È tuttora lo scrittore straniero più venduto in Italia, come nei giorni scorsi ha confermato in televisione l’editore Stefano Mauri (Gruppo GeMS). Solitamente, secondo un ritratto superficiale e riduttivo, buono in verità solo per una sintesi giornalistica, Georges Simenon viene semplicemente indicato come “il padre di Maigret”. Ma in realtà la definizione che più si addice allo scrittore di Liegi, rimane quella formulata da un anziano critico francese che parlò di lui come del “Balzac del ventesimo secolo”. André Gide, dal canto suo, chiese all’Accademia reale del Belgio di candidarlo al premio Nobel per la letteratura.
La sua lunga vita di scrittore premiato da un successo planetario senza precedenti (quasi settecento milioni di copie vendute, tra romanzi, racconti diari e memorie) lo espose però anche ad analisi meno favorevoli, a volte impietose, man mano che scavando nella sua vita privata e in quella pubblica, emergevano aspetti discutibili, poco lusinghieri o in alcuni casi assolutamente riprovevoli. Una vita segnata da un traumatico rapporto con la madre, dal suicidio di una figlia, da una vita sessuale compulsiva ( “ho avuto tredicimila donne, più di una al giorno…l’ottanta per cento erano prostitute”, confessò lo scrittore) che alienò in parte la simpatia dell’opinione pubblica nei suoi confronti. Proprio come volevano i suoi detrattori che, nei loro articoli di denuncia, non tralasciarono di dedicare ampio spazio al salvacondotto che Simenon fece concedere durante la guerra al fratello “collaborazionista” Christian, quando le cose per gli occupanti tedeschi e i loro alleati di Vichy cominciarono a mettersi male.
Fanatico fascista della prima ora e collabò filonazista impegnato a fianco dei tedeschi nella lotta al maquis, il ragazzo riuscì a fuggire dalla Francia e ad arruolarsi nella Legione straniera evitando la sentenza capitale emessa in contumacia da un tribunale della Francia liberata e scegliendo poi di andare a cercar ‘la bella morte’ nella guerra d’Indocina
Ma le vere accuse, quelle “infamanti” che, forte del suo potere editoriale e di amicizie influenti, Simenon riuscì in parte ad eludere (fuggendo alla fine della guerra negli Stati Uniti per evitare un processo) furono il suo antico antisemitismo, documentato da diciassette articoli giovanili pubblicati su un quotidiano del Belgio conservatore e cattolico alla fine degli anni venti, e il suo asserito collaborazionismo con gli invasori tedeschi.
Sotto il titolo “Le péril Juif”, il giovane Simenon scriveva tra l’altro sulla Gazette de Liège: “Si può affermare che il ruolo degli ebrei nella finanza internazionale non è frutto dell’immaginazione… la verità è che il pericolo giudaico esiste e le forze nazionali, soprattutto quelle cattoliche devono combatterlo”. Per quel foglio cattolicissimo gli ebrei erano “i peggiori e maledetti nemici di Cristo” e Simenon, nella redazione dei suoi pezzi, fece spesso riferimento ai famigerati Protocolli dei Savii di Sion, documento apocrifo messo in circolazione dalla polizia segreta zarista per screditare e diffamare gli israeliti di tutta Europa. Simenon riconobbe la paternità di quegli articoli (e cos’altro poteva fare?) ma tentò di giustificarsi evocando l’atmosfera di diffuso antisemitismo imperante nella cattolicissima parte francofona del suo paese e la sua giovane età.
Dopo oltre dieci anni, per fuggire dai bombardamenti della Luftwaffe, Simenon cercò rifugio in Vandea e nella Charente, oramai sotto il controllo tedesco e non lontane dalla Francia di Vichy. E, a La Rochelle, lo scrittore trovò non solo un rifugio ma anche la simpatia dei tedeschi, consapevoli del suo passato antisemita, che approfittarono della sua presenza per nominarlo “responsabile dei rapporti” con i profughi belgi fuggiti dal loro paese poco prima dell’invasione della Wehrmacht e “ospitati” in un “campo di raccolta prigionieri”. Un racconto, “purgato” di ogni riferimento alle sue presunte responsabilità, lo scrittore lo darà nel suo toccante romanzo Il treno. Simenon, secondo le accuse formulate contro di lui a guerra finita, accettò il suo lavoro “da buon collaborazionista” approfittando inoltre del denaro della Casa di produzione cinematografica tedesca Continental (ai diretti ordini di Hitler e Goebbels) per finanziare alcuni film tratti dai suoi romanzi.
Scriveva racconti e romanzi a puntate per i giornali dei collaborazionisti e frequentava gli ufficiali della Kommandantur che si dimostrarono sempre generosi con lo scrittore, rilasciandogli fin da subito un lasciapassare che gli consentiva di girare senza problemi a bordo di una costosa auto sportiva per tutti i territori occupati dai tedeschi.
Subito dopo la fine della guerra, al tempo della resa dei conti, Simenon preferì riparare negli Stati uniti, prima a New York e poi in Arizona. Tornato dopo molti anni in Europa, si stabilì in Svizzera e tornò in Francia una sola volta in veste ufficiale come presidente del Festival cinematografico di Cannes, dove strinse una forte amicizia con Federico Fellini. Negli Usa era andato, come dissero alcuni suoi amici, solo per “evitare fastidi” con la giustizia francese che si era peraltro mostrata molto severa con alcuni scrittori collaborazionisti: da Louis Ferdinand Celine, che avrebbe trascorso otto anni in un campo di internamento, fino a Drieu la Rochelle, suicida dopo la sua fuga disperata a Sigmaringen, in Germania, e a Robert Brasillach, fucilato per “collaborazionismo con il Terzo Reich”. Un processo, quest’ultimo, che si aprì e si chiuse in un solo giorno. In tutto sei ore. Il giorno seguente, il generale De Gaulle respingeva la domanda di grazia presentata dagli avvocati del giovane scrittore.

Mario Gazzeri
Pubblicato il 22 ottobre 2015