Basir Ahang
VERA MANTENGOLI
Sinceramente ti dico/Mia amata/Qui nessuno c’è per nessuno/I cuori indugiano reclusi/le bocche cucite/Guarda la mia fronte/E la ferita che vi si posa/Questa è la piaga di coltelli/affilati nella mia terra
La terra cantata nei versi Sinceramente ti dico, tratti dalla raccolta Sogni di Tregua di Gilgamesh Edizioni, è l’Afghanistan. La ferita è quella dell’autore hazara, il poeta e giornalista Basir Ahang, classe 1984, coordinatore dell’Hazara People International Network, la rete che unisce gli Hazara nel mondo.
Nelle sue poesie «la discriminazione sistematica» che l’etnia Hazara subisce da secoli viene raccontata parlando direttamente al cuore.
In un momento in cui il mondo sembra collassare in un buco nero di sangue – spiega l’attivista dopo l’attentato dello scorso 23 luglio a Kabul che ha provocato 84 morti e oltre duecento feriti tra le migliaia di manifestanti che chiedevano al governo la rete elettrica per la regione abitata dagli Hazara – letteratura e poesia sono l’unico strumento in grado di resuscitare le parole e usarle per trasmettere le emozioni e raggiungere l’anima.
Ormai siamo assuefatti dalle parole che scorrono come fiumi in piena nei social network, dalle immagini cruente che ripetono ossessivamente sequenze di follia e dai suoni senza pietà di bombe e pistole:
Leggere una poesia può avere un effetto molto positivo – prosegue Ahang – soprattutto quando il dolore diventa così forte da anestetizzarci. Fermarsi, leggere o ascoltare una poesia ci fa ricordare che siamo parte di un’unica umanità. Ogni volta che proviamo questo sentimento, è come se rompessimo un pezzo dei muri che abbiamo costruito tra noi e ci avvicinassimo di più uno all’altro. Pensare a questo senso di umanità che ci accomuna può aiutarci a uscire da noi stessi e a provare solidarietà nei confronti anche di chi fino a quel momento sentivamo lontano.
Sinceramente ti dico/La storia di questa terra/È solo un racconto d’accanimento/Di una nazione dal potere irrisa/E dal suo stesso popolo boicottata.
In piazza il 23 luglio sfilava il Movimento degli Hazara Illuminati che non ha nessuno scopo mistico, anzi. La richiesta degli attivisti hazara è tra le più concrete possibili immaginabili, eppure sembra impossibile realizzarla.
Gli Hazara chiedono la luce. Un diritto che stanno pagando con la loro vita, come ha dimostrato la tragedia di Kabul.
Era da mesi – racconta il poeta e giornalista residente a Venezia, arrivato in Italia come rifugiato politico nel 2008 – che tutte le comunità Hazara del mondo avevano finalmente costituito una piccola redazione di persone a Kabul che avrebbe seguito il corteo pacifico di protesta e trasmesso in diretta le immagini e i commenti. In questo modo, ognuno di noi poteva simultaneamente tradurre cosa succedeva nella lingua del posto, io in italiano, molti in inglese, tanti in norvegese. Volevamo che tutto il mondo sapesse la verità, ma a un certo punto abbiamo sentito un’esplosione. Su dodici collaboratori, dieci sono morti.

«La bilancia del governo è squilibrata», dice il cartello a capo del corteo
Gli Hazara chiedono che nella loro regione al centro dell’Afghanistan, grande otto volte il Veneto e abitata da circa dieci milioni di persone, passino i cavi necessari per portare la luce elettrica. I soldi sono già stanziati dalla Banca Asiatica per lo Sviluppo e il progetto è pronto, scritto nero su bianco. Insomma c’è tutto, eccetto l’approvazione del governo del presidente Ashraf Ghani che, dopo essersi dimostrato in apparenza favorevole, ha cambiato idea all’ultimo, decidendo di far passare i cavi elettrici da un’altra parte del Paese.
Quanto è coinvolto il governo nell’attentato rivendicato dall’Is? Le ultimi stragi in Europa non hanno dato spazio per dare voce alla ricostruzione della dinamica vista dagli occhi degli attivisti che stavano seguendo la manifestazione.
Il governo ha detto che una donna con il burqa si è fatta esplodere – racconta l’attivista poeta – ma non è affatto vero. Non appena avremo superato questo dolore, chiederemo alla comunità internazionale di aprire un’indagine su quanto accaduto.
L’ipotesi degli attivisti Hazara è che il governo ci abbia messo lo zampino o direttamente o lasciando che l’attentato dell’Is avvenisse. «Non è la prima volta che l’Is usa le stragi per fare propaganda», commenta Ahnag. A dare conferma della loro convinzione ci sarebbero alcune immagini scattate qualche attimo prima della tragedia. Secondo gli attivisti quel giorno la polizia non avrebbero garantito la sicurezza. Se infatti all’inizio del corteo la polizia aveva formato un cordone che rendeva impossibile qualsiasi infiltrazione, una volta arrivati nella piazza, si sono tutti dispersi.

Il finto carretto con gelati che per gli attivisti conteneva invece armi
È allora che sono arrivati tre uomini che non erano chiaramente hazara, ma pashtun – racconta Ahang – con un carretto di gelati che nessuno della polizia ha controllato. A un certo punto uno di questi ha tirato fuori dal carretto una bomba a mano e l’ha lanciata in direzione dei portavoce, creando un grande caos tra la folla. Poi si è fatto esplodere, seguito dall’altro uomo. Il terzo rimasto ha tirato fuori dal carretto un kalashnikov e ha iniziato a sparare sulla folla, fino a quando è stato ucciso dalla polizia.
Le immagini scattate qualche attimo prima, mostrano il carretto sospetto e quelle subito dopo il cadavere di un uomo con i fili dell’esplosivo attorno al corpo. Due tasselli importanti che verranno utilizzati per chiedere aiuto alla comunità internazionale.
Il disastro è stato inoltre aggravato dai blocchi già presenti attorno alla piazza.
Per prevenire qualsiasi tentativo da parte del corteo di andare davanti al palazzo del governo – prosegue Ahang – la polizia aveva bloccato con dei camion gli ingressi che portavano verso il centro della città, quindi le persone si sono trovate intrappolate, senza la possibilità di scappare. Per questo ci sentiamo anche ingannati e chiediamo giustizia
.

Gli Hazara nel mondo denunciano la strage
Sinceramente ti dico/Mia amata/Che alla fine dei conti/Le rovine di Kabul/I giardini recisi del nord/Le fosse comuni di Yakawlang/E i brandelli di un Buddah/Ormai troppo lontano/Altro non sono stati/che desideri di un popolo afflitto.
Gli Hazara si definiscono «afghanistani e non afghani». Afghanistan significa “terra” (stan) dei Pashtun (afghan). Il nome è stato introdotto nel 1747 dal re Ahmad Shah Durani, ma prima si chiamava Khorastan, Terra del Sole. Afghanistano significa quindi abitante della terra dei Pashtun, ma non appartenente a quella etnia.
Se il governo rimanesse fermo nelle sue decisioni e quindi interrompesse il progetto della rete elettrica, la conseguenza diretta sarebbe che per un altro tempo infinito gli Hazara rimarrebbero emarginati, ma non solo. Senza la rete elettrica la miniera di ferro di Hajigak – tra le più grandi al mondo – e quella di rame di Mesainak, non potrebbero riprendere il funzionamento e il sito dove un tempo sorgevano i maestosi Buddha di Bamiyan scolpiti nella roccia, sarebbe privo di strutture per i turisti.
Molti Paesi dimostrano interesse per ricostruire i Buddha, uno dei simboli della nostra storia, e vorrebbero venire a vedere quello che rimane – spiega Ahang – ma fino a quando questi luoghi saranno invivibili, nessuno potrà trascorrere un periodo perché senza energia elettrica non si può fare nulla. Ecco perché per noi la luce è una questione di vita o di morte e ci stiamo giocando il futuro.
Insomma, se la comunità internazionale non si fa portavoce di questa ingiustizia sarebbe per gli Hazara un colpo duro, l’ennesima «discriminazione sistematica».
Nessuno in questo secolo s’immagina come il nostro popolo venga trattato – afferma Ahang – Abbiamo limiti su tutto, per entrare all’università, ma anche nelle forze dell’ordine, per qualsiasi cosa. Il presidente quando si rivolge a noi ci tratta con sufficienza, come se ci dicesse: ho già fatto tanto per voi, anche l’elettricità mi chiedete? La nostra vita è sempre tenuta in pugno dal governo che vuole che noi viviamo emarginati.

La prova che uno degli attentatori è uomo
Sinceramente ti dico/Qui il mondo è giunto al termine/E se guardi bene/Mia amata/puoi leggerne la fine/fra i solchi del mio viso.
Zigomi sporgenti e carnagione scura. I volti degli Hazara conservano gli eleganti tratti dei popoli della Mongolia, ma ancora oggi vengono presi in giro, come dimostrano le parolacce che molti pashtun, anche emigrati in Europa, scrivevano sui social network il 23 luglio scorso. Tra tutte, il marchio usato da secoli per umiliare gli Hazara, in gran parte costretti a vivere nelle montagne, senza luce: Mush Kohr, in lingua farsi mangiatopi.
«Noi continueremo a manifestare – ha annunciato Ahang– non appena passeranno i dieci giorni di lutto, torneremo in piazza per chiedere l’energia elettrica». Il governo ha tempo un paio di mesi prima di pronunciarsi definitivamente. Il grande appuntamento che si sta preparando fin da ora è a Bruxelles, il 5 ottobre, in occasione della Conferenza sull’Afghanista alla presenza di settanta Paesi e trenta organizzazioni e agenzie internazionali. È questo uno dei prossimi obiettivi degli Hazara sparsi per il mondo che si riuniranno in massa per affermare un loro diritto.
Molti di loro riescono a dare più spazio alla causa Hazara lontani dalla loro patria. I loro corpi sono qui, ma il loro cuore non ha pace.

Il poeta Basir ricorda le vittime di Kabul
Una volta – spiega il poeta – quando non c’era internet, i luoghi geografici sembravano lontani, ma adesso la velocità dell’informazione arriva in un baleno e siamo tutti direttamente coinvolti. Per quanto riguarda l’Italia e Kabul, basta pensare che nel 2001 c’erano circa 4000 soldati italiani in Afghanistan, quindi c’è un forte legame tra i due Paesi e non dobbiamo rimanere indifferenti.
Rompere l’indifferenza richiede empatia, partecipazione, impegno. Non basta apprendere molte informazioni, interpretare dati, avere la lucidità di analizzare situazioni complesse. Bisogna fermarsi, leggere lentamente una poesia, lasciarsi penetrare dalle parole e ricordarsi che apparteniamo a un’unica umanità.
Sinceramente ti dico
Come posso spiegare
Mia amata
Da dove iniziare
Questo racconto
Di perpetuo martirio?
Dalle larve che lente
Scavano il mio cuore
Dalla fiamma che mi avvampa
O dalla tua testardaggine?
Sinceramente ti dico
Mia amata
Che il mio amore
È astinenza di tossico
E le mie ferite
lividi di calce
La storia di questa terra
È solo un racconto d’accanimento
Di una nazione dal potere irrisa
E dal suo stesso popolo boicottata
Sinceramente ti dico
Mia amata
Qui nessuno c’è per nessuno
I cuori indugiano reclusi
le bocche cucite
Guarda la mia fronte
E la ferita che vi si posa
Questa è la piaga di coltelli
affilati nella mia terra
Sinceramente ti dico
Mia amata
Che alla fine dei conti
Le rovine di Kabul
I giardini recisi del nord
Le fosse comuni di Yakawlang
E i brandelli di un Buddah
Ormai troppo lontano
Altro non sono stati
che desideri di un popolo afflitto
Sinceramente ti dico
Mia amata
Che da Afshar
A Kabul
Tutto è silenzio
Che i seni tagliati
Di madri e sorelle
Giacciono perenni sui fili
Elettrici della città
Che dal fondo delle rovine
Ancora si odono
Le urla dei bambini
Strappati da un grembo
Mai più fecondo
Sinceramente ti dico
Mia amata
Qui nessuno c’è per nessuno
Le vie sono infette
E la povertà ha scambiato
Corpi per pane
Infanti per rame
Forse anche tu comprendi
Mia amata
Che in mezzo a tutta questa miseria
Non si trova spazio
Nemmeno fra le righe
Del cappotto di lana
Di un Karzai qualunque
Qui il mondo è giunto al termine
E se guardi bene
Mia amata
puoi leggerne la fine
fra i solchi del mio viso.
Nota. Alcuni dei giornalisti morti nella strage sono: Mustafa Rasuli, Baqer Mohammadi, Enayat Human, Nawroz Hasani, Zaher Memar, Sharif Dawlatshahi e Ahmad Sharif Doulatshahi.
Chi volesse avere più informazioni sugli Hazara o dare un contributo agli Hazara per curare i feriti della strage dello scorso 23 luglio, si può rivolgere a www.youcaring.com e alla pagina FB Hazara People o di Basir Ahang.

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