Un metro e novanta d’altezza e centosette chili di peso. Troppi. Una decina in eccesso. Donald Trump, settant’anni, è sovrappeso. Ai confini con l’obesità. Ha il colesterolo alto, per ridurre il quale assume regolarmente le statine e un’aspirinetta. Che il suo fegato urli e abbia bisogno di essere placato con farmaci, è ovvio: Trump è un junk food aficionado, come l’ha definito il New York Times in un articolo sull’esibita preferenza del miliardario aspirante presidente per il cibo spazzatura delle grandi catene, McDonald’s, Burger King, Kentucky Fried Chicken. Notoriamente indisciplinato, lo è ancora di più a tavola. Se eletto, Trump potrà essere giustamente considerato il primo fast food president d’America.
Sicuramente nel corso della sua campagna elettorale ha tenuto e tiene a presentarsi così, mentre con le posate dorate con lo stemma Trump e leggendo il Wall Street Journal, affronta un pollo fritto KFC o un Mc Donald’s burger e patatine a bordo del suo aereo privato (per festeggiare la sua nomination) o elogia la bontà del Big Mac in un’intervista con la Cnn o pubblica su twitter una foto mentre mangia, seduto nel suo ufficio nella Trump Tower, un taco bowl, icona del cibo mex.
A sentire il suo maggiordomo, non beve né caffè né tè, zero alcolici, ma litri di Diet Cola, adora hamburger e polpettone, gli spaghetti, la bistecca molto, molto ben cotta (“dura come un sasso”), ha un debole per i cioccolatini See’s Candies, insomma gli piace proprio il cibo che piace alla classe media e ai poveri che non possono permettersi altro, la platea a cui si rivolge con le sue istrioniche esibizioni, comprese quelle gastronomiche, notoriamente, per qualsiasi candidato in qualsiasi parte del mondo, momenti chiave di una campagna elettorale.
Se non è autentico, recita bene. Ecco perché, a dispetto dei suoi miliardi, si trova in sintonia e in connessione con la maggioranza degli americani a basso e medio reddito che lo considerano uno di loro.
Con loro condivide un’alimentazione che fa dell’America la nazione con il più alto numero di obesi e di sovrappeso al mondo (due americani su tre sono obesi o sovrappeso) e alle prese dunque con un dramma sociale ormai considerato alla stregua di un’epidemia senza fine (120.000 decessi ogni anno sono collegabili a un’alimentazione sbagliata ed eccessiva, 147 miliardi di dollari sono spesi ogni anno negli Usa per cure mediche legate alle conseguenze dell’obesità, molto diffusa nell’infanzia).
Che distanza abissale da Barack e Michelle Obama, che hanno fatto della corretta e sana alimentazione e dell’educazione alimentare uno dei capisaldi della loro presidenza, con un evidente sguardo alle comunità africane americane flagellate dal consumo di bevande frizzanti ipercaloriche e di cibo spazzatura, comunità dove obesità, diabete, disturbi cardiocircolatori e malattie collegate alla cattiva alimentazione mietono più vittime di una guerra, anche tra bambini e adolescenti.
In particolare Michelle è stata molta attiva nel diffondere il verbo dell’alimentazione corretta e, sfidando i prevedibili sfottò, ha fatto del suo orto biologico nella Casa Bianca un capitolo fondamentale della sua narrativa di first lady sensibile a una delle principali emergenze nella vita sociale americana.
Non è una posa. Gli Obama stessi sono attentissimi all’alimentazione e alla dieta. Barack mangia sano e pratica lo sport, la pallacanestro e il golf. Si tiene in forma. La sera, se vuole fare uno spuntino, non apre il frigo per ingozzarsi nevroticamente di quel che trova ma mangia sette mandorle sette. Perfino Michelle lo prende in giro per la sua inattaccabile sobrietà. Nelle sue acide memorie del periodo accanto a Obama, il suo factotum personale, Reggy Love, racconta la pignoleria, secondo lui maniacale, dell’allora senatore e aspirante presidente nel seguire una dieta ferrea, pesce e carne alla griglia, insalate, niente roba fritta, niente dolciumi. Lunghi silenzi più duri di una strigliata seguivano le inadempienze di Reggy.
In compenso gli Obama di tanto in tanto si concedono pranzi ricercati nei migliori ristoranti. Prediligono la cucina italiana. A Chicago, la loro città, è la Spiaggia, nel Magnificent Mile, il loro ristorante preferito, e fu lì che festeggiarono la decisione di correre per la presidenza degli Stati Uniti.

Un’immagine da un falso account twitter di Donald Trump
E i Clinton?
Bill era notoriamente un divoratore seriale di cheesburger ‘n’ French fries e di cibo spazzatura, fino a che il cuore messo quasi fuori gioco non gli ha consigliato di cambiare radicalmente registro. Adesso è vegano (o quasi: si concede salmone selvaggio, che fa bene alla circolazione e gliel’ha ordinato il medico). E si vede com’è asciutto, ancora di più in confronto con le foto dei tempi degli stravizi, su ogni fronte. “Non sarei qui se non fossi diventato vegano”, ha confidato conversando con la chef-star Stacey Dougan, profeta della dieta vegan.
Hillary sa bene, con l’esperienza delle precedenti campagne elettorali, come “far bene politica significhi scegliere con attenzione quel che mangi”. Da quando è in corsa per la presidenza, rinuncia all’irrinunciabile pollo fritto e ai biscotti della catena Bojangles, e quando entra in un locale tex-mex sceglie l’insalata. E poi yoga e ginnastica. Indossa un contapassi Fitbit e il suo staff, nell’organizzarle gli spostamenti, deve individuare in ogni tappa hotel con stanze spaziose per i suoi esercizi e in location dove può fare lunghe passeggiate in sicurezza.
Nelle campagne elettorali americane, il cibo conta. Conta nella salute dei candidati, che poi, se eletti, avranno posti di alta responsabilità, dove è bene essere in forma, non essere soggetti agli sbalzi di umore tipici di chi digerisce male ma avere la lucidità che solo una buona alimentazione ti consente. Conta anche quello che il cibo racconta di te. Obama fu messo alla gogna per aver usato l’esempio della rucola, di fronte a una platea di contadini dell’Iowa, per denunciare gli assurdi ricarichi di prezzo dal momento del raccolto alla rivendita: “Qualcuno di voi è stato di recente a Whole Foods? Avete visto quanto fanno pagare la rucola”. Sembrava un marziano di fronte a contadini che, allora, non sapevano cosa fosse la rucola men che meno la coltivavano e identificavano Whole Foods come il negozio simbolo dell’élite liberal coi soldi.
Nel 2003, a Filadelfia, nella sua campagna presidenziale, John Kerry entrò nel Pat’s King of Steaks, dove puoi ordinare una steak con (“wid”) or senza (“widdout”) cipolle ma sempre col formaggio Cheez Whiz (o, talvolta, provolone). Kerry ordinò svizzero. The Philadelphia Daily News commentò:“Il democratico del Massachusetts avrebbe potuto pure ordinare un Appenzeller (costoso formaggio svizzero stagionato)”. John Kerry, per il solo fatto di essere un bostoniano con un retroterra giovanile in Europa, era lo zimbello della stampa di destra che lo considerava unAmerican. Quando la moglie, Teresa Heinz, confessò che John era come il vino, che invecchiando migliora, apriti cielo. Il vino? Lo bevono gli europei, l’America della classe operaia beve birra.
L’America del vino e l’America della birra, l’America di Starbucks, dove la lista è in italiano e un “caramel macchiato” costa quattro dollari, e l’America di Dunkin’ Donuts, dove un “cuppa joe” o “cup of joe” (cappuccino) costa la metà, l’America di Whole Foods e quella di WinCo o Aldi. Due stili di vita, due Americhe. Le élite progressiste e la classe lavoratrice conservatrice.
Per molti versi, la distanza si è davvero ridotta, anche rispetto solo a una decina d’anni fa. Nei supermercati, anche quelli low cost, dell’Iowa c’è la rucola e ci sono tutti i prodotti un tempo “europei”, e sugli scaffali degli alcolici il vino prevale sulla birra, vino di produzione statunitense, con etichette di tutto rispetto. E il settore degli alimentari “organic” sono enormi dappertutto.
Eppure sembra che Trump abbia riattivato un film che sembrava ormai del passato, di un’America liberal, radical chic, chiusa nei suoi quartieri, prigioniera dei suoi tic elitari, egoista, distante dai problemi di “Joe”, il cittadino medio americano, a cui è stato rubato anche il diritto di sognare.
Importa che Barack sia figlio, abbandonato, di un immigrato kenyota e Michelle sia cresciuta nel ghetto nero di Chicago? Le loro scelte non indicano uno stile di vita che andrebbe imitato, ma dimostrano, secondo i loro detrattori, una distanza aristocratica dalla gente comune. Mentre il miliardario immortalato con il Big Mac, lui sì è vicino a Joe, è come Joe, non importa se il suo è un messaggio che incoraggia il massacro alimentare di milioni di americani.

Il libro di Michelle Obama, 2012, nel quale racconta l’esperienza dell’orto nella Casa Bianca avviato nel 2009
A settant’anni, se sarà eletto, Donald Trump sarà il presidente più anziano al primo mandato. Il certificato medico che il suo medico personale, Harold N. Bornstein, ha reso noto nei giorni scorsi non desta allarme, ma è già ben diverso da quello ottusamente trionfalista di qualche mese fa. Di certo, se la sua passione per il Big Mac è autentica, c’è di che preoccuparsi, dovesse essere lui il prescelto, l’8 novembre.
Essì, se si voterà anche sulla base delle cartelle mediche dei due candidati, c’è da sperare che la polmonite passeggera di Hillary sia considerata davvero un’inezia di fronte al colesterolo galoppante di The Donald.

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