Se è lecito in materia di leggi elettorali citare il film “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg, allora diciamolo forte: salvate il soldato Italicum, votato in via definitiva alla Camera il 4 maggio 2015 e in vigore dal 1° luglio 2016. Forse perché è ineccepibile e ci aprirà la via a una vita democratica perfetta? O forse per il fatto che i tempi di quest’ultima, grazie a questa nuova legge elettorale, potranno essere scanditi con la precisione di un orologio atomico? Niente di tutto questo, naturalmente.
D’altronde, nessuna legge elettorale può ambire a tanto; e questo per la semplice ragione che tutte sono parziali, esprimendo diverse accentuazioni interne alla cultura politica democratica: ad esempio, democrazia partecipativa contro governante. Il fatto è che esse, siano proporzionali, maggioritarie o miste (Italicum, ad esempio), necessariamente incorporano, a conferma di quanto detto, scelte alternative seppure interne ai valori propri della “libertà dei moderni” (democrazia rappresentativa). In particolare, nel costruire una legge elettorale ciò emerge quando si opta tra il dare preminenza al diritto di tribuna delle minoranze; oppure alla loro eventuale capacità d’incidenza (la democrazia dei veti) nel processo politico; o, infine, premiando la “forza” dell’esecutivo, in primis intesa come la capacità di un governo di gestire la propria maggioranza parlamentare.
Non a caso, a tal fine risulta decisiva la scelta di un sistema elettorale, cioè di quei criteri di “contabilità delle preferenze dei cittadini” che traducono il voto popolare in seggi parlamentari (così definendo sia i rapporti maggioranza/opposizione sia quelli tra i partiti numericamente maggiori e minori). La qualcosa porta ad affermare che la discussione sui diversi sistemi elettorali ha una dimensione prioritariamente politica e che, pertanto, l’analisi tecnica debba solo il valutare la coerenza (invero, non sempre è detto che ciò accada) tra i mezzi e i fini scelti dal legislatore elettorale.
In ragione di ciò, senza presumere una neutralità impossibile, specie quando sono in competizione diverse idee di “ottima” democrazia, è possibile provare a ragionare, se non con piena oggettività almeno con logica, sul “tema Italicum” e sulle alternative ad esso. Alla base ci ciò la convinzione che le più recenti critiche a questa legge elettorale, a partire dalla proposta alternativa dello Speranzellum – chiamato così perché ha tra i proponenti l’on. Speranza, leader della minoranza interna al PD) – lasciano dubbiosi. Cosa che riporta a quel “salvate il soldato Italicum” con cui ha preso avvio questo ragionamento.
Un aforisma attribuito a Giulio Andreotti, e per il quale “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende”, pare, infatti, adatto a dar conto politico degli attacchi alla legge elettorale voluta dal premier Renzi; soprattutto, per quella che è considerata la sua pecca peggiore: il possibile ricorso al doppio turno (se la prima lista sta sotto il quaranta per cento dei votanti) per l’assegnazione del premio di maggioranza. Pertanto, l’andreottiano “pensar male” (qui usato più in senso di ipotesi di lavoro che di scetticismo moralista) nasce dal sospetto che la levata di scudi contro l’Italicum sia figlia politica della vittoria del M5s nei comuni di Roma e Torino proprio grazie al doppio turno elettorale previsto dalla legge elettorale per l’elezione dei Consigli comunali e del sindaco.
Certo, tra quest’ultima e quella nazionale vi sono delle differenze tecnico/politiche di rilievo: in primis, punto politicamente focale delle “comunali” sta, più che sul premio di maggioranza, nell’assegnazione via doppio turno di una carica monocratica (il sindaco); mentre, all’opposto, a livello nazionale la posta in gioco, non essendovi l’elezione diretta del premier (un sistema convincentemente duramente criticato da Giovanni Sartori in Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino), è centrata sul premio di maggioranza in seggi. L’altra differenza è nel diverso ruolo che, ai due diversi livelli politici, vi giocano le coalizioni di partito: ampio nei comuni mentre l’Italicum le limita – imponendo l’accettazione di un unico simbolo e un’unica lista – puntando così più sul “partito vincente” che sulla coalizione. Pur tuttavia, al di là di ciò che distingue in materia livello nazionale e amministrativo, pare lecito ritenere che il combinato disposto di doppio turno e vittoria di Raggi e Appennino per il M5s qualche sconcerto l’abbia creato. Proprio in ragione di ciò l’andreottiano “pensar male” appare un’ipotesi di lavoro meritevole di considerazione.
D’altronde, era ragionevole per il legislatore pensare che nel dopo Porcellum* la competizione partitica avrebbe continuato a essere centrata sui tradizionali centrosinistra e centrodestra. Anzi, il legislatore medesimo avrebbe potuto ritenere che il doppio turno avrebbe rafforzato questa tendenza (è l’esperienza francese a suggerirlo) a danno dell’emergente e antisistema M5s (marketing politico, realtà o entrambe?). Va detto chiaramente: nessuno scandalo in simili ragionamenti opportunisti: perché, uscendo di retorica, è semplice verità che le leggi elettorali sono strumenti per ridisegnare l’arena politica inevitabilmente confliggendo con idee e forze sul campo (così Angelo Panebianco, Riforma elettorali e interessi politici, Rivista il Mulino, 3/87); e che, conseguentemente, una riforma in materia, se fatta col consenso di tutti, sarebbe solo un gattopardesco “cambiar tutto per non cambiare niente (in termini d’interessi materiali e/o ideali)”; al massimo, al meglio, potrebbe essere solo una razionalizzazione dell’esistente. In ragione di ciò, se veramente l’Italicum fosse stato concepito contro il M5s, allora esso risulterebbe essere un abbaglio nel rapporto mezzi/fini.
Per il vero, è dubbio che l’Italicum, essendo il frutto di una mediazione destra/sinistra tra progetti reciprocamente elidentesi – dinamica politica ben individuata da Giovanni Innamorati, Il Parlamento. Biografia non autorizzata, Melampo) -, sia nato in funzione anti M5s; a ogni buon conto, resta comunque la curiosità di capire perché la “diga parigina” abbia mancato di arginare i Cinque stelle. Certo, è vero: fin qui in Francia il doppio turno (oltralpe è applicato ai collegi uninominali ma, sotto questo aspetto, la logica sistemica può considerarsi la stessa) ha funzionato proprio sotto-rappresentando in seggi (cioè rispetto alla percentuale dei voti ottenuti) la forza percepita come aliena (un tempo il PCF; ora è/era la Le Pen), escludendola sia da accordi di desistenza (indicazioni di voto da parte dei partiti esclusi dal secondo turno) sia dal voto spontaneo degli elettori di questi ultimo (Domenico Fisichella, Elezioni e democrazia, il Mulino). Il punto è che nulla di ciò può valere per il M5s. Il motivo è semplice: ed è che, se un partito supera il venti per cento difficilmente i meccanismi dis-rappresentativi riescono a funzionare; d’altra parte, se l’onda d’acqua è alta, passa sopra la diga.
Poi c’è il fatto che il M5s, dandosi un profilo ideologico piuttosto compatibile con spezzoni di destra come di sinistra, nonché puntando molto sul NO alla Casta (un capolavoro di marketing politico), è diventato nel mercato elettorale una sorta di catch all party perfetto per godere dei benefici insiti nella logica del secondo turno. E proprio per questo è possibile che le riflessioni critiche sulla legge disciplinante l’elezione della Camera dei deputati ora in vigore siano state almeno stimolate dal risultato delle amministrative di Roma e Torino. Ebbene, se pure le proposte anti Italicum fossero focalizzate su questa ristretta prospettiva (anti M5s), ma sarebbe limitativo pensarlo, ebbene mancherebbero con buona probabilità l’obbiettivo.
A esse va comunque riconosciuto il merito, considerando che l’Italicum è sub judice della Corte costituzionale, in specie nel caso di una decisione avversa della Consulta, di tenere aperta la discussione e di disporre di progetti alternativi alla legge in vigore; altrimenti, in assenza dell’intervento del legislatore, c’è il rischio di dover votare con un redivivo Consultellum, il sistema elettorale risultante dagli effetti sul Porcellum della sentenza della Corte Costituzionale 1/2014: in poche parole, sarebbe il pieno ritorno alla proporzionale pura. Precisamente, una bella incognita in termini di governabilità (Giovanni Innamorati, ytali): infatti, votare con la proporzionale senza correzioni in un sistema partitico, com’è quello del Belpaese, relativamente balcanizzato (tripolare e/o quadripolare), dove per di più con un suo attore decisivo numericamente (il M5s) esclude alleanze, fatalmente porterebbe la Penisola a un’alternativa pessima: o “coalizioni Arlecchino”, cioè fragili, o il continuo ricorso a elezioni anticipate, per la gioia di Mister Spread.
Ciò posto, poiché nessun sistema elettorale, Italicum compreso, può ritenersi scritto sulla pietra (quasi si trattasse dei Dieci Comandamenti), ragionare sulle varie ipotesi in campo, anche in vista, come detto, della prossima sentenza della Consulta, è opportuno. Per questo, merita analizzare da vicino lo Speranzellum; anche perché esso, secondo l’intendo dei suoi autori, si pone come “modello apripista” di soluzioni, in materia, alternativa alla vigente. Tuttavia, restano pesanti dubbi che si tratti di un superamento in positivo, soprattutto in termini di efficacia politica (sempre data da un buon rapporto tra rappresentanza e governabilità) della normativa in essere. Ma senza particolari pregiudizi a favore di quest’ultima; solo si dubita delle alternative. Per questo tuttora resta l’iniziale appello del “salvate il soldato Italicum”.
Che ha i suoi limiti (individuati da Giovanni Innamorati, ytali); tant’è che, nel ragionare di doppio turno di lista, sarebbe stato interessante riprendere (ma a ciò ostavano gli equilibri della politica, che non sempre portano al meglio) il filo della riflessione e riconsiderare anche la proposta di alcuni anni orsono del prof. Pasquino (per il vero oggi duramente critico dell’Italicum fino a negarne “somiglianze di famiglia” rispetto al proprio), centrata anch’essa su due turni elettorali: al primo venivano assegnati 400 seggi di una ipotetica Camera di 500 parlamentari, con metodo proporzionale, ma in circoscrizioni ridotte (quatttro seggi circa in palio) e, conseguentemente, correttive della proporzionale; e su un secondo turno dove la coalizione vincente avrebbe ottenuto 75 seggi, la seconda 25 su cento, poi attribuiti tra i partiti alleati proporzionalmente. Qui, per il vero, le coalizioni, diversamente che per l’Italicum, sono centrali; e questo fa una forte differenza politica. D’altronde, quando il progetto fu scritto, e indipendentemente dal giudizio scientifico dello studioso sulle coalizioni medesime, vigeva la Prima repubblica, quando la logica di coalizione era politicamente imprescindibile (Riflessioni ora riportate in Pasquino, Partiti, istituzioni, democrazie, il Mulino, 2014). Ciò posto, resta che la “filosofia”, e, soprattutto, la meccanica di contabilità elettorale dell’Italicum almeno un merito ce l’ha: offrire comunque agli elettori la possibilità di scegliersi un governo garantendo come esito il formarsi di una maggioranza parlamentare (non a caso, fatte le debite distinzioni, esso si si ispira al modello “governo dei sindaci”), però limitando il successo del vincitore ad un premio di maggioranza vincolato al 54 per cento dei seggi totali (635). Non è un risultato da poco.
Quanto poi alle accuse di poca o, addirittura, grave anti-democraticità, neppure queste sembrano reggere; difatti, nonostante queste, l’Italicum potrebbe far vincere, basta si ripeta una combinazione di eventi analoga a quella prodottasi a Roma e a Torino, una forza politica nuova (in senso temporale) com’è il M5s. Infine, neppure, regge l’obbiezione che, essendo il sistema partitico del Belpaese ormai tripolare o, addirittura, quadripolare, mentre invece il doppio turno dell’Italicum presuppone il bipolarismo, perciò stesso ne conseguirebbe l’opportunità di cambiarlo. Probabilmente, è vero il contrario: infatti, pure col tripolarismo il doppio turno garantisce la governabilità (come i casi di Roma e Torino ancora una volta mostrano). Caso mai, col tripolarismo l’interrogativo da porsi non dovrebbe riguardare tanto l’Italicum quanto, piuttosto, i possibili effetti sistemici di un, appunto, tripolarismo anomalo come l’italiano dove, ecco il punto, un suo polo decisivo, il M5s, rifiuta (diversamente dalla Le Pen) di collocarsi lungo in continuum destra/sinistra su cui si sono costruite le democrazie. Qui però l’ingegneria elettorale può poco; al massimo tamponare qualche falla di governabilità (condizione d’esistenza) del sistema politico in quanto la sua dinamica risponde a variabili su cui essa agisce solo parzialmente. Insomma, se lo Speranzellum, e correlati, fossero nati esclusivamente per lo “shock da M5s”, sarebbero figli di una grande illusione: a parità di condizioni (l’attuale suo peso elettorale) esso è, ricordiamolo ancora, difficilmente sottorappresentabile ricorrendo all’ingegneria elettorale. In più, c’è il rischio che, nella fretta di sostituire il peraltro appena votato Italicum, si abbracci un sistema elettorale il cui risultato, invece di migliorare la governabilità, la riduca: un paradosso da evitare. Vale per i sogni iper proporzionalistici, più adatti a un paese (come fu l’Italia dalla Costituente alla fine della Guerra fredda) spaccato in due per riferimenti politico/militari opposti (USA e URSS) e dove, quindi, il Parlamento faceva da camera di compensazione per conflitti altrimenti dai possibili esiti drammatici (Luca Ricolfi, Barbara Loera, Silvia Testa, L’Italia al voto. Le elezioni politiche della Repubblica, UTET); ma anche per lo Speranzellum che, in aggiunta, ha molti dei difetti (cattivo rapporto elettori/eletti, ad esempio) attribuiti all’Italicum.
La cui imputazione peggiore è quella di trasformare, grazie al premio di maggioranza, una lista con meno del cinquanta per cento del voto popolare, in una maggioranza elettorale artificiale. Ma è così sbagliato? O, forse, non è questa la regola base – le grandi coalizioni sono eccezioni per necessità – di tutte le democrazie (ad esclusione di paesi come il Belgio dove la logica politica deve adattarsi alle fratture etnico/culturali e linguistiche)?
In altri termini, qual è il valore politico che il legislatore ha voluto così tutelare con l’Italicum? In primo luogo, quello di produrre una “maggioranza base” parlamentare (poi ampliabile per accordi) riducendo il numero di partiti necessari per raggiungerla (la lista unica al posto della coalizione è la differenza prima rispetto al Porcellum con le sue maggioranze, di destra come di sinistra, fragili perché frammentate); e, in conseguenza di ciò, poter avere alla Camera una maggioranza politica più governabile (cioè meno ricattabile dagli alleati) dal leader del primo partito, così automaticamente premier. In sostanza, un’applicazione all’Italia del “modello Westminster” di primazia dell’esecutivo che dalle Isole britanniche è progressivamente divenuto parte essenziale del parlamentarismo contemporaneo. Poi, visto che comunque una maggioranza potrebbe ampliarsi, evitare che le forze minori abbiano un potere di coalizione troppo superiore al loro peso politico reale (il caso Prodi/Rifondazione e il collasso del suo governo).
Certo, ha ragione in via di fatto Giulio Tremonti quando afferma che la “tecnica dei premi elettorali si basa su di una finzione politica, che trasforma la minoranza in maggioranza. A fin di bene, naturalmente: per assicurare che ci sia comunque un governo” (Giulio Tremonti, Linkiesta, 1 agosto); com’è vero che, crollando il numero dei votanti, gli esecutivi, come espressione di una loro minoranza, rischiano una sostanziale illegittimità. Tuttavia, come detto, contro la disaffezione dei cittadini l’ingegneria elettorale può poco o nulla. Cui aggiungere che, in termini di meccanica di sistema politico/partitico che di sua legittimazione, la variabile critica è la resa delle politiche pubbliche e la credibilità dei suoi attori partitici: insomma i metodi di voto sono tutto meno che la soluzione. E neppure è detto che l’alternativa ai “governi di minoranza” (in termini di voto popolare) funzionino peggio di altre situazioni – coalizioni Arlecchino, di loro instabili; le unità nazionali; il continuo ricorso alle urne – proprio in termini di legittimità. Tant’è che, proprio guardando al Belpaese, ovvero dati gli attuali equilibri parlamentari e politici, probabilmente l’Italicum è, quantomeno, accettabile per evitare ulteriori degradi del suo sistema politico. Salvo, naturalmente, l’emergere (nel senso del politicamente fattibile) di proposte migliori; cosa che, tuttora, non sembra sia avvenuta.
Anche perché, se l’alternativa ad esso, è di puntare a un Mattarellum 2.0, di fatto questo è lo Speranzellum, allora i dubbi sono molti e tutti leciti. Oltre a tutto senza dimenticare che, una volta riaperto il vaso di Pandora della discussione elettorale (ora, però, la palla del gioco l’ha la Consulta), facilmente riemergerebbe una forte deriva verso un proporzionalismo puro che, con un PD in affanno, una sinistra/sinistra condizionante, un centrodestra forse con più teste alle elezioni e, per ultimo ma non per importanza politica, un partito/movimento, il M5s escludente alleanze, veramente renderebbe il fare solide alleanze di governo una sorta di “Mission impossible”. In sintesi, quello della proporzionale finirebbe per essere una deriva provinciale destinata ad andare a sbattere sul “muro dei mercati”: cioè, un quasi suicidio della democrazia italiana. In fin dei conti, il pericolo è che lo Speranzellum, che si può ritenere un cattivo maggioritario, sia alla fine una sorta di apriporta del proporzionalismo. Ciò posto, e tornando alla Speranzellum in sé, il problema è che esso appare pare poco e male attrezzato rispetto a ciò per cui è stato creato: risolvere i punti critici dell’Italicum.
Per vedere chiaro: lo Speranzellum, come l’Italicum, è ascrivibile alla famiglia dei sistemi misti, solo che mentre quest’ultimo associa alla proporzionale un premio di maggioranza, il primo, paradossalmente, combina assieme un sistema maggioritario – l’uninominale inglese dove il primo vince tutto il collegio anche se avesse solo un 25/30 per cento dei voti (plurality) – ad un premio di maggioranza di lista. Francamente, un mix forzato e poco logico; probabilmente, anche mal operante. Nel dettaglio, lo Speranzellum prevede l’assegnazione di 475 collegi col plurality; dodici verrebbero eletti nei collegi esteri; infine, i restanti 143 seggi verrebbero assegnati col premio di maggioranza. Novanta alla prima lista e/o coalizione; trenta alla seconda e 23, proporzionalmente, alle forze che avessero ottenuto meno di venti seggi con l’uninominale ma avessero superato il due per cento di voti. Insomma, lo Speranzellum vorrebbe essere una sorta di Mattarellum 2.0; ad esso, invero, si richiama; purtroppo, però, anziché correggerne i difetti li aggrava. Difatti, se pure quest’ultimo si strutturava in due fasi, purtuttavia esso alla fase maggioritaria associava un forse troppo complesso recupero di proporzionalità (un contributo al realismo dello stato politico dell’Italia dei primi anni ’90); mentre, all’opposto, lo Speranzellum somma, come detto, due maggioritari. Tra l’altro con un premio per il vincitore pari al massimo al quattordici dei seggi ottenuti tra plurality e voto di lista: curiosamente, è più di quanto preveda il supposto autoritario Italicum. Tuttavia, la vera domanda è: ma con lo Speranzellum ci sarebbe sicuramente un vincitore? Inoltre, non potrebbe essere che l’uninominale all’inglese così rivocato esponga il PD a fare il tacchino che si autoinvita al pranzo di Natale?
Naturalmente, essendo quella della minoranza PD una proposta di discussione e non un progetto fatto e compiuto, è sulla linea di marcia proposta, più che su specifici aspetti tecnici, che si deve riflettere. Bene: alla base dello Speranzellum, oltre al rigetto del doppio turno di lista, sta, ed è il suo principale difetto ereditato dal Mattarellum, il recupero del sistema elettorale con cui fu inaugurata quella Seconda Repubblica promessa, grazie al plurality, bipolare, quasi bipartitica, nonché priva di alternative antisistema. Peccato che, e il plurality centra eccome, le cose siano andate diversamente; così, al posto del sogno di due fronti elettorali contrapposti nella moderazione (il “modello Westminster” degli anni d’oro) capitò che (merita qui riprendere per lucidità le parole di Mauro Calise, Dopo la Partitocrazia, Einaudi) “la pubblica opinione si trovò rapidamente alle prese con un processo confuso e frenetico di scissioni e riaggregazioni tra le vecchie forze politiche”. Cosicché il risultato finale fu la nascita di coalizioni di destra e sinistra più composite che mai e, perciò, contraddittorie nelle politiche pubbliche da attuare: in sintesi, meno governabilità perfino rispetto a quella talvolta offerta dal vecchio pentapartito della Prima Repubblica. Fu questo un caso? No, perché a molto contribuì, meglio ripeterlo ancora, l’uninominale all’inglese che – come subito lanciò l’allarme Giovanni Sartori (Rivista italiana di scienza politica, 1991) –, se applicato fuori dal contesto di un bipartitismo d’acciaio com’era quello un tempo caratterizzante il sistema politico britannico. Insomma, quello che si ottenne nel Belpaese fu una sorta di “Westminster spaghetti” deludente. Il punto merita attenzione perché proprio qui si annidano, paradossalmente, due rischi opposti; ma entrambi possibili dato, che il nostro sistema partitico oscilla tra competizione tripolare e balcanizzazione.
Il primo, se lo Speranzellum funzionasse secondo gli auspici dei suoi proponenti, è che esso potrebbe urtare contro la sentenza della Consulta che ha affondato il premio di maggioranza del Porcellum; il motivo è che l’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione vincente è attribuito a prescindere dal raggiungimento di una soglia minima di voti, prerequisito essenziale, per la Corte stessa, affinché il premio sia legittimo costituzionalmente. L’altro pericolo è che lo Speranzellum produca, in apparenza è cosa strana ma possibile, un’elezione senza vincitori. Potrebbe capitare in quanto la ratio del plurality è di funzionare in senso si maggioritario, ma a livello locale: è qui, difatti, che il primo che arriva in voti “salta l’asta” e vince tutta la posta; le altre minoranze, anche se sommate assieme arrivassero a superare il sessanta per cento perderebbero tutto; ma questo, appunto, localmente. E a livello nazionale? Dipende; nel senso che, se i partiti sono di tipo localistico, allora si avrà un Parlamento frammentato in più aree politiche; viceversa, se la competizione è “disciplinata” da due forti partiti (modello Westminster classico), il risultato sarà bipolare e tendente al bipartitismo. In Italia oggi il sistema partitico è, al minimo, tripolare; vuol dire che, come suggerisce il prof. D’Alimonte (Sole/24ORE, 20/7/2016), lo Speranzellum neppure con la stampella del doppio maggioritario può garantire con certezza che l’intreccio tra competizione nel plurality (dove tutto si gioca per “un pugno di voti”) e maggioritario di lista garantisca un vincitore certo.
A parte questo, cioè se lo Speranzellum possa funzionare in termini di garanzia di governabilità, resta in campo l’ipotesi del “tacchino PD autoinvitatosi al pranzo di Natale”. Il motivo è semplice; ed è che nulla può escludere, con una destra ricompattata, che quest’ultima e il M5s si spartiscano tra loro i collegi uninominali. In fondo, il Mattarellum 1.0 fu votato da DC, PSI, PSDI, PLI; e sappiamo come finì per loro. Gli Dei non vogliano che la minoranza del Pd, come il Topolino apprendista stregone di Fantasy di Walt Disney, ottenga il paradossale esito, magari per combattere l’antisistema M5s, di mettere essa stessa ed il partito fuori dal sistema.
Naturalmente, vi sono molte altre proposte di cambiare l’Italicum, e spesso dagli stessi che l’hanno appena votato (perché l’avranno fatto, allora?); il guaio è che finora paiono peggiorative non solo dell’Italicum (migliorabile) ma dello stesso Speranzellum. I sistemi elettorali sono cosa delicata; è facile farsi male. Ora non resta che attendere la Consulta. Comunque, allo stato delle proposte in essere – e di cui lo Speranzellum fa da apri strada teorico – resta il “salvate il soldato Italicum”: perché si può sempre fare peggio.
*la cosiddetta legge Calderoli del 21 dicembre 2005, introducente, ma con modalità diverse rispetto all’Italicum, un sistema elettorale misto – proporzionale corretta dal premio di maggioranza -, cui va riconosciuto, al di là dei limiti di costituzionalità colti dalla Consulta, di aver aiutato, stabilizzando le maggioranze alla Camera, momenti di, seppure difficile, governabilità al Paese.

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