulano dalla politica mettendo invece a fuoco gli elementi che uniscono, gli aspetti più intimi che accomunano il genere umano?
Assolutamente sì. Anche in “Storie di dolci” che racconta la vicenda di un’orfanella messa in convento negli anni ’50 a Erice da dove riesce a uscire solo dopo un decennio, c’è una storia di riscatto. Che avviene attraverso la pasticceria, essendo riuscita a carpire le ricette dei dolci di marzapane alle suore. Sono riuscito a riportare nel monastero Maria Grammatico e lì farle raccontare le sue emozioni. Ti dico questo perché m’interessa molto l’uomo, l’uomo in quanto tale. “Ossigeno” è una storia di riscatto e di rinascita interiore.

Sì, in quello che faccio ci sono dei valori che vanno anche nel senso del superamento della politica intesa in modo tradizionale. Quella che abbiamo trovato in passato dai tempi del ’68 a quelli dei movimenti e poi a quelli del cosiddetto riflusso. L’importante è avere un vero rapporto con se stessi e un’etica laica, nel senso che il bene o il male lo possiamo trovare dentro di noi, sapere cos’è il bene e il male. E non c’è quindi bisogno di una religione per forza. “Il cibo dell’anima” insegna poi questo, ed è stato proiettato nei licei grazie a Libertà e Giustizia per parlare di laicità. La vera rivoluzione è stare bene con se stessi. Io credo molto in questo percorso di un’evoluzione personale. Come dice il protagonista di “Ossigeno” Agrippino Costa, se non stai bene con te stesso, se tu non comprendi te stesso, non potrai mai capire gli altri e sarà difficile che tu possa cambiare quanto ti circonda. Tu devi partire da te. Che è poi il filo rosso che lega “Il cibo dell’anima”, “Storie di dolci” e anche “Ossigeno” in un percorso direi spirituale. Dove spirituale non c’entra con la religione, ma su un rapporto intimo con te stesso.
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Veniamo ai tuoi rapporti con il Veneto, con Gualtiero Bertelli e i Calicanto.
Bertelli e i Calicanto fanno parte di una mia ricerca musicale personale. Nel 2000 avevo girato il primo documentario che è stato fatto su “La Notte della Taranta e dintorni”. In seguito ho girato “Ritorno a Kurumuny” nel Salento in cui sono andato a trovare dei vecchi cantori. Un percorso che mi ha poi portato da lì alla Sardegna e al Piemonte facendomi arrivare al Veneto di Bertelli e dei Calicanto. Ma già sul finire degli anni ’90 avevo scoperto la laguna di Venezia, dove ho realizzato “Storie d’acqua”, in cui parlavo delle varie isole e delle valli dal punto di vista paesaggistico, ma anche dei personaggi. Sono andato con i pescatori di Burano a pescare le moeche. Questo mi ha consentito di scoprire che all’interno della laguna esistevano dei personaggi incredibili. E lì torna sempre il mio interesse per l’uomo. Io penso che prima vengano le persone e poi semmai le religioni.

Cosa sostenuta ultimamente dallo stesso Dalai Lama.
Lo diceva se vuoi anni fa anche lo stesso John Lennon. Immagina un mondo senza religioni. Ritorniamo al tema della spiritualità, non c’è bisogno di una religione per darti un’etica. Lo dice anche Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, che afferma che esistono delle persone non credenti che sono molto più spirituali. Nel senso che hanno una profondità di pensiero e un’interiorità più sviluppate di chi va magari tutti i giorni a Messa. Ma torniamo alla laguna e alla scoperta di queste personalità incredibili che mi hanno permesso di raccontare un percorso di dieci storie cercando dei personaggi capaci di rendere l’identità dei luoghi. Che ho regalato al Comune di Venezia sindaco Cacciari, quando sono stato chiamato a girare un documentario sull’incendio della Fenice che s’intitolava “Dov’era e com’era”, in cui oltre a Cacciari, apparivano Federico Zeri, Giuseppe Sinopoli, Francesco Dal Co e altri personaggi che parlavano sul tema della ricostruzione.
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Oltre a quello della spiritualità, quanto conta il concetto d’identità nella tua poetica?
È l’altro tema che si lega a quello della spiritualità e dell’uomo. L’identità viene data da tante cose. Certamente dal paesaggio, ma anche dall’uomo. Che lo vive, che sa leggere e convivere con questo paesaggio. In quelle storie lagunari di cui ti parlavo, sul finire degli anni ’90 ho trovato dei personaggi straordinari. Da quello che viveva nella Valle Perini in laguna, a Franco Crea costruttore di gondole. O a quello che fabbricava le anatre finte come richiamo per i cacciatori, e le faceva già per Hemingway. Un’altra storia riguardava Gerolamo Fazzini, un archeologo che operava al Lazzaretto Novo, dove venivano messi in quarantena gli equipaggi delle navi. Un’altra ancora un gruppo di archeologi che cercavano gli scafi delle vecchie barche lagunari, delle quali un tempo esistevano varie tipologie, perché non andassero perse. Uno dei documentari riguardava Archimede Seguso, quando era ancora in vita, e il vetro a Murano. La cosa insomma ha funzionato, e sono nati i “Ritratti della Laguna Veneta”. E poi ancora i ritratti della Sicilia, del Cilento. Ho in sostanza aperto questa “formula” narrativa di documentari brevi dedicati a personaggi che mi sembravano identitari del luogo.
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A cosa stai lavorando in questo momento?
Sto lavorando a un’altra serie di documentari sul tema dell’identità dell’Italia, dalla Valle d’Aosta a Taormina, un po’ tra l’antropologia e il viaggio, andando a cercare quelli che sono gli elementi costitutivi di un posto. Sto pensando anche a due possibili lavori. Il primo riguarda il cibo, ma questa volta visto dall’altra parte, dal punto di vista dei rifiuti. Il secondo è un tema più “politico”, un po’ sulla falsariga di “Ossigeno”, e quando intendo “politico” voglio dire che indagherà la spiritualità e il cambiamento dei personaggi.

claudiomadricardo

@claudiomadricar

La poetica di un certo sguardo. Conversando con Piero Cannizzaro ultima modifica: 2016-05-03T11:53:16+02:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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