Monsignor Zuppi non è uno che se ne sta con le mani in mano. Non era ancora arrivato che già incontrava lavoratori in lotta per il posto di lavoro. E, in questi giorni, i soldi Faac per i disoccupati, il dialogo forte con Unindustria, perfino l’annuncio della marcia per la pace, dopo anni, a Bologna. Dunque una chiesa bolognese che passa dagli anatemi al dialogo, a valori sociali condivisi e alle cose da fare, una chiesa che mette al centro della propria missione la terza delle “virtù teologali”, la carità. È chiaro che una chiesa così ci sembra più somigliante al Vangelo che è chiamata a proclamare “dai tetti” (quei tetti rossi di Bologna così belli ma così poco simbolici, ormai). Ma se continuiamo a sottolineare questa fase “rivoluzionaria” della gerarchia cattolica bolognese non è per amore di dibattito teologico, bensì perché questo ruolo così netto sembra costringere ad arrancare chi per lavoro si occupa di lavoro, diseguaglianze, bene comune: dai sindacati alla politica. Che infatti finiscono per giocare di sponda, dare l’idea di arrivare sempre un po’ dopo e dunque in obbligo di ricordare – vedi la lettera del presidente della Regione ieri su queste colonne – ciò che si è fatto e quanto sia in linea con la “linea Zuppi”. Un ribaltamento curioso, anche se le gare non interessano all’arcivescovo di Bologna, e meno che meno a noi. Come curioso che sia Matteo Zuppi a rilanciare quel “modello emiliano” che la sinistra da anni sta cercando di far dimenticare autoaccusandosi di superbia. Ammetterete che un po’ da pensare viene.

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