Alberto Torsello, il restauro architettonico l’ha respirato fin da bambino. Suo padre lo insegnava allo IUAV, e l’essere figlio d’arte l’ha spinto ad aprire uno studio dall’età di vent’anni. Nel corso del tempo ha attivato collaborazioni e interventi importanti.
Come quella con Gae Aulenti all’epoca della ricostruzione della Fenice, per la quale ha realizzato tutti i disegni dell’apparato decorativo del teatro. Si è inoltre occupato del restauro della Reggia di Venaria Reale, della Villa Rinaldi-Barbini ad Asolo, di Villa Emo del Palladio, e degli Uffizi. All’estero Torsello ha realizzato il rilievo della Città Proibita di Pechino, e quello delle antiche rovine della città iraniana di Bam, nella regione di Kerman, distrutta da uno spaventoso terremoto nel 2003. Ultimo in ordine di tempo è l’importante restauro della Scuola della Misericordia a Venezia, progettata da Jacopo Sansovino che morì prima che l’edificio fosse finito.

Alberto Torsello
Dall’inizio della sua attività per i successivi vent’anni Torsello ha dedicato molta attenzione al problema della misura e del rilievo del costruito e dell’urbano. L’essersi dedicato a lungo al restauro gli ha dato delle regole molto precise, in primo luogo l’attenzione a tutto ciò che ci sta attorno, cambiando il suo atteggiamento nei confronti di quel che esiste. Ma non gli ha alla lunga precluso la via del progettare, attività primaria dell’architetto, che nel suo caso sembra non cedere mai all’ostentazione di se stessi, quanto piuttosto un’attenzione a ciò che esiste. La lunga attività dedicata al restauro gli ha consentito di imparare a capire come trasformare un edificio antico, o anche soltanto vecchio, in una nuova energia e risorsa. Perché come accade nell’architettura, anche nel restauro il problema su cui riflettere è la funzione. A tal punto che a volte la grande questione, data per scontata la conoscenza delle tecniche impiegate, è come prendere questi edifici tanto delicati e dare loro una nuova vita. Facendo sì che il tema del riuso diventa non solo centrale, ma di capitale importanza.
Come Studio, spiega Torsello, abbiamo portato avanti una serie di principi di cui la Misericordia può essere considerata un risultato. Quando ti trovi davanti a un edificio che deve essere restaurato, se ti dai dei criteri precisissimi sempre, giungerai ogni volta a risultati diversi, ma senza dover scendere a compromessi. È evidente che il primo obiettivo nei confronti di un edificio è di renderlo sano. Non esiste vita di una fabbrica se non è sana. Si tratta, in primo luogo, di eliminare i cedimenti strutturali, l’acqua piovana o l’umidità di risalita. Che sono le cause principali del degrado.
Ma oltre all’obiettivo sacrosanto della fabbrica sana, quando ti rapporti a un edificio che ha una sua storia, quale deve essere l’approccio corretto? Voglio dire, quanto è importante mantenere i segni della fabbrica?
Se devo rendere sano un edificio senza compromessi, lo dovrò fare senza che i miei interventi vadano a inficiare o contraddire i segni della fabbrica, la sua destinazione d’uso e la sua rifunzionalizzazione. Il mantenere i segni della fabbrica è il secondo principio fondamentale, purché non entri in contraddizione con il primo principio, cioè quello di avere un edificio sano, e con il terzo, che è quello della rifunzionalizzazione. Potrei dire che in un gioco di gerarchie, ma anche di controllo di tutto quello che è l’intero processo dell’architettura, il terzo principio della rifunzionalizzazione, che è poi quello che sta a cuore al committente, è molto importante. Ma viene per ultimo. E non deve entrare in contraddizione con il rendere sana la fabbrica e con la sua stratificazione storica.
In che problemi vi siete imbattuti nel restauro della Misericordia?
La Misericordia era un edificio sofferente. È stata abbandonata per lungo tempo e usata in maniera diversa da quella per cui era nata. Quando l’abbiamo ereditata, aveva già subito una serie di operazioni sia strutturali sia di conversione funzionale per intervento del Comune e dell’architetto Gianni Fabbri. Allora l’intenzione era di trasformare l’edificio in un auditorium musicale per ottocento persone. Quindi con una serie di problematiche in sede acustica, d’impiantistica e di sicurezza che hanno prodotto un certo impatto di trasformazione sull’edificio. Per esempio era stata costruita un’enorme scala di cemento armato all’interno, e un’esterna molto più grande di quella attuale per consentire l’esodo del pubblico. Poi tutto si è arenato per mancanza di fondi. In pratica mi sono trovato nel bel mezzo di questa trasformazione che aveva comunque risolto alcuni problemi strutturali importanti. Causati dal “fuori scala” architettonico della fabbrica della Misericordia. Dove il giovane Sansovino aveva l’intenzione di fare un edificio molto romano ma molto fuori scala rispetto al tessuto veneziano. Una scelta che aveva provocato delle deformazioni strutturali importanti sistemate parzialmente da Fabbri. Il mio intervento ha completato.
E una volta risolte le criticità statiche?
Si trattava di capire come trasformare la Misericordia e quale uso definitivo assegnarle, il che era poi l’obiettivo principale del progetto. Cercando di creare il minor impatto possibile sull’edificio. All’inizio abbiamo fatto una grandissima campagna di analisi e di attenzione geometrica per capire alla fine che cosa avremmo potuto fare fino in fondo. Qual era cioè il principio e l’idea architettonica che potevano in qualche modo non creare compromessi. Questa idea noi l’abbiamo individuata nel pavimento, che è l’elemento portante dell’intero progetto. Il pavimento era, infatti, la superficie più compromessa, compromettibile e duttile per le varie fasi del processo.
Perché il pavimento?
Questo edificio vuole essere una sorta di grande teatro polivalente, deve essere un contenitore che può ricevere molti eventi di natura diversa, come mostre, teatro, musica, eventi, sfilate di moda. A Venezia mancava un edificio con queste caratteristiche, che avesse una grande flessibilità. Il pavimento doveva essere in primo luogo qualcosa che servisse da cornice a tutto ciò che è la stratificazione storica. Per esaltare la stratificazione. Poi doveva essere un regolatore geometrico, quindi un elemento molto rigoroso che permettesse di vedere anche le deformazioni della fabbrica. Una superficie estremamente robusta e potente per poter sopportare qualsiasi evento, doveva allo stesso tempo essere un sistema che permettesse di avere una materia consona e, se vuoi, anche compatibile con la materia storica.
Quale materiale avete scelto?
Dopo tanti ragionamenti abbiamo scelto un pavimento in lastre di acciaio nero che misurano 120 per 120 con un trattamento a calamina sulla faccia superiore per dare una sorta di protezione. È una scelta in scala con la Misericordia e rispettosa del modulo del Sansovino. Un pavimento che sembra galleggiante, anche se in realtà non lo è. La nostra scelta è stata quella di creare come un pavimento di un’officina meccanica. Con delle piastre di metallo alte sei millimetri scelte in base a un “crash test”. Perché non si doveva deformare, dove quattro millimetri sono poco, e otto troppo. E che è stato scelto anche perché si deve rovinare. Cioè, più si rovina più bello diventa.
Strano concetto, se applicato all’architettura.
È esattamente l’opposto del criterio perseguito in architettura. Quello che abbiamo scelto era un materiale che nel tempo del cantiere doveva maturare in modo tale da fare da memoria storica del cantiere stesso. Tant’è vero che il pavimento a pianoterra l’abbiamo montato sei mesi prima e c’è passato sopra l’intero cantiere avendo in tal modo già cominciato ad acquisire il tempo.
E sotto cosa c’è?
Sotto c’è un cuscinetto di neoprene che rende la pavimentazione non rigida, e sul quale le lastre di acciaio sono appoggiate con dei bottoni. È in altre parole come fosse un parquet. Non lo percepisci, ma si sente che si sta bene. È un pavimento disegnato ad hoc per poter dare quella maglia geometrica che mi serviva per capire. Dall’analisi che abbiamo condotto, è stato possibile trovare il principio metrico del Sansovino che ci ha permesso di dare un senso al pavimento. Che non è una semplice piastra posizionata.
Il restauro ha riguardato anche gli affreschi?
Sono stati curati e puliti. Effettivamente c’è l’effetto come se fossero stati “tirati fuori”. Anche qui l’intenzione è stata quella di mantenere tutte le loro deformazioni, le loro mancanze e le loro lacune. Ripulendoli e sistemandoli in modo che assumessero una sorta di unitarietà. Sono degli affreschi degli allievi della scuola del Veronese e risalgono ai primi anni del Seicento. Non sono di grande livello e qualità, però è un ciclo pittorico legato ai re e ai profeti che ben completa la scenografia.
Che interventi avete fatto sugli esterni?
Li abbiamo sottoposti a una cura attentissima, sostituendo i mattoni deteriorati. Abbiamo inserito dei trefoli in carbonio all’interno delle fughe di mattoni nei punti che ritenevamo deboli. Sono stati tolti alcuni elementi metallici che stavano rompendo le pietre perché si erano ossidati. Il tetto è stato interamente ripassato e sistemato. Complessivamente il restauro è durato poco, un anno e mezzo.
Quante persone ci hanno lavorato?
In alcuni momenti in cantiere abbiamo avuto più di centocinquanta persone a lavorare contemporaneamente. Se ci aggiungiamo anche chi si è occupato di questioni procedurali etc. penso che arriviamo a un totale di duecento persone.
Cosa si proponeva Sansovino con questo progetto?
Sansovino muore nel 1570 mentre la Scuola Grande della Misericordia viene inaugurata, seppur incompleta, nel 1584. All’epoca della sua morte di fatto si stavano completando le colonne a pianoterra. L’aveva pensata con una logica politico-amministrativa della città della “renovatio urbis” del doge Andrea Gritti. Dove il giovane rampollo toscano romano, dopo il Sacco di Roma nel 1527, viene a Venezia e diventa il protetto del Doge e dei Grimani. La Congregazione della Scuola Grande della Misericordia decide d’affidargli l’incarico anche perché apparteneva ai circoli del potere. Col suo progetto Sansovino vuole portare lì un esempio di basilica romana con la copertura a botte, come aveva già fatto alla Marciana. Solo che nel 1545 la volta della Marciana crolla, portandolo in carcere per qualche mese. La qual cosa gli fa capire che a Venezia le spinte orizzontali non sono ammesse. Mi spiego meglio, l’arco a Venezia non è ammesso, non c’è quasi mai. Anche la Basilica della Salute poggia su uno zoccolo voluto dal Longhena così alto proprio per poter sopportare le spinte dell’arco. Fatto sta che Sansovino abbandona l’idea originaria del tetto a botte e arriva a un tetto classico, a capanna. Ma i muri a pianoterra della Misericordia, quando nascono, nascono con l’idea del tetto a botte. Difatti sono larghissimi proprio per poter sostenere la spinta della volta. E a Venezia ciò è anomalo.
Visitando la fabbrica della Misericordia non si ha la sensazione della presenza della tecnologia, non si percepisce. Eppure essa è ampiamente utilizzata proprio in virtù dell’utilizzo che si vuole fare degli spazi dell’edificio.
Credo che il fatto di aver saputo nascondere totalmente la tecnologia sia una delle cose meglio riuscite del restauro della Misericordia. E ciò è accaduto perché l’edificio aveva delle caratteristiche che ci hanno consentito di farlo. La Misericordia è rimasta, se posso fare un esempio, come una vecchia signora dignitosa. La tecnologia presente è invece tanta. Ci sono per esempio sistemi di ultima generazione del controllo delle luci. Sotto il pavimento ci sono passaggi impiantistici, per il riscaldamento e per i condizionamenti che permettono di fare qualsiasi tipo di mostra. La tecnologia è soggetta a obsolescenza e quindi è effimera. La Misericordia è predisposta per ospitare anche le tecnologie che potranno essere prodotte nel futuro.
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1 commento
Orribile restauro, specie per i pavimenti in ferro, per le scale modernissime in ferro con luci da centro commerciale. Il livello qualitativo del teatro al primo piano è pessimo, visuale scadente come le sedie, come il sonoro…insomma nessun rispetto per il Sansovino.