
Halim Maliki, capitano del Flora (foto cortesia di CTXT)
Il 7 agosto del 1991, Eva Karafili – appena venticinquenne e recentemente laureata in economia, con una vita stabile – decise che se ne andava da Tirana. Lei e suo marito, Apostol, ebbero appena il tempo di prendere i documenti, cinquanta dollari, un cambio e una bottiglietta di succo di frutta. Non era un viaggio pianificato.
Era corsa voce nella capitale albanese che una nave grande aveva attraccato a Durazzo, il principale porto del paese, appena a 35 chilometri. In un paese isolato per decenni, con una flotta scarsa, questo cargo che, secondo i rumors, stava per salpare, rappresentava un’opportunità unica. Eva e Altin non sapevano che il mercantile al quale si dirigevano si chiamava Vlora e che andavano a condividere il loro viaggio con altri 18mila albanesi che, come loro, partirono con esso.
Ignoravano che il suo viaggio si sarebbe convertito in un’odissea di vari giorni, una delle prime grandi “crisi di rifugiati” – come le si chiama ora – alle quali l’Europa dovette far fronte. Quel mercantile, pieno a tal punto che i suoi passeggeri tappezzavano la coperta, si arrampicavano sugli alberi, si appendevano alle gomene, fu un anticipo felliniano delle situazioni quotidiane che si vivono oggi nel Mediterraneo.
Un’immagine familiare che nel 2015 arrivò a circolare nei social come se rappresentasse quello che stava accadendo in Grecia in quel momento: gli albanesi furono i siriani, gli iracheni e gli afghani dell’inizio degli anni ’90.
In quell’estate il muro di Berlino era caduto da un anno e mezzo, la disintegrazione dell’URSS era imminente e la decomposizione della Jugoslavia era all’orizzonte.
In Albania la transizione dal socialismo al capitalismo era appena agli inizi, e la situazione politica e economica era caotica. Questo paese di appena tre milioni di abitanti aveva avuto uno status speciale nel blocco socialista. Nel 1961 Enver Hoxha – che governò il paese con pugno di ferro dal 1945 fino alla sua morte nel 1985 – ruppe le relazioni con l’URSS quando questa criticò lo stalinismo.
L’Albania – mediterranea, balcanica – era un paese di paradossi: musulmano e cristiano, nel 1967 fu dichiarato il primo stato ateo del mondo. Dopo essere stato considerato per anni la Corea del Nord europea per il suo ermetismo, si aprì improvvisamente al capitalismo.
“Per noi, il cambio di sistema fu un terremoto. La gente non aveva mezzi per vivere in un sistema nel quale non era cresciuta”, commenta Eva mentre guida la sua Volkswagen Polo per Bari. Alle prime ore del 7 agosto, lei è Altin si unirono al gocciolio di persone che ricorrevano la strada Tirana Durazzo. Oggi questa distanza la copre una autostrada molto trafficata. 25 anni fa le auto in Albania erano un lusso raro.
Poco a poco nel porto di Durazzo si andavano accumulando migliaia di persone. Halim Maliqi, capitano del Vlora, era a bordo a controllare lo scarico dello zucchero portato da Cuba da alcuni giorni.
Sentii che fuori dal porto c’era molta gente che voleva organizzare una partenza. La nave aveva bisogno di manutenzione al motore principale che non funzionava. Chiamai il vice direttore della flotta mercantile albanese che mi disse: Continua a scaricare, non ti preoccupare
racconta Maliqi in un caffè sul lungomare di Durazzo. Sullo sfondo l’imboccatura del porto.
Il capitano oggi ha 64 anni e dirige una agenzia marittima. Fuma lentamente come parla. Prese il vizio nel 1994 quando lasciò il mare. “Mai ho fumato quando ero marinaio” ride.
Nonostante le avvertenze di Maliqi, la polizia non impedì che migliaia di persone entrassero nel porto e salissero sulla nave.
Anche i soldati, che erano armati, volevano entrare. Due persone salirono per i cavi di ormeggio e una di loro mi chiese perché non volevo abbassare la passerella. Gli risposi che la nave non poteva navigare. Mi chiese che abbassassi la passerella di imbarco e gli risposi di no. Mi lanciò un cacciavite sulla gamba e tornò a chiedermelo. Gli segnalai il comando: Abbassala tu,
ricorda il capitano. Il mercantile si riempì rapidamente. Poco dopo, Halim sciolse gli ormeggi e la nave si allontanò alcuni metri dal molo. In quell’istante, Eva e Altin arrivarono a Durazzo.
Quando entrammo nel porto, la nave già era piena. Il problema era come salire. Stava poco lontano dal molo e l’unica soluzione per afferrare una corda era buttarsi in acqua, prenderla e salire. Mio marito mi chiese: “Ce la fai a salire con la corda?”. Gli risposi di sì,
racconta Eva.
Robert Budina era studente di Belle Arti a Tirana, aspirante regista teatrale. La notizia che raggiunse Eva a Tirana arrivò anche alle sue orecchie in una spiaggia a pochi chilometri da Durazzo.
Tutti andarono dalla spiaggia al porto. Io ci arrivai con tre amici, e potei salire solo grazie a una corda che collegava la nave a una gru,
racconta nella terrazza del giardino del Kinema Millennium, nel centro di Tirana, città dove vive e lavora come regista cinematografico.
Minacciato di morte, il capitano del Vlora ordinò al suo capo meccanico che facesse il possibile affinché il motore principale potesse navigare.
Verso le 16, il motore era pronto. Levai l’ancora e lasciai il porto. Nessuno, né il capitano del porto né la polizia, ci fece caso,
osserva Maliqi. Il Vlora salpò facendo rotta per Brindisi, il porto italiano più vicino, a 150 chilometri da Durazzo. Il mare era calmo e la nave, col suo carico di circa tremila chilogrammi di zucchero e 18mila persone, avanzò lentamente. La traversata durò tutta la notte.
Eva e Altin avevano trovato un angolo in coperta.
Il viaggio fu molto sereno nel silenzio. La gente a bordo si aiutava. C’era chi non aveva da mangiare e quelli che lo avevano lo dividevano. Io non volli nulla. Avevo il mio succo. Non si vedeva che gente e cielo. Sembrava che stessimo volando,
racconta Eva.
Anche Robert e i suoi amici si installarono in coperta. “Ero contento. Per la prima volta lasciavo alle spalle la merda dove avevo vissuto fino ad allora..”, osserva. All’alba dell’8 agosto, il Vlora si avvicinò a Brindisi, scortato da vicino dalla nave militare italiana Euro.
Gli ordini – ricorda Maliqi – furono chiari: non ero autorizzato ad attraccare e dovevo tornare in Albania.
La gente mi chiese che comunicassi alle autorità italiane che non saremmo tornati indietro. Dal porto mi dissero che a Bari, a 120 chilometri, stavano organizzando lo sbarco. Cambiai rotta,
racconta Maliqi.
Dalle 5 del mattino, Nicola Montano è un aiutante aspettavano nel molo esterno del porto di Bari.

Nicola Montano (foto cortesia CTXT)
Montano era il capo della Polizia della Dogana del porto e nel cuore della notte aveva ricevuto una telefonata che lo avvertiva che un mercantile stipato di rifugiati albanesi si avvicinava alla città.
Faceva caldo e, sopra la distesa marina, la nebbia rendeva difficile la visibilità. L’attesa durò varie ore.
C’era nebbia e non si vedeva oltre i mille metri. All’improvviso vidi come la nave iniziava ad uscire dalla nebbia poco a poco. C’era gente aggrappata sugli alberi. Erano circa le 10:30,
ricorda l’ispettore di polizia, ora in pensione.
Montano vide come il mercantile si avvicinava a dove lui si trovava. La nave militare Euro tentò di chiudergli la strada, ma il mercantile non si fermò.
Dissi loro che non potevo fermare, che avremmo avuto una collisione e che ci sarebbe stato un grave incidente. Dovevo entrare in porto, non c’era altra soluzione. Durante l’imbarco era morta della gente e, nonostante questo lo venissi a sapere in seguito, ero cosciente del pericolo dello sbarco,
ricorda il capitano.
Nicola e i suoi compagni assisterono a uno spettacolo insolito: migliaia di albanesi – ammassati, stanchi e affamati – credendo che non sarebbero tornati indietro, scoppiarono di allegria.
Gridavano: Viva l’Italia! Sembrava di stare in uno stadio dove giocava la nazionale, però i tifosi non erano italiani ma albanesi su una nave. Fu un momento di riflessione anche bello. Come era possibile che nonostante la loro situazione fossero tanto felici? Non avevano letto i giornali italiani che dicevano che gli albanesi dovevano fare ritorno a casa?
Dice Montano, con il molo del porto di Bari, deserto in questa mattina di luglio, alle sue spalle.
Il Vlora – il mercantile con maggior quantità di rifugiati che mai è giunto in Italia – oltrepasso’ le previsioni. In marzo era avvenuto un “primo esodo” – come lo chiama Maliqi – e l’Italia – governata dal democristiano Giulio Andreotti – aveva concesso asilo temporaneo a più di 20mila albanesi. L’applicazione della legge sull’immigrazione fu implacabile con i passeggeri del Vlora e il governo italiano ordinò il rimpatrio immediato.
La mattina dell’8 agosto, sul molo non ci stava più un’anima e il mercantile sembrava ancora pieno. Le autorità – racconta Montano – confiscarono le armi che c’erano a bordo e cominciarono a trasferire parte dei rifugiati allo Stadio della Vittoria, vicino al porto. Gli arrivati di recente non sapevano che la loro sorte era stata già decisa.
Quando si resero conto che dovevano essere restituiti all’Albania cominciarono a ribellarsi. Ci furono scontri, alcuni duri, tra la polizia e gli albanesi, corpo a corpo, che durarono vari giorni,
rammenta Montano, che raccontò i dettagli di quei giorni nel suo libro “Ladri di stelle: storie di clandestini e altro”.
Dopo lo sbarco, Eva finse uni svenimento. Robert e i suoi amici riuscirono a montare in un autobus che trasportava rifugiati allo stadio. Pensarono che li la situazione sarebbe stata più tranquilla. Erano in errore.
Era impossibile distribuire cibo in forma ordinata a 10mila persone e lo lanciarono con gli elicotteri. Alcuni degli albanesi erano delinquenti. Iniziarono ad accaparrarselo e questo si trasformò in anarchia, la solidarietà’ tra di noi ebbe fine ed ebbe inizio la guerra tra gli albanesi,
ricorda Robert.
Le deportazioni cominciarono quasi immediatamente. La sera del 9 agosto, un giorno dopo lo sbarco, più di 5100 albanesi erano stati rispediti al loro paese per via area o per mare. Il giorno 18, l’operazione era praticamente conclusa. Da Bari furono rimpatriati più di 15500 albanesi. Nicola Montano calcola nel suo libro che circa tremila riuscirono a fuggire dal porto e dallo stadio.
Eva e Altin, Robert e i suoi tre amici furono tra questi. Scapparono dallo stadio e si addentrarono nelle strade di Bari, dove cominciò la loro vita da clandestini.
Il viaggio della nave fu un giorno, nulla. Il viaggio veramente difficile fu quello successivo, la vita da clandestino. Per me la vita cambiò in peggio. Però la vivevo con serenità e dignità. Era una mia scelta e la assumevo senza tragedia
racconta Eva.

Eva Karafili (foto cortesia CTXT)
25 anni dopo, lei e suo marito continuano a vivere a Bari, dove e’ nata la loro figlia. Quando le si chiede se tornerebbe a imbarcarsi sul Vlora, la risposta è un sì convinto. La stessa sicurezza che usa quando nega la possibilità di far ritorno in Albania.
Robert, al contrario, ritornò in Albania due anni dopo il suo sbarco a Bari. Abbandonando l’Italia, consegnò i suoi documenti di residente a un sorpreso poliziotto della dogana. Voleva evitare la tentazione di tornare ad emigrare.
Il Vlora e il suo equipaggio rimasero “sequestrati” 45 giorni a Bari. Il governo italiano temeva che si producesse un altro esodo se il mercantile avesse fatto ritorno a Durazzo. Halim Maliqi ricorda che le autorità italiane gli offrirono di restare. Lui rifiutò l’offerta, voleva continuare il suo lavoro in Albania. Nel 1994 fece il suo ultimo viaggio come capitano, sempre a bordo del Vlora, con destinazione la Nigeria.
Un quarto di secolo dopo aver attraversato l’Adriatico con un carico di 18mila persone, Maliqi è pessimista sul futuro del suo paese. Nonostante la sua candidatura a far parte della UE, il reddito medio dell’Albania – circa 11mila dollari annui – continua ad essere un terzo meno della media comunitaria.
Le grandi migrazioni ebbero luogo all’inizio e alla fine degli anni ’90, quando circa mezzo milione di albanesi si installarono in Italia e altrettanti in Grecia. Le immagini del Vlora sono cosa del passato per molti in Albania. Senza dubbio, questo paese europeo fu il principale paese emissore di richiedenti asilo nella UE dopo della Siria, Iraq, Afghanistan tra il primo trimestre del 2015 e lo stesso periodo del 2016. Per quelli che parteciparono all’”esodo del Vlora”, la crisi dei rifugiati attuale porta l’eco di tempi non tanto lontani.
L’emigrazione è avvenuta per secoli e continuerà a esistere fino a che finiranno le differenze economiche nel mondo. Quello che succede in Siria è connesso con la storia di come l’Europa ha agito in questi paesi. Per questo la guerra non è solo la sua guerra. E’ pure la nostra guerra
osserva Robert Budina.
Montano, che divide il suo tempo di pensionato tra i suoi olivi e l’attivismo per la chiusura dei Centri di Identificazione e Espulsione degli Immigranti (CIEs), traccia una linea diretta tra la situazione dei rifugiati albanesi negli anni ’90 e quella attuale.
Nella mia opinione è cambiato poco o nulla. Sono cambiate un poco le leggi. A quell’epoca, nel 91, si creò l’emergenza albanese e ora esiste l’emergenza africana; continuiamo a parlare in termini di emergenza. Credo che l’Europa deve guardare alla immigrazione come a un fatto che si sviluppa lungo il tempo e governare quell’immigrazione in una forma più umana e più intelligente. E non c’è bisogno di inventare nulla, esiste già la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L’alternativa è prendere coscienza che questo fenomeno non lo trattieni con la forza. Non lo chiudi con muri,
conclude alle porte dello Stadio Vittoria. Quello stesso che nell’agosto del 1991 accolse migliaia di albanesi che transitavano verso la loro deportazione.
TIRANA / BARI 3 AGOSTO 2016
L’articolo appare su CTXT, che ringraziamo sentitamente
Traduzione di Claudio Madricardo

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